Solo in Italia è concepibile e leggibile un romanzo come "Il
re di Girgenti".
Un romanzo scritto in una lingua locale e personale, in un dialetto
ben noto e illustre, un idioletto fantasioso e preciso, nel siciliano di
Andrea Camilleri. Perché solo in Italia? Perché solo in Italia
un dialetto ha ancora forza di lingua, e tanto più ce l’ha quando
questo dialetto è il siciliano, primo idioma poetico della nostra
letteratura, volgare mai uscito dalle patrie lettere (si ricordi il Meli
qui esplicitamente menzionato), da poco riaffermato alla grande dalle sue
apparizioni nei molti, fortunati romanzi dello stesso Camilleri e di altri
importanti scrittori della regione.
Stavolta, però, il dialetto reale e reinventato dall’esuberante
estrosità verbale dell’autore non si limita a rivestire punti precisi
e limitati del testo –come perlopiù sinora nei precedenti romanzi
dello stesso autore- né a svolgere un ruolo narratologico importante
ma non esclusivo- come invece nella "Mossa del cavallo" (Rizzoli, 1999;
cfr. "L’Indice", 1999, n.7).
Nel "Re di Girgenti" questo dialetto è la lingua di tutto il
romanzo, del narratore e dei personaggi, occupa ogni spazio e si adatta
a ogni situazione, lasciando all’italiano solo pochissime finestre: dove
si simula un forbito linguaggio da storiografo barocco tipo "Promessi Sposi",
dove si parodiano e ripudiano i modi linguistici solenni del potere e dell’ipocrisia,
dove si fissa con la crudezza dello standard la vittoria della cupa tragedia
sull’ilare commedia, cioè quando "Il mumento è quello che
è" e "di nicissitate assoluta abbisogna adoperari il taliano", perché
il protagonista sta salendo sul palco dove sarà impiccato. Per tutto
il resto del lungo romanzo l’idialetto (verrebbe da coniare questo neologismo)
di Camilleri la fa da protagonista, frutto di una ricetta linguistica divertita
e sapiente che riesce a raccontare i fatti come se si trattasse della solita
lingua media e strumentale necessaria ai romanzi, e al contempo riesce
a imporsi in primo piano come se fosse l’oggetto rappresentato, il personaggio
principale, la vera storia. Senza sovraccarichi di realismo meridionalistico
e senza troppe intellettualistiche ambizioni parodiche, il personalissimo
siciliano di Camilleri scorre fluido e leggero ed è lingua capace
di stabilire il rapporto giusto con le cose narrate, di affettuosa ironia,
di disincantata lontananza, di partecipe solidarietà.
Per chi, come me, è convinto che il romanzo abbia bisogno di
una lingua non troppo invadente, perché sono la storia, i personaggi
eccetera a dover occupare il primo piano; per chi, insomma, si ostina a
credere che l’evidenza dialettale, i pasticci linguistici sono un limite
più che un pregio, ancorché certo siano una caratteristica
unica della nostra letteratura, questo libro è sulle prima un segno
di contraddizione e sconcerto: allora, viene da chiedersi, si può
scrivere un romanzo in una lingua fortemente differenziata, particolare,
mezza vera e mezza finta? Sì, si può scrivere un ottimo romanzo,
come lo è "Il re di Girgenti", ma resta in piedi anche l’apriori,
la pregiudiziale della lingua, gli basta che sia ben comprensibile (per
intenderci un romanzo in bergamasco non sarebbe possibile) e che sia unica,
la stessa, senza troppe variazioni; insomma se la scelta è monolinguistica,
il romanzo accetta perfino un idioma vistoso e specifico, invasivo e incomparabile
(ma ben dominabile da qualsiasi lettore per via della sua vicinanza fonomorfologica
alla lingua nazionale) come il dialetto siciliano manipolato da Camilleri,
che stabilisce in esso la propria, pur originalissima, medietà,
la sua regola. Questa regola è collocata ai confini dell’accettabilità
linguistica comune, e la lingua adottata, ancorché uniforme, irrompe
sulla pagina con strepito e colore, eccede con garbo, diverte con misura,
non infastidisce mai e lascia sempre ammirati. Mi limiterò a citare
alcune delle terne di esclamazioni che uno dei personaggi si lascia sfuggire
tutte le volte che può soddisfare il suo particolarissimo gusto
(e olfatto) sessuale: "Oh muschio sarbaggio! Oh radica di liguorizia! Oh
resina di pino!… Oh marvasìa liguorosa! Oh mieli di Grecia! Oh zuccaro
di zammù!".
