La Stampa 09.11.2001
«IL RE DI GIRGENTI»: NEL NUOVO ROMANZO DI CAMILLERI, TRA STORIA E INVENZIONE, UNA RIVOLTA CONTADINA DI INIZIO `700 E IL SUO ESAGERATO PROTAGONISTA

ANDREA Camilleri racconta in una nota come venne a conoscenza di Zosimo, un contadino che nel 1718 capeggiò ad Agrigento una rivolta contro nobili e borghesi, ottenendo dai suoi un effimero titolo di re. Erano poche pagine, poche righe di storici locali che lasciavano nel vago la vicenda, incompiuta la figura del personaggio. Sicché fu indotto a scriverne di suo una biografia, «tutta inventata», a costruire il romanzo intitolato appunto Il re di Girgenti. Biografia è definizione approssimativa, come lo sarebbe quella di romanzo storico. La storia, si sa, ha avuto cultori appassionati tra gli scrittori siciliani (da De Roberto a Pirandello, da Lampedusa a Sciascia, Bufalino e Consolo) come se fossero costretti a misurarsi con una ferita non rimarginata, con un groviglio inestricato. L´inventore del commissario Montalbano per la prima volta ci si prova anche lui, costeggia e tenta quel territorio che sembra tuttavia troppo limitato per la sua esuberanza espressiva: per un romanzo che - tra memoria di genti e paesi, risentimenti civili e allettamenti fantastici, echi letterari e scavi linguistici - vuole essere un libro «totale». L´attenta ricostruzione ambientale, l´aderenza a una realtà terragna e plebea che inclina al grottesco, hanno bisogno di alimentarsi con altri succhi, che derivano dalla cantata popolare, dal poema eroicomico, dalla favola (come lasciano intendere certi incipit: «La matina istissa di quanno capitò quello che capitò», «Si cunta e si boncunta...»). Il re di Girgenti è un romanzo che procede dilatandosi, con digressioni e invenzioni di sempre nuove storie e personaggi. Come appare dal lungo antefatto, peraltro molto divertente, dove si raccontano i casi di Giosuè, che anticipa, con tratti più elementari, appena scortecciati, il figlio Zosimo. Entra in scena mentre strappa alla morte suo malgrado (la prima idea era quella di depredarlo) un nobile precipitato in un burrone. Salvo poi a dargli manforte quando si impicca per debiti di gioco. Cominciano di qui le disavventure di Giosuè, che ne uscirà con l´aiuto dei compaesani e con la sua furbizia bertoldesca (gli capiterà fra l´altro di ingravidare una principessa, a richiesta del marito, afflitto da «impotentia generandi»). E´ secondato dalla sua donna, Filònia, sulla quale si appuntano le brame di un campiere. Ma se ne sbrigherà concedendogli soltanto di annusare l´afrore delle sue parti nascoste. Intorno, è un brulicare di «giornatanti», bravi, capitani di giustizia, preti: fra i quali si distingue frate Huhù, asceta e negromante, amico dei contadini, che rotea la croce come una Durlindana e manifesta una chiara vocazione all´auto da fé. E´ un mondo che si confronta a ogni passo (tra sottomissione e rivolta) con l´alterigia e la prepotenza dei «grandi», che sono tra l´altro i detentori di una sia pure artefatta, strumentale cultura. Recitano «O animale grazioso e benigno», «Sembrano stocchi d´erbaspada», mentre la principessa in foia declama a suo vantaggio (con una implicita parodia) le espressioni d´amore del Cantico spirituale di San Juan de la Cruz. La prospettiva cambia con la nascita meravigliosa di Zosimo. Simile a Gargantua, appena uscito dal grembo materno ride a gola piena; a tre mesi sputa il latte e mangia sarde salate; a sette mesi si mette a parlare come un grande e, ancora ragazzo, legge i libri che gli fornisce frate Huhù, vincendo le diffidenze della madre: «I libra so´ cosa dannata, portano guerra, morti e malannata». Più avanti compirà veri e propri prodigi (la lotta con il terremoto) che, insieme alla precoce saggezza, lo designeranno capo della sua gente. Zosimo si esercita come uomo di consiglio nel tempo della siccità (che comporta un assalto sanguinoso ai viveri ammassati dal vescovo) e della peste. Ma crede di trovare la sua grande occasione quando il potere dei baroni sembra compromesso dallo scontro fra i savoiardi di Vittorio Amedeo (diventato re di Sicilia in base al trattato di Utrecht) e gli spagnoli. Con il suo esercito di villani occupa Agrigento, taglieggia nobili e borghesi pur frenando la furia omicida dei rivoltosi, incide sul tronco di un sorbo le leggi del suo buon governo, che si ispira a un moderato egualitarismo. Non si illude sulla durata del suo esperimento, ma è convinto che valga la pena «regalare un sogno» ai seguaci. Il tradimento e la caduta dell´improvvisato regno lo conducono ai gradoni del patibolo. Mentre giunge «al som de l´escalina», gli vien da dire come trasognato: «Ara vos prec» (ora vi prego) ripetendo le parole che Arnaut Daniel rivolge a Dante nel Purgatorio. E infilando il collo nel cappio si aggrappa al filo di un aquilone, quello dei giochi infantili, che lo solleva sopra la piazza ammutolita, sulla forca, sul suo stesso corpo penzolante. La storia di Zosimo, così toccante nei suoi momenti estremi, si conclude con una apoteosi, con un sogno a occhi aperti che Camilleri ha voluto concedersi. E´ anche, in tutto il romanzo, una apoteosi del dialetto siciliano, al quale siamo assuefatti del resto dai suoi libri precedenti. Non so quanto sia normativizzato e semplificato. Certo non comporta grandi difficoltà di lettura, le parole più ostiche si indovinano a senso e talvolta Camilleri provvede, senza parere, a darcene l´equivalente italiano. Parlano in dialetto i villani e il narratore in terza persona che, anche da questo lato, solidarizza con loro. Mentre i «vilains», che sarebbero le persone di riguardo, parlano in lingua italiana, magari contaminata con il castigliano, come conviene a questa storia ambientata in una Sicilia baronale, inquisitoriale e spagnolesca. E´ una scommessa, quella del dialetto, che Camilleri ripropone imperterrito e che, nel Re di Girgenti, riesce a una straordinaria densità e felicità espressiva.
Lorenzo Mondo