Il Manifesto, 18.1.2002
Sette ragioni per una politica di battaglia
La resistibile ascesa di Berlusconi e gli errori capitali dei dirigenti Ds. Che avrebbero dovuto fare un'opposizione forte e intransigente, senza opportunismi politici. Capace di opzioni forti, come il rifiuto della guerra. C'è infatti un vuoto di rappresentanza politica in Italia. Tra le posizioni troppo moderate dei Ds - schiacciati sull'Ulivo - e l'antagonismo di Rifondazione. Per evitare l'americanizzazione della politica, bisogna riavviare un'opposizione più unitaria, efficace e combattiva, su terreni comuni. Una rete di rapporti che sappia sconfiggere il centrodestra e costruire una politica di sinistra per il nuovo secolo. Esce la prossima settimana in libreria il libro "Per tornare a vincere. La mozione Berlinguer al congresso Ds di Pesaro, 16-18 novembre 2001", edito da Baldini e Castoldi. Il libro (256 pagine, 9,80 euro) raccoglie gli interventi degli esponenti dei Ds che hanno sostenuto Giovanni Berlinguer a candidato segretario, gli ordini del giorno e il testo della mozione. Per gentile concessione dell'autore, ne anticipiamo la prefazione, di Andrea Camilleri.

Questo non è uno scritto politico, è il tentativo di chiarire (soprattutto a me stesso) il perché di alcune scelte personali.
Sono nato nel 1925 e, fin dai diciotto anni, sono stato sempre con il Pci, ora da iscritto ora da compagno di strada ora da simpatizzante. Chi non sa cambiare idea è uno stupido, sento proclamare in questi nostri felici giorni: pazienza, sarò infinitamente stupido perché non riesco a cambiare idea né sulle mie convinzioni politiche né sul mio vivere privato né sulle norme della convivenza civile né sull'arretrata (ne convengo) consuetudine di chiamare mafiosi, ladri e malfattori i mafiosi, i ladri e i malfattori.
Non voglio qui fare la storia dei miei personali, altalenanti rapporti con il Pci, mi preme però chiarire che giudicai la svolta di Occhetto storicamente inevitabile, ma che non seppi trovare in me le giustificazioni sul perché essa avveniva in quel modo e in quel momento. Continuai però a votare per i candidati che il partito presentava, spesso mugugnando.
Lo scoppio di "Mani pulite" non mi destò, sinceramente, sorpresa (erano storie che correvano sulle bocche di tutti); mi sorprese, semmai, che esistessero dei magistrati ancora in grado di ritrovare uno scatto d'orgogliosa indipendenza. E potevo dire ai miei amici stranieri, che me ne chiedevano: "Sapete, noi comunisti, il problema della questione morale l'avevamo posto già da tempo".
A conti fatti però stavo in letargo. Mi svegliò, bruscamente, l'annunziata "discesa in campo" (come epicamente ama definirla) del Cavaliere. Avevo, e ho, buona memoria. Per costituire il suo impero televisivo, Berlusconi aveva agito con continui colpi di mano, con azioni piratesche d'occupazione dell'etere, con la politica del fatto compiuto, aggirando le leggi che non gli permettevano di coprire, con un programma trasmesso in contemporanea, l'intero territorio nazionale. Un pretore minacciò di oscurare le sue trasmissioni. E i suoi referenti politici, Craxi in testa, corsero ai ripari. Ci furono addirittura rimpasti ministeriali lampo, ma le leggi pro-Berlusconi vennero approvate tutte con la supina acquiescenza o la blanda, blandissima, opposizione della sinistra che non capì assolutamente nulla della partita che si stava giocando.
Dopo "Mani pulite", Berlusconi si vide privato dei suoi referenti politici e seriamente minacciato dalle inchieste giudiziarie. Ricordo benissimo le sue dichiarazioni politiche di allora: "Se agite contro di me, mandate sul lastrico i miei quarantamila dipendenti!". Anche la sua situazione economica non era delle più felici: addirittura gli mancava il contante per pagare la fiction a puntate.
Si diede alla politica, seppe presentarsi alla pubblica opinione come forza innovatrice. Ma come, lui che era il frutto rappresentativo della prima Repubblica? La sinistra non capì la vastità del pericolo e non seppe fare il suo dovere. Quale? Essendo proprietario di tre televisioni, di un giornale, di case editrici, la sinistra avrebbe dovuto pretendere, e lo poteva fare, che Berlusconi risolvesse il conflitto d'interessi prima di candidarsi. Non l'ha fatto. Perché? E quando la sinistra è andata al governo come mai non ha posto con forza il problema? O l'ha posto solo negli ultimi giorni? E ancora peggio: come mai non si è previsto che se la Bicamerale falliva il guasto derivante avrebbe significato il rafforzamento di Berlusconi e dei suoi alleati?
