Il Sole/24 Ore,
27.1.2002
Fermo Posta
Il "Camillerese" è soltanto virtuosismo?
Gentile Giovanni Pacchiano, ho letto sul "Domenicale" del 4 novembre
2001 la sua, non proprio entusiastica, recensione dell'ultimo romanzo di
A. Camilleri Il re di Girgenti. Le scrivo perché, da "divoratrice"
dei libri di Camilleri e dell'inserto culturale di sopra, non sopporto
più le fredde recensioni, solo leggermente intiepidite, nel caso
de La scomparsa di Patò che ho letto e ricordo e, almeno dai cenni
che ne fa nell'articolo in questione dal titolo "E Zosimo volle farsi re",
dell'Odore della notte, da lei definito un libro "godibilissimo", scritte
sui libri del Nostro. Ho letto, con entusiasmo e piacere, con vero "otium
legere", praticamente tutte le opere di Camilleri, che trovo, molto modestamente,
nel mio piccolo "angolo" non solo un unicum nel nostro panorama letterario,
nel senso di creatore di un genere di intrattenimento medio, che non mi
sembra poi molto nutrito di scrittori, ma anche un intrattenitore-conversatore,
quasi indispensabile, sia nelle "buone" che nelle "cattive" opere.
Certamente non è mio compito elencarle e classificarle anche
perché, da estimatrice del Nostro, non sarei di certo obiettiva,
ma almeno su un aspetto ritengo di non voler più "sopportare" le
sue affermazioni e, per quanto possibile, ribatterle. Il dialetto, che
lei addita come "il punto debole" è a mio avviso il nucleo fondante
dell'universo Camilleri. La lingua usata, il "virtuosismo" linguistico
intriso di "bonarietà", secondo l'articolo citato, rappresenta nel
romanzo in questione quanto di più riuscito fin'ora, in quanto polarizzante,
nell'oscurità delle espressioni gergali, l'universo euristico del
Camilleri scrittore, fatto di esseri, stati d'animo, espressioni della
mente e del corpo dei suoi personaggi.
In quanto al Manzoni, leggendo il romanzo, e soprattutto le pagine
riferite alla peste, ho manifestato al mio compagno, il giudizio che, secondo
me, dopo le pagine del Manzoni sulla peste, quelle scritte da Camilleri,
mi perdoni per la "commedia", mi sono sembrate "veristicamente" le più
riuscite. Almeno, però, condivido con lei la scelta delle pagine
più "felici", quelle del "congresso carnale" di Gisue con donna
Isabella e le pagine spassosissime sulla degustazione odorosa, del corpo
di Filonia,
da parte di Don Aneto; non le ricordano vagamente, in alcune parti,
"il profumo" di Suskind?
Per concludere la parte finale, la quinta intitolata "Come fu che Zosimo
morì", la consiglierei a tutti coloro che non temono la morte, ma
la vedono come un appuntamento, l'unico, certo, che la vita porta con sé.
Rosanna D'Urbano (Pennadomo - Chieti)
Gentile Rosanna D'Urbano, da un lato non posso che rallegrarmi con Lei
per la sua fedeltà a Camilleri. C'è, nella sua peroratio
a favore dell'autore, il trasporto del lettore che, innamorato di uno scrittore
e della sua opera, è indotto a privilegiarne in blocco l'intera
produzione, senza porre in atto distinzioni. E' un atteggiamento comprensibile
e, per certi versi ammirevole nella sua assolutezza, in un mondo, come
il nostro, incapace di vere passioni. Le confesserò che anch'io
coltivo liberamente le mie predilezioni private, non tanto nel campo della
narrativa, dove m'è d'obbligo, per ragioni di etica professionale,
cercar di sottoporre un primo entusiasmo o una prima ripulsa al vaglio
della ragione (ed è perciò che le sembro freddo), quanto
in quello del cinema (tra i miei registi "intoccabili", l'inglese Michael Powell: quello, per intenderci, di Scarpette rosse; fra le attrici, la
bellissima e bravissima Elisabeth Shoe). Perciò non mi stupisco
che, da ammiratrice di Camilleri, Lei morda il freno di fronte alle diverse
riserve che ho via via espresso nei confronti del suo autore. Ho l'impressione,
tra l'altro, che ormai il pubblico e parte della critica (preciso: parte
della critica, perché mi è capitato di riscontrare perplessità
che condivido in articoli di Giulio Ferroni e di Marco Belpoliti) accolgano
ogni nuovo libro di Camilleri in maniera aprioristica, pronti ad apprezzare,
elogiare, applaudire incondizionatamente. Va anche detto che ha molto giovato
al persistere della fortuna del commissario Montalbano (fortuna che, peraltro,
inizialmente, Camilleri s'è procurato con le sue proprie forze)
la straordinaria simpatia del Montalbano televisivo, l'eccellente Luca
Zingaretti. D'altra parte, col procedere del tempo e col moltiplicarsi
dei nuovi libri immessi da Camilleri sul mercato (ho sempre diffidato degli
autori troppo prolifici, a meno che non si tratti di grandi eccezioni come
Balzac o Dickens), s'è fatto via via più palese il meccanismo
che li governa. Rivelandone, nel contempo, i limiti. Certo, Camilleri è
un ottimo intrattenitore. E tuttavia, la sua lingua "polarizzante" eccetera
come Lei la definisce -, cioè la mescidazione di italiano e
dialetto siciliano, non risulta altro (lo ribadisco) che pura vernicetta
virtuosistica. Facendo leva, infatti, soltanto sulla coloritura delle parole;
mentre, guarda caso, la sintassi rimane italiana, italianissima, e normativa.
Strano, per uno che, attraverso il linguaggio, vorrebbe dar corpo ad un
universo la cui credibilità rappresentativa dovrebbe soprattutto
poggiare sulla credibilità linguistica. Che poi il travestimento
lessicale sia in Camilleri soprattutto un abile gioco di prestigio - e
non affermazione della necessità di un linguaggio integralmente
originario e materno - lo conferma, ad esempio, il passaggio al flirt col
dialetto genovese de La mossa del cavallo: altro caso di ventriloquismo
in Camilleri. Che incuriosisce, ma niente più. Infine, se i limiti
della narrativa di Camilleri appaiono meno vistosi nell'ambito leggero
della
narrativa gialla di intrattenimento, tali limiti acquistano peso nel
caso di Il re di Girgenti: opera seria e ambiziosissima, non priva di belle
pagine, ma disorganica, enfatica e, anch'essa, viziata da un uso "a metà"
dello strumento dialettale. Ma su questo libro ho già detto abbastanza
nel mio articolo del 4 novembre, che ha suscitato le Sue amabili ire, per
volerLa ancora tediare.
Giovanni Pacchiano