Stilos (supplemento letterario de La Sicilia) 02.10.2001
In arrivo il romanzo che ha impegnato Camilleri per molti anni. Da una labile notizia storica il grandioso affresco di un’epoca restaurata a tinte fiabesche, nell’inconfondibile stile di uno scrittore che offre la sua prova più riuscita e matura.

INTERVISTA
PARLA L’AUTORE
Ho ripreso la tradizione orale

Camilleri, la prima osservazione che viene in mente è questa: ma vedi un po' cosa è venuto fuori da una vaga notizia storica. Lei si diverte a scrivere, si vede. Si è divertito anche stavolta?
"E' sempre presente in me il divertimento che dà la scrittura, ma stavolta c'è stato anche un impegno maggiore. Mi sono comunque divertito molto. Del resto se così non fosse non scriverei."
Mai un suo libro è stato così ricco di personaggi: li ha contati?
"No, non mi è capitato. Ma sono tanti sì."
Non so se si è accorto che, forse inconsapevolmente, la vita di Zosimo ricalca quella di Cristo: la nascita in un'aura di prodigio con la risata invece dei primo vagito, e poi i fatti straordinari della giovinezza, il ,silenzio sugli anni appena precedenti quelli dell'epilogo, la corona di spine quando è incoronato re e soprattutto quei cinque gradini fino al patibolo che sentono tanto dell'ascesa al Golgota. E' una coincidenza?
"Sa che non ci ho mai pensato? Che facendosi mettere la corona di spine in testa, Zosimo richiamasse chiaramente Cristo è quanto volevo evocare, questo sì: è il segno di un potere particolare e Zosimo si incorona così perché è credente. Ma, detto questo, non ho mai pensato a un parallelo tra le due figure. Probabilmente dentro di me ha agito una cultura cristiana emergente. E' certo comunque che il risultato non è stato assolutamente intenzionale."
Eppure sovvengono altri significati a pensarci: Zosimo che si immola in nome di una comunità che crede in lui, Zosimo che divento martire...
"Ma vede, la differenza è sostanziale. Zosimo è conscio di fornire una illusione, mentre gli altri capipopolo - compreso lo stesso Cristo che esito a citare - non offrono illusioni ma certezze terrene prolungabili nell'Aldilà."
Certamente ha comunque voluto dare di Zosimo l'idea di un eroe, addobbandola di caratteri che non poteva avere: trovare nel '600 un bracciante capace di parlare latino e di leggere e scrivere è un'assurdità.
"Non c'è dubbio. l'idea è quella di una grossa favola a tratti ariostesca, almeno come lo leggo io l'Ariosto, senza riferimenti alla storia se non che Michele Zosimo è realmente esistito. Del resto, una biografia che comincia con sessanta pagine su come uno viene concepito mi sembra il segno di una finzione assoluta."
Con la particolarità (nel senso sciasciano di favoritismo) che usa nei confronti del suo protagonista, lei si rivela totalmente dalla parte di Zosimo, così come Sciascia lo era da quella di Diego La Matina. Sono gli eretici dell'ordine costituito che l'attraggono?
"E' vero. Se fosse vissuto, Sciascia non avrebbe cambiato opinione secondo lei? E' questo mio, come quello di Sciascia, un tono siculo, di una certa coerenza da mantenere fino in fondo."
Quando il capitano di giustizia saluta ai piedi dei patibolo Zosimo gli si rivolge in italiano, perché, lei scrive, "se il momento è quello che è bisogna adoperare il siciliano per non essere considerate persone di scarto". Anche lei si serve più dell'italiano che del siciliano "quando il momento è quello che è": se cioè non favorisce il riso ma il pianto, se il dramma prevale sulla commedia oppure il saggio sul romanzo.
"Ciò faccio perché l'italiano è la lingua ufficiale, documentale: con l'italiano ogni pronunciamento passa agli atti, senza possibilità di equivoco."
