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Nonno Camilleri racconta
E' una favola bella e triste "Il re di Girgenti". Che narra la storia
di una "Repubblica degli eguali" nella Sicilia del Settecento
di Michael Landsbury
Siamo nel 1718, all’inizio di un secolo pieno di speranze che finirà
con una Rivoluzione «i cui effetti non sono ancora finiti»,
come amava dire il leader cinese Chou En Lai. Un giovanissimo capopopolo,
Zosimo, proclamato dai poveri di Agrigento “Re di Girgenti”, viene portato
sul patibolo dai soldati monarchici che hanno ripreso il potere dopo una
breve rivoluzione contadina. Un attimo prima di essere impiccato il ragazzo
vede comparire un filo sottile accanto al suo viso ancora di bambino. Alza
gli occhi e si accorge che è la stella cometa in forma di aquilone
che lo ha sempre accompagnato nella vita. Afferra quel filo. L’aquilone
lo solleva, lo porta in alto, lontano da tutto e da tutti. Vede sotto di
sé, appeso alla forca, solo un sacco vuoto.
È una favola quella che racconta Camilleri con “Il re di Girgenti”.
Una favola bella, assurda e un po’ stramba che ha all’origine una storia
vera dimenticata, quella della brevissima vita della Repubblica di Girgenti
(come si chiamava Agrigento fino a qualche secolo fa). Da anni il popolo
era affamato e stanco delle sopraffazioni dei nobili. Guidato da un giovane
contadino insorse e realizzò un sogno: una società di eguali
senza classi e ingiustizie. Il sogno, ovviamente, durò poco.
Il romanzo di Camilleri, ai primi posti della classifica dei libri
più venduti appena uscito, è la storia del giovane che guidò
le speranze di quelle donne e di quegli uomini. Zosimo era nato da una
famiglia poverissima, ebbe la fortuna di imparare a leggere e scrivere
grazie a un frate eremita, padre Uhù. Studiò il latino, le
sacre scitture. Fin da piccolo dimostrò un carattere forte, da condottiero.
Intorno a lui, nel romanzo, ruotano personaggi che sembrano usciti
da una favola: il valletto effeminato Cocò, il mago e imbroglione
Apparenzio, il padre “sciupafemmine” Gisuè, don Aneto che si eccitava
con le donne solo a sentirne l’odore, lo spagnolo Don Sebastiano Pes y Pes, nobile e cornuto. Poi compaiono diavoli, vergini, santi e briganti.
I luoghi sono quelli da sempre cari a Camilleri: Montelusa, Vigàta
e Girgenti. Il mondo raccontato è fantastico, grottesco, colorato
e “infantile”: una piccola rappresentazione teatrale barocca.
Scritto come al solito in siciliano, “Il re di Girgenti” è di
facile lettura. L’autore non potrebbe usare un’altra lingua. A volte, leggendo
Camilleri, viene da chiedersi se i suoi libri avrebbero lo stesso sapore,
scritti in italiano. Non sarebbe banale il suo personaggio di successo,
il commissario Montalbano, se parlasse come Dante e Manzoni? Sì,
sarebbe pedante e noioso. Sarebbe come se un investigatore creato da Chandler
o Hammett non avesse il vizio del whiskey.