Gravissimi errori di strategia politica che stiamo scontando duramente. A petto di questa situazione io, come scrittore, mi sono sentito in dovere d'intervenire. Ho scritto e pubblicato alcune favolette sul Cavaliere, ho firmato il manifesto Bobbio-Sylos Labini, ho dato interviste, ho pubblicato su Micromega alcune "Lettere dal futuro prossimo" (ma la realtà ha superato la mia scarsa fantasia, vedi la questione Giustizia).
Avevo naturalmente messo in conto gli sberleffi della destra contro di me, ma tutto m'aspettavo meno le accuse di "politicamente scorretto" e di "demonizzazione del Cavaliere" che mi sono arrivate dalla sinistra. Sempre da sinistra, sono stato "giustificato", in questi termini: "Che volete, è uno scrittore". Come a dire, è uno che non sta coi piedi per terra. Per fatto personale, dirò che prima delle ultime politiche, Folena mi offrì di candidarmi nel seggio senatoriale di Agrigento e che io rifiutai perché non mi sentivo la forza fisica di sostenere una campagna come la volevo, vale a dire rivolta, con continui comizi e incontri, tanto al recupero dell'elettorato moderato e centrista quanto al riappropriamento dell'elettorato dei quartieri popolari. Sull'Unità dell'11 dicembre 2001, Antonello Cracolici, attuale segretario 
regionale siciliano dei Ds, parlando dei risultati elettorali dopo il ballottaggio, afferma che essi sono "la dimostrazione concreta che l'analisi di Andrea Camilleri ha colto nel segno".
Per questi motivi, e per altri, quando Paolo Flores d'Arcais mi chiese se ero d'accordo con lui nell'appoggiare la candidatura di Giovanni Berlinguer a segretario politico dei Ds aderii prontamente. Perché?
Prima di tutto Berlinguer non era un politico di professione e questo era di per sé un elemento positivo in tempi nei quali la professione (appunto) del politico sembra consistere essenzialmente nella ricerca di ogni compromesso possibile e anche di ogni compromesso impossibile. E il nostro partito era arrivato al punto di barattare la primogenitura per un piatto di lenticchie.
Secondo: Giovanni Berlinguer è un uomo della mia età (e qualcuno, su questa storia dell'età, azzardò imbecilli ironie), vale a dire che ha ferma memoria della continua presenza di quei valori che, dalla Resistenza fino (ahimè) a qualche anno fa, di sé costantemente informavano la vita nazionale, politica e no. Da quei valori Berlinguer non solo non si sarebbe discostato, ma anzi ne avrebbe ravvivato la presenza nel nostro partito.
Terzo: Berlinguer avrebbe evitato l'ulteriore e, a mio avviso, letale scollamento tra partito e sindacato.
Quarto: Berlinguer avrebbe tentato il recupero a sinistra, in quella classe operaia che così largamente ci ha abbandonato senza che nessuno si preoccupasse di domandarsene il perché e il percome, tra i disoccupati, tra i nuovi poveri che ogni anno aumentano esponenzialmente. E tra i delusi di una politica parolaia, intercambiabile, che decidono di non votare più e si avviano a diventare il primo partito italiano.
Quinto: Berlinguer sa benissimo che il nostro è un partito di governo, ma sa anche che essere partito di governo non significa l'adesione incondizionata della nostra politica estera a quella di chi si è autoeletto a rappresentante ufficiale della "civiltà occidentale". Anzi, una coraggiosa e motivata scelta indipendente è il vero segno di un forte partito di governo. Sarò rozzo e brutale: a non fare la guerra, quando tutti la fanno, ci vuole più coraggio, più saldezza di ragioni, più profondità di convincimenti, che a farla.
Sesto: la certezza che Berlinguer sarebbe stato capace di una opposizione forte e intransigente, senza cedimenti per opportunismi politici.
Settimo: perché le ragioni che hanno mosso Berlinguer a candidarsi attengono alla morale e all'amore che egli nutre per il partito, non alla voglia di una poltrona. Credo ne abbia di più comode a casa sua.
Andrea Camilleri