E' concepibile un romanzo del genere, scritto com'è scritto, in riferimento a un altro comune d'Italia che non sia siciliano?
"No, non è concepibile. Almeno io non concepisco di scrivere se non come scrivo. Del resto, non mi dispiace affatto e non penso assolutamente di dover cambiare."
Il re di Girgenti è un romanzo tra lo storico e il picaresco, dove troviamo venature boccaccesche ma anche, come rivela lei, ariostesche. Ricorda i romanzi settecenteschi dei tipo Tom Jones di Fielding o dickensiani che procedono per accumulazione di fatti, che hanno un po' il senso del bildungroman, dove insomma l’aspettativa del lettore è legata non all'intrico ma all’avventura. Un libro il suo che sembra pensato quindi per poter piacere anche ai ragazzi, se non fosse per certe scene divertenti ma decisamente spinte.
"Certo, ci sono delle scene forti. Il problema è che in questo libro la parte greve ma anche divertita è tutta nel concepimento, dove non si possono fare omissis. Ma è anche un libro di avventure, come dice lei, e quindi si potrebbe semmai raccontarlo ai ragazzi. Non pensavo di potere scrivere per ragazzi, ma a un certo punto la Mondadori ha fatto diverse edizioni per le scuole dei racconti e mi sono reso conto che in fondo potevo anche essere letto da quella platea. "
C’è un grado di improbabilità accentuato nel romanzo che lo spinge nei territori della fiaba: Zosimo che parla a sette anni, le monache che fanno le cecchine, fosse piene di serpenti, miracoli e magie, giganti e stregoni, erbe medicamentose e acque rigeneranti. Fiaba quindi più avventura.
"Tutto questa miscela faceva parte di una certo cultura orale contadina che ho assimilato. Avevo quattro anni quando un villano che si chiamava Minicu mi raccontava una quantità di storie fiabesche e avventurose che erano articolate proprio in questo modo. Per sentirle arrivammo a una specie di contratto: io gli davo un pacchetto di Milit, le sigarette che davano ai soldati italiani, con tanto di "travi" dentro, e lui mi raccontava due storie per volta."
Tra Ottocento e Novecento la Sicilia in particolare ha vissuto una lunga e significativa stagione sotto il magistero dei cosiddetti demopsicologi che indagavano, positivisticamente, la natura dei villani. Uno in particolare, Serafino Amabile Guastella, scrisse un libro, Le parità e le storie morali dei nostri villani, che è popolato di figure come il suo Michele Zosimo e che è anche una prova narrativa oltre che scientifica.
"E allora le dico che proprio questo libro l'ho letto e riletto molte volte nel corso degli anni in cui è durata la stesura dei romanzo. Le parità è stato un supporto continuo. Le cose che ho scritto dei villani le conosco proprio attraverso Amabile Guastella."
Oltre che Calvino, che gioca anch'egli nel suo libro (il Calvino che era con Sciascia un ammiratore di Guastella), ho ritrovato la stessa atmosfera di Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez: di una storia infinita, ricchissima di personaggi e di meraviglie, di digressioni e di messe in abisso.
"Non ne ho tenuto conto. Se poi c'è anche Marquez non mi sorprendo: molte cose vanno a coincidere tra mondi lontani, contadini e contadini o ambienti marinari. Una volta mi capitò di dare a Sciascia un racconto marinaro che avevo scritto anni prima e che lui non poté pubblicare perché scoprì che Jorge Amado aveva scritto due storie analoghe che io sconoscevo."
Uno dei risultati più efficaci è la mescidazione tra siciliano e spagnolo, che credo sia del tutto originale e sperimentale. L'effetto è suggestivo, perché non solo si scoprono tante assonanze tra le due lingue al punto che si confondono, ma si ottengono echi musicali riusciti ed esiti esilaranti. Un capolavoro d'invenzione è senz'altro la parte che riguarda i dialoghi tra Gisuè e il duca de Pes y Pes. credo che tutto questo le sia costato molto lavoro.
