Il Sole 24 Ore - Supplemento Cultura 04.11.2001
E Zosimo volle farsi re
Di Giovanni Pacchiano

Quella macchina a produzione continua che è Andrea Camilleri. Eccolo, a pochi mesi di distanza dal suo ultimo "Montalbano", "L'odore della notte", uscire con un romanzo storico, e per giunta scritto con larghissima prevalenza di dialetto siciliano, "Il re di Girgenti".
Storia, ambientata in Sicilia, fra Seicento e Settecento, del contadino Zosimo, capopopolo che per breve tempo fu, appunto, "re di Girgenti", in seguito a una sollevazione popolare contro i Savoia, cui l'isola era stata assegnata dopo i trattati di Utrecht (1713).
Opera ambiziosa, per la quale qualcuno ha già profuso lodi come dinanzi a un capolavoro; libro discontinuo - vorremmo dire noi- come discontinua è tutta l'abbondante (anche troppo) produzione di Camilleri. No, non nascono spesso romanzieri come Simenon, capace di sfornare più di un libro all'anno mantenendo un livello altissimo, e di alternare con naturale sapienza la produzione poliziesca a quella "seria".
Quanto a Camilleri, ottimo intrattenitore letterario, amabile scrittore, a volte anche giallista di razza (il suo recente "L'odore della notte" è un libro godibilissimo), lui, saltella un po' affannato tra Montalbano e le ricostruzioni storiche, tra il costume e il folklore: sempre con la stessa prosa rotonda, ritmata: ritmo buono, fluido, accattivante, che trascina tutto con sè, contenuti, personaggi, situazioni, senza farci soffermare troppo sui dettagli. E sui difetti.
Per il fatto che è la stessa virtù espressiva, pregio dei romanzi di Camilleri, a risultare, anche, nel contempo, il punto debole: ogni volta che si trasforma in virtuosismo, fastidioso nel suo compiacimento camuffato da spigliatezza e bonarietà. Così come l'espandersi (ciò che accade nel "Re di Girgenti") del dialetto. Più che pura necessità dello scrittore, che ritrovi nella matrice dialettale la SUA forma, l'unica adatta a enunciare la materia rappresentata, il dialetto appare, in Camilleri, vernicetta, colore, gioco virtuosistico, tacito ammicco. Ed è proprio una più larga prospettiva virtuosistica a dilagare nella storia dell'uomo che volle farsi re e che ne pagò, col patibolo, la conseguenza. Dove aleggiano, implicitamente evocate dallo stesso autore, grandi ombre del passato. Dal Boccaccio, per la gioia di raccontare: che qui invece viene anche troppo esibita nella ridondanza dell'interminabile storia narrata. Al Manzoni, per i capitoli su carestia e pestilenza: e però sbrigativi, nè elevati dai drammatici sovrasensi etico-simbolici che determinano l'assolutezza delle parti storiche dei "Promessi sposi". Alla "Vita di Cola", nel comune utilizzo
del dialetto - siciliano contro romanesco- in una cronaca storica. Oltre che per l'analogia dei destini di due capipopolo. Ma si avverte, in Camilleri, un onesto, rispettabile desiderio di contendere con tali antenati; e peccato che venga tradito dal candore artificiale di cui è spruzzata la vicenda; non dissimile da quello, tanto più ingenuamente naif, dei cantàri popolareggianti tre-quattrocenteschi. Ha, di fatto, un buon attacco il romanzo:scanzonato e divertente. Raccontando, per tutta la prima parte, di gran lunga la migliore (115 pagine: un romanzo nel romanzo), gli antefatti alla nascita di Zosimo. La vicenda dei genitori, i "braccianti agricoli stascionali" Gisuè e Filònia.
Coinvolti nelle traversie del principe don Filippo Pensabene, candidato al suicidio per aver perso tutti i suoi beni al gioco contro l'orrido don Sebastiano Pes y Pes. E' il disegno di una commedia degli errori, plebea e paesana; una trama tra farsa e dramma, che si allarga al contrastato rapporto fra popolo e aristocrazia, variegata e fitta di personaggi. Resoconti di vite di agi e vite di fatica, che si incontrano sul terreno del sesso. Tra le pagine più felici e ribalde, infatti, il congresso carnale di Gisuè con la moglie dello sterile duca Sebastiano. O le smanie del campiere don Aneto per gli afrori del corpo di Filònia. Meno bene procede il romanzo quando entra in scena Zosimo: che è, sorprendentemente, la figura più debole, perchè vista dall'esterno, pretesto per narrare per il gusto di narrare più che persona concretamente sentita e vissuta. Raccontata col tono favoloso ma officiante del cantafavole colto che si veste dei panni del popolo, e calata in una serie prolungata (anche troppo) di exempla: capitoli come riquadri statici, parabole. Anche se si riprende nel finale, la leggenda di Zosimo, assumendo il sangue e la carne del dramma del re tradito. Sino ai toni epico-lirici della morte, in un'immaginifica, quanto figurale, ascensione al cielo: sogno sognato dallo stesso Zosimo, che si libra su in alto, dopo l'impiccagione, ormai svagatamente lontano dalle miserie degli uomini.