Prima di essere scrittore di larghissimo successo, Andrea Camilleri
ha fatto parte di una famiglia strana, un po’ carbonara: quella dei teatranti.
sì il suo albero genealogico traspare anche dai romanzi (Il birraio
di Preston è tra i più bei racconti mai orditi introno
alla quotidianità del teatro), ma con il suo nuovo libro appena
pubblicato da Rizzoli, Le parole raccontate (propriamente un Piccolo
dizionario dei termini teatrali, come spiega il sottotitolo) Camilleri
fa di più: cerca di attrarre al teatro chi con quella famiglia non
ha legami. Il trucco è svelare i segreti: lavare i panni sporchi
in pubblico, per così dire; ricamando storie e leggende, misteri
e qualche luogo comune sulla vita d’ogni giorni di chi trascorre la vita
dietro e davanti alle quinte, avvolto in un alone di finzione costante
e mirando a riprodurre il mondo vero con il suo piccolo artigianato scenico.
Il libro si compone di tre parti: la prima, più corposa, è
propriamente una spiegazione divertita di alcuni termini propri del gergo
teatrale, da "Alrecchino" a "Testo"; la seconda è il resoconto stenografico
di una breve prolusione tenuta da Camilleri agli allievi del Teatro Verdi
di Pisa; la terza è la trascrizione dell’intervista collettiva che
a quella prolusione seguì. In appendice, poi, un breve testo di
Roberto Scarpa illustra fugacemente il legame di Camilleri con il teatro.
Che è un legame cementato in un lungo sodalizio con Orazio Costa
Giovangigli, poi in un centinaio di regìe per il palcoscenico e
per la tv, infine con due decenni di docenza (materia: regìa) all’Accademia
d’arte drammatica di Roma. Ebbene, anche se la narrativa di Camilleri è
sommamente teatrale (propensa al dialogo, oltre che, in senso lato, alla
"rappresentazione" dei fatti, e anzi in tale elemento ha una delle sue
migliori peculiarità) questo nuovo libro non va letto tenendo a
mente Montalbano e Vigàta: piuttosto, è un atto d’amore per
i riti della scena. Ci sono i ricordi di scena dell’autore, ci sono decine
di aneddoti divertenti (dalle papere alle recensioni scritte senza assistere
allo spettacolo); ci sono brevi ma deliziosi ritratti (torna spesso, per
esempio, accanto a Orazio Costa, anche quello che sembra essere stato il
vero maestro di stile di Camilleri: Silvio D’Amico); poi c’è una
costante predilezione per l’artigianato contro il fuoco dell’arte, che
spesso brucia le migliori intenzioni, in teatro. Ne viene fuori un Camilleri
perfetto mestierante delle illusioni, sulla scia della grande tradizione
del teatro popolare italiano. Anzi se c’è una conclusione da trarre,
chiusa l’ultima pagina del libro, è che l’Italia ha sempre avuto
paura di questa su amagnifica "tradizione popolare" che va dalle maschere
della Commedia dell’Arte all’amato (da Camilleri) avanspettacolo. Forse
perché nessuno ha saputo fino in fondo estrarre da quel modello
scenico, pur così affine alla quotidianità del pubblico,
ai suoi sogni, alle sue paure e alle sue delusioni, il senso di autorappresentazione
dell’Italia nel suo complesso. Si è preferito vagheggiare allori
poetici che non sempre hanno cinto le teste di autori e registi, come sperato.
Ecco, in questa chiave, la voce del dizionario dedicata al lemma "regìa"
è al tempo stesso spassosa e inquietante, poiché mette in
fila i difetti accumulati dalla scena italiana (ma non solo) nel corso
del Novecento, sempre all’inseguimento di missioni religiose o politiche
improprie rispetto alla realtà e alle emozioni degli spettatori.
C’è un’ultima annotazione da fare. Camilleri si dilunga sul
personaggio simbolico di un certo "Godò" che, nel teatro italiano
dell’Ottocento, avrebbe raffigurato il tipico impresario di compagnia insolvente:
quello sempre atteso dagli attori, ma che immancabilmente non arrivava
e lasciava gli interpreti senza paga. Chissà, si chiede Camilleri,
se Beckett conosceva questa leggenda quando ha scritto Aspettando Godot?.
Ebbene, non sappiamo se la leggenda sia autentica o sia stata inventata
da Camilleri per l’occasione: ciò non toglie che in essa sia racchiuso
il senso, alto e basso al tempo stesso, del teatro. Speriamo che anche
questo, come tutti gli altri volumi di Camilleri, vada a ruba nelle librerie:
sarebbe una piccola rivincita per la famiglia, strana e sempre più
carbonara, dei teatranti.
Nicola Fano