La Repubblica, 14.1.2001
Camilleri e Pirandello per il grande Turi Ferro
di Franco Quadri

Il più bel regalo a Turi Ferro per il suo ottantesimo compleanno l'ha fatto Andrea Camilleri fabbricandogli un nuovo Pirandello su misura, ispirato a una novella adocchiata da tempo dall'attore, non a caso era già tra i materiali usati dai Taviani per la sua interpretazione nel film Tu ridi. Ma Ferro vive da sempre per il teatro e trovandosi riaperte dopo un grave malinteso le porte dello Stabile di Catania, che gli deve molto del suo prestigio, ecco l'occasione per rientrare nell'universo del suo autore preferito, con il linguaggio rimesso a nuovo in una novità assoluta. La cattura esalta con un po' di bizzarria una solitudine: quella del vecchio Guarnotta, sempre vestito a lutto non sapendo darsi pace per aver perduto ancora ragazzo l'unico figlio, e solito appartarsi sulla sua asina in un selvaggio ritiro naturale. Lì, un giorno, viene rapito da tre sequestratori in erba di cui riconosce l'identità sotto i bavagli, e gettato in una grotta; ma il ricatto non potrà riuscire se non liberandolo, perché è il solo a poter toccare i suoi beni. Anzi spiega ai tre giovanotti, coscienti di aver sbagliato, che potrebbero liberarlo e affrontare la denuncia solo se scegliessero la malavita, mentre "per tornare sulla buona via" gli toccherebbe farlo sparire uccidendolo: e questo eccesso logico che rovescia la logica rivela un po' di Pirandello nel personaggio, in cui lo stesso Ferro sembra riconoscersi per la sua adesione sconvolgente. I ragazzi decidono nell'adattamento di finirlo, e non solo per un effetto scenico, ma non ce la fanno. E si rassegnano a tenerlo lì in un "ergastolo" all'addiaccio, al quale il vecchio sulle prime si ribella, pur intuendo di realizzare per costrizione una scelta sognata, fuori dal mondo ma dentro la natura, tra persone elementari che ne assorbono le lezioni. Per ribadire il contrasto Camilleri, di cui è nota la propensione al giallo, gli inventa il controcanto della società civile, mostrandoci le trame della moglie subornata da due avidi nipoti, che tramite un becchino e un cadavere rubato si appropriano dell'eredità, arrivando al grottesco di un falso funerale. Intanto nella grotta platonica si sviluppa il mito. Il Guarnotta fattosi patriarca, curato dalle mogli dei balordi, trova un amico in uno dei loro bambini, realizzando il suo sogno di paternità frustrata e rivalutando la vita attraverso quell'espiazione purgatoriale. Morirà appagato come chi ha trovato un senso, mentre il bimbo impara a far volare l'aquilone e ci regala pure una morale: «Solo quando non si è più padroni di niente, si può essere padroni di tutto». Camilleri si concede un surplus finale alla melassa, ma la teatralizzazione dell'asciutto racconto è assai efficace e trova fluidità nella regia di Giuseppe Dipasquale, anche grazie alla felice soluzione scenica di Antonio Fiorentino per cui il simbolico antro coi cambi di luce si idealizza dando trasparenza ai contorni rupestri, mentre in una sua striscia alta si stampano le sequenze ironicamente truci dell'altra realtà, dove Ida Carrara si toglie con classe la maschera di moglie sottomessa, accanto a Pietro Montandon, Daniele Gonciaruk, al superbo becchino di Gian Paolo Poddighe, mentre dall'altra parte si nota l'immediatezza di Sergio Vespertino, Rosario Minardi, Loredana Marino e il piccolo Valerio Mascolino. Ma a catturare era la grandezza di Turi Ferro, tutto istinto e verità, quasi al limite di un'improvvisazione che una pausa converte in illuminazione metaforica, vero maestro, celebrato prima da una mostra fotografica e dopo da un trionfo con festa sul palcoscenico animata dal presidente del teatro Pippo Baudo con emozionate parole del protagonista, torta con candeline, champagne di 43 anni e molte lacrime.