La Repubblica (ed. di Palermo) 09.09.2001
Camilleri: "C'era una volta un contadino che salì sul trono"
Esce il 12 ottobre "Il re di Girgenti", il nuovo romanzo dello scrittore
ispirato a una storia realmente accaduta.
Si narra la vicenda di Michele Zosimo che nel Settecento aveva trasformato
Agrigento in un regno indipendente
Millesettecentodiciassette: per i Piemontesi, arrivati in Sicilia quattro
anni prima, sono gli ultimi mesi di dominio nell'Isola, e la controversia
con la Santa Sede attraversa il momento più virulento. L'anno successivo
gli Spagnoli avrebbero riconquistato per ventitré mesi la Sicilia,
che sarebbe finita il 6 maggio del 1720 nelle mani degli austriaci.
In questo tormentato contesto storico è ambientata la vicenda
narrata nella sua ultima fatica da quel picciotto di settantasei anni di
Porto Empedocle, Andrea Camilleri, l'asso pigliatutto delle librerie. Con
Il re di Girgenti, il nuovo libro che, dopo vari annunci e rinvii, uscirà
finalmente il dodici ottobre per la Sellerio, Camilleri torna al romanzo
storico, dopo Il birraio di Preston, La concessione del telefono e La mossa
del cavallo.
«La città fu atterrita. Zosimo ne colse il destro, e veduto
contro il suo mal procedere un partito potente e nemico, disarmò
tutti i nobili, e volle farsi dire re»: sono le parole di Giuseppe
Picone che, nelle Memorie storiche agrigentine, racconta questa bizzarra
parentesi di anarchia, durante la quale fu fatto sovrano un contadino e
che ha dato la stura alla fantasia di Camilleri. «Per la verità
- racconta lo scrittore - l'idea mi è venuta, all'inizio, grazie
a un curioso librettino, una monografia su Agrigento, in cui in quattro
righe si diceva che la città di Pirandello, all'inizio del Settecento,
era diventata regno indipendente, con a capo un contadino, Michele Zosimo.
Questa notizia mi fece letteralmente sobbalzare. Rintracciai l'autore di
quella monografia, e questi mi rivelò che per la premura di pubblicare
il libro, si era basato su materiale di seconda mano. Cominciai allora
ad indagare, ma nessuno ne sapeva niente. Sembrava che non ci fosse stata
barba di storico a raccontare questa strana vicenda, finché nella
biblioteca comunale di Porto Empedocle non mi imbattei nell'opera del Picone,
il quale dedicava due pagine all'accaduto, raccontando la cosa tutta dalla
parte del potere. Successivamente mi sono tornati utili due libri sul Settecento
siciliano, pubblicati da Sellerio, dove ho letto che questo Zosimo era
un contadino terribile, abituato a bere vino con polvere da sparo. Visto
però che non trovato granché, ho pensato bene di inventarmi
di sana pianta questa storia».
Ma che struttura ha dato al suo libro, visto che lei, relativamente
ai romanzi storici, ha sempre scelto un impianto particolare: Il birraio
con una ricerca temporale ben precisa, La concessione del telefono con
il misto di epistolario e le cose dette...
«La struttura è abbastanza singolare: nella prima parte,
che ho veramente inventato ab imo, ho cercato di immaginare come Zosimo
fosse stato concepito, e quindi tutte le peripezie che avrebbero portato
alla sua nascita. Di seguito ho inserito alcuni cenni sulla sua infanzia
e sulla giovinezza, come in una vera opera di storia, e così di
seguito. Ho lavorato su questo romanzo per cinque anni e mezzo, ma alla
fine penso di avere trovato la forma giusta».
Ha affrontato problemi di ordine linguistico, visto che la vicenda
è ambientata nel Settecento, e per di più il protagonista
è un contadino?
«La mia è stata una ricerca dura e faticosa, considerato
che finora ho utilizzato, nel caso di Montalbano e dei protagonisti dei
precedenti romanzi storici, un linguaggio piccolo e medio borghese. Il
linguaggio contadino invece è diverso; quello della fine del Seicento
poi è ancora più diverso. Il problema è stato dunque
di renderlo in un modo che ne conservasse la forza, e però guadagnasse
in comprensibilità. All'inizio del libro faccio ricorso ad un siciliano
con commistioni spagnole, mentre nella seconda parte campeggia un siculoitaliano,
che rispecchia la parlata dei contadini».
Quest'operazione richiama in un certo senso la traduzione che Pirandello
fece del Ciclope di Euripide. Si è per caso servito di quel testo?
«Sta alla base di questo nuovo romanzo. Pirandello in quel caso
ha adoperato due tipi di dialetto. Il dialetto borghese, quello di Ulisse,
un soldato che ha viaggiato molto, uno che "ha fatto il militare a Cuneo",
come direbbe Totò, con un siciliano misto di parole. E poi il dialetto
splendidamente contadino del Ciclope, che è una sorta di massaro.
Questo mi ha insegnato la diversificazione. Devo poi dire che Adriano Sofri,
recensendo L'odore della notte si è accorto di alcune nuove sfumature
nel mio linguaggio. Ha saputo intravedere il salto compiuto».
Il lungo tempo di lavorazione, il complicato scavo nel linguaggio,
l'affannosa ricerca negli archivi: possiamo considerare Il re di Girgenti
l'opera della sua vita?
«Non c'è ombra di dubbio che tengo molto a questo romanzo,
ma c'è un rischio: l'opera che si considera come quella rappresentativa
di tutta una vita, spesso non si rivela tale. Basta pensare, tanto per
fare un esempio illustre, al caso di Petrarca: lui reputava la sua opera
più impegnativa e importante l'Africa. Mentre sappiamo che l'autore
del Canzoniere è rimasto famoso nella letteratura italiana per la
storia di Laura. Anche per questo ho molta paura».
È il caso di parlare di una svolta?
«I cambiamenti ci sono: il registro è diverso, come pure
il linguaggio. Si tratta di una storia quasi ariostesca, fiabesca e realistica
nello stesso tempo. E poi spero di essere riuscito a rendere bene sulla
pagina la civiltà contadina di quegli anni».
Salvatore Ferlita