Un "cunto" di "Cronica"
Il risvolto di copertina del Re di Girgenti.
Il cielo è tutto un presagio. E la terra un prodigio. In questo
romanzo di Camilleri, che un'escursione compie nel mondo della fantasia.
Tra dolenti tenerezze e corrotti desideri. Tra conquassi e magici incanti.
Tra asprezze di vita e corrotti desideri. A iscrizione di fortuna. E sempre
sul filo dei divertimento, come in un gioco di teatro. Anche quando il
mondo è posto in maligno; ed è flagellato da siccità,
carestia, peste e terremoto. Gran fatti, e portentosi, accadono in Sicilia.
Sullo scorcio del Seicento. E all’inizio del Settecento. Eventi fuori dal
comune. Che la narrazione di Camilleri insegue, nei loro lunghi avvolgimenti.
E la scrittura rende spettacolari: ora incline al grottesco, ora al visionario;
dispiegandosi tra le "miserie" guittesche di Callot e i "capricci" di Goya;
tra la sensualità dei mistici dei Siglo de oro e la ferinità
degli istinti. E' una "storia", Il re di Girgenti. Ma anche un "cunto".
E un récit-poème, con il suo vibrato poetico. E' la
biografia fantastica, infine, di un capopopolo: del contadino Zosimo, che
nel 1718 divenne re di Girgenti; e prima di essere tradito da un giuda
gentiluomo, e finire sulla forca, riuscì a regalare un "sogno" di
dignità ai suoi affamati e scalcagnati sudditi. Un "sogno": che
è il picco più avventuroso e rivoluzionario della fantasia.
"Come fu che Zosimo venne concepito". Comincia con questo titolo
la prima parte della biografia di Zosimo. Con un attacco che finge di essere
cronachistico. Per adeguarsi a un modello da indovinare, o da inventarsi.
Per tornare ai tanti "come fu" che scandiscono la Cronica detta
di Anonimoromano del Trecento, ma di fatto scritta da Bartolomeo di Iacovo
da Valmontone. Un capolavoro, che dei tribuno dei popolo Cola di Rienzo
raccontò il sogno di una restaurata grandezza repubblicana; e la
morte straziata. E neppure si ricorderebbe la Cronica, qui, se non
fosse per la qualità delle due opere; e per quella solidarietà
di scrittura, che il dialetto di Camilleri rende tanto necessario e naturale,
quanto il romanzesco dei cosiddetto Anonimo. Tutto un popolo di figure
deliziosamente assurde, strambe, o lepide, si muove nel gran teatro dei
romanzo. A partire dal valletto Cocò, con le sue effeminate cacherie.
Fino al mago Apparenzio. A don Aneto, che fa l'amore con gli afrori. E
allo spiritato padre Uhù, che con il diavolone Zaleos dialoga, uscito
fuori dalle acque a cavallo di coccodrillo; e con i diavolacci tutti contrasta,
dopo avere scoperto il proprio "potere", affrontando un esercito di morchiose
e indemoniate lumache. Conta anche la "cornice", in questo romanzo. Che
l'accordo con la morte, e con la sua qualità indolore, mette in
scena. Nell'antefatto secentesco. E nell'epilogo settecentesco. Con il
futuro padre di Zosimo, Gisuè, che suo malgrado salva dalla morte
un principe suicida, e la stesso principe poi aiuta a suicidarsi. E con
il finale precipizio della vita di Zosirno. Il re contadino sale i sei
gradini dei patibolo. E si trova faccia a faccia con i fantasmi della propria
vita. Procede a tappe, verso la sommità. Sono attimi intensi, che
contano quanto le sei giornate della creazione. O meglio, della ricreazione
della vita nella morte. Zosimo muore, sollevato dal fantastico aquilone
che lui stesso ha costruito e liberato nel venticello del mattino. "Quale
occhio può vedere se stesso?", si chiedeva Stendhal. Un condannato
a morte non può vedersi morto. Eppure Zosimo apre, ancora una volta
come in un gioco di teatro, e con gioia infantile, la sua ultima scena.
Si tiene allo spago dell'aquilone. E guarda giù, nella piazza. Vede
un palco. E vede un corpo inerte, che penzola dalla forca. Ride. E' l'ultima
rivincita della fantasia.
Salvatore Silvano Nigro