"Il procedimento che ho seguito è stato di ripetere quello che avevo già fatto col genovese in La mossa del cavallo. Il segreto è di infilarsi nelle orecchie una lingua. Per lo spagnolo ho letto gli autori del siglo de oro fino a rendermi familiare un certo suono, dopodiché ho usato grammatica e vocabolario. Non ho mai studiato lo spagnolo, ma il professore Morino a cui mi sono affidato per le correzioni è arrivato a chiedermi se conoscevo la lingua. Io semplicemente mi sono affidato a una invenzione di scrittura. "
Eppure è vero spagnolo.
"E' vero spagnolo, che non potevo peraltro nemmeno storpiare come ho fatto per il siciliano."
Il suo romanzo conto vaste parti storiche, che però disorientano sembrando borgesiane: non si sa se siano aderenti al documento storico oppure se siano anch'esse interpolate: lei comunque mostra un interesse e un gusto sciascisni per le microstorie e gli storici locali. In qualche modo ha riscritto alla suo maniera la storia di Agrigento tra Seicento e Settecento, facendosi novello periegèta.
"Buona parte dei libro è falsa. L'unica cosa che è presa "para para" sono le leggi di Zosimo che sono opera dell'abate Meli."
Di vero c'è anche Picone, lo studioso agrigentino.
"Picone? Picone l'ho stravolto, soprattutto nella parte che riguarda i giorni della presa del potere."
E Principato, altro supposto storico, di cui riporta brani interi, è frutto allora della sua fantasia?
"Sì, tutto inventato. Le rivelo una cosa. Tutta la parte storica era stata costruita in un altro modo. Nei vari anni in cui il libro è stato scritto, a un certo punto la somma degli eventi era diventata tale da doverla assolutamente ridurre. Allora mi è venuta l'idea di fare una tavola cronologica con note, documenti e testimonianze tutte rigorosamente false. La nota cronologica era vera ma tutto il resto era falso. Ma mi resi conto che questo appesantiva molto il flusso narrativo, lo interrompeva. Se ne accorse anche mia moglie. Perciò ho preso tutti questi finti documenti (salvo le citazioni del povero Picone) e li ho travasati dentro."
Quando il libro era già pronto e consegnato lei lo riprese in mano e lo modificò. In quali parti è intervenuto?
"Appunto nelle centoventi pagine di documenti che sono entrati dentro come fatti."
In tutti i suoi libri, anche quelli dei ciclo di Montalbano, gli uomini dello Stato, prefetti e carabinieri, che sono l'opposto dei siciliani, sono piemontesi. E guarda caso piemontesi sono anche i nemici che Zosimo vince e a cui lei ha tolto il piacere di giustiziarlo preferendo che fossero altri siciliani a farlo. Non ha voluto concedere neppure questo ai Savoia.
"No, nemmeno questo: ma non ai piemontesi quanto appunto ai savoiardi. Il Piemonte è una delle zone del Nord che mi legge di più e sarebbe una gratuita offesa."
Montelusa e Vigàta rimangono topoi irrinunciabili anche qui, dove c'è pure contrada Crasto che abbiamo visto nel Cane di terracotta. E c'è anche Fiacca, se si vuole. Vuole dunque rimanere fedele alla sua cosmogonia?
"E' così, tanto è vero che ho dovuto far sì che fosse Zosimo a battezzare il paese Girgenti, altrimenti avrebbe dovuto essere il re di Montelusa."
Questo è il suo romanzo più lungo e impegnativo. Il mercato deciderà se è anche il più bello. Per lei è comunque il prediletto.
"Sa, per la prima vota ho paura. Ci sono esempi di scrittori più grandi di me che sono rimasti delusi davanti al mercato. Capita che un libro cui si tiene più degli altri è quello che non viene altrettanto amato dai lettori. Ma spero che così non sia".
Gianni Bonina