Ma non vorrei che si pensasse che il romanzo di Camilleri ha il suo
bello solo nella lingua. Perché c’è del buono anche (e come!)
nella storia, nella girandola di vicende e invenzioni che precedono e accompagnano
la nascita, caratterizzano la vita e segnano la morte di un re contadino,
Zosimo, nella Sicilia del primo Settecento. Gremita è la galleria
dei personaggi, alcuni magistralmente ritratti, anche se (eccetto il protagonista)
tutti sempre dall’esterno: don Aneto Purpigno, il menzionato amante di
odori, Gisuè, il padre intraprendente del futuro estemporaneo re,
il nobilotto spagnolo e spagnolesco don Sebastiano Pes y Pes, sua moglie
Isabella, il capopopolo mastro Girlando, lo spiritato padre Uhù,
l’esoso vescovo Raina, il poeta Grigoriu che parla solo in endecasillabi,
il mago Apparenzio ecc. Più di una volta, già lo abbiamo
visto, Camilleri fa il verso all’archetipo dei romanzi storici italiani,
a quei Promessi Sposi anch’esso ambientato in regimi spagnoleggianti
e nei pressi del barocco: una citazione è quasi il lungo capitolo
sulla peste, in cui si ripetono e si rovesciano scene (scienziati che negano
l’evidenza della malattia perché contraddice la teoria, vescovi
che fanno processioni contro di essa e ne favoriscono il contagio) celeberrime
del romanzo manzoniano.
Da una storia si va in un’altra, da una vicenda ne spunta fuori una
nuova e tutta diversa: il romanzo è un’invenzione senza risparmio,
una corsa senza soste e rallentamenti che intriga e fa pensare. Camilleri
ci ha messo davvero tutto: da una citazione dell’Arnaut Daniel rifatto
da Dante nella Commedia a un’autocitazione attraverso un antesignano
del suo famoso Montalbano, di cui questo settecentesco capitano di polizia
parodia pure il nome: Montaperto. Del resto, nell’onomastica c’è
una delle più strabilianti esibizioni linguistiche del libro, che
recupera, crea, maneggia nomi stupendi e spesso li mette in fila come in
"Ciccina aviva diciotto anni e mezzo, era figlia di Martino Lanzafame e
di Locurzio Giuseppa e aveva quattro frati, Luzzu, Gaspanu, Totu e Vicè"
o "i patri Siqueiros, Benavente, Azis, Maccagnuna, Perez, Llorente, Menendez
y Pelayo e Tamarit" (e nella stessa pagina c’è anche "il familiare
Benito Cereno") o in questa sequela di "don" terminata con un diverso,
esilarante rintocco: "I giurati che governavano Montelusa, a parte il sinnaco
e consultore don Tindaro Dedomini, erano don Alterio La Seta, don Filiberto
Giardina, don Occàso Barbèra, don Silvestro Cozzo e din Tinino
Titò. Proprio accussì la genti lo chiamava, "din", per farlo
sonare a parte da tutto quello scampanìo di "don", pirchì
quanno parlava, caminava, taliava, pariva priciso una fìmmina e
non un omo".
"Il re di Girgenti" è un libro cui non bisogna certo chiedere
quello che non può e non vuole dare (personaggi a tutto tondo, riflessioni
profonde). Ma se gli si chiede di essere un inno alla fantasia e alla libertà
di narrare, come lo è la "comerdia" di carta che il protagonista
libera in cielo da bambino e pochi istanti prima di morire, allora risponde
in pieno. Ne possono ben sintetizzare ragioni e qualità le parole
con cui Zosimo, sorridendo, spiega a un nobile quello che sta facendo per
i suoi sudditi contadini, da sempre umiliati dalla fatica e dal bisogno:
"Non lu capirete mai quello che gli sto dando… Non potiti, pirchì
nun aviti patitu la fami, la miseria nìvura. Ma vi dico l’istisso:
ci staiu arrigalannu un sognu". E un sogno cinematografico, tipo il finale
di American Beauty, è proprio l’ultima pagina del romanzo,
coi tetti della città visti dall’alto e, su di essi, i paesani curiosi
e immalinconiti che danno in silenzio l’addio al re povero che li ha fatti
sognare. Al lettore, chiudendo il libro, non resta che fare come il "marchisi"
alle parole di Zosimo, e inchinarsi "fino a terra".
Vittorio Coletti