La Stampa, 4.8.2002
CAMILLERI RILEGGE «I PROMESSI SPOSI»: LO CONSIDERAVO IL ROMANZO DI UN BACCHETTONE BIGOTTO, POI HO SCOPERTO LE ALTRE SUE FACCE

ALLE soglie del duemila, ricevetti una telefonata dal redattore culturale di un giornale spagnolo il quale mi chiese quale titolo italiano della letteratura del Novecento salvavo dalla prossima distruzione della memoria dovuta al baco del millennio. Ve ne ricordate ancora di questa storia che per mesi ci perseguitò attraverso gazzette e televisioni? Bene, come ognun sa, il baco ebbe a rivelarsi una solennissima bufala, come dicono a Roma, e forse sfortunatamente perché mi pare che, senza baco, il mondo stia leggermente peggio di prima. Ad ogni modo, preso alla sprovvista da quella domanda, risposi senza un minimo di esitazione: I promessi sposi. E andai a tavola dove mia moglie mi reclamava. Avevo appena iniziato a mangiare il secondo che il telefono squillò nuovamente. Era il redattore spagnolo il quale, leggermente esitante, mi disse che avevano fatto delle ricerche e che a loro risultava che I promessi sposi erano stati pubblicati nel 1840 e che quindi non potevano essere considerati un romanzo del Novecento. Caddi letteralmente dalle nuvole. Sentendo il mio imbarazzato stupore, il redattore volle darmi una mano. «Potrebbe rispondere dicendo Il Gattopardo» suggerì. «Mai! - ruggii -. Quello sì che è un romanzo dell´Ottocento!». Ci fu una pausa alquanto penosa, evidentemente il redattore stava cominciando a dubitare non tanto della mia cultura quanto della mia sanità mentale. Poi mi venne finalmente un titolo: Horcynus Orca di D´Arrigo. Il redattore sbalordì. «Mai sentito nominare. Cos´è? Un romanzo?». «Sì». «Ma vede, qui da noi non lo conoscono». «Allora diciamo Ravenna di Pizzuto». «E´ una guida?» domandò timidamente lo spagnolo. «Senta - dissi -: facciamo così, risentiamoci nel pomeriggio». Mi rimisi a sedere a tavola un pochino confuso. «Lo sai quando sono stati pubblicati I promessi sposi?» domandai a mia moglie. «Mi pare che l´edizione definitiva sia del 1840». Ebbi per un attimo l´impressione d´essere vittima di una congiura internazionale. Su quel mio errore cominciai a ragionare a lungo, tentando di spiegarmelo. E credo di esserci in parte riuscito. Ho cominciato col pormi una domanda, forse pretestuosa e forse no. Questa: l´anno di pubblicazione di un libro o la prima rappresentazione di una commedia coincidono con un grado di soddisfacente intelligenza di quel libro o di quella commedia da parte dei lettori o degli spettatori coevi? Faccio due esempi shakespeariani. Grigorij Kozincev, regista russo di uno straordinario Amleto cinematografico, raccontava che in Inghilterra era stato rinvenuto il giornale di bordo, del 1602, della fregata «Il Drago». Ebbene, il comandante aveva annotato sul diario di bordo che, per evitare all´equipaggio l´inerzia di una grande bonaccia, era stata organizzata una recita dell´Amleto. Il comandante postillava che la rappresentazione era assai piaciuta. Ora riuscite a immaginare qual era il livello culturale (e umano) di una ciurma raccogliticcia ai primi del Seicento? Cosa avevano rappresentato? Una storia di fantasmi, tradimenti, morti violente e duelli: tutte cose che fanno sì parte dell´Amleto, ma non sono l´Amleto. Ancora. All´atto della comparsa della Tempesta e per decenni e decenni che seguirono, dovunque nel mondo si diede di quest´opera un´interpretazione non solo da parte degli attori, ma soprattutto da critici ed eminenti studiosi, assolutamente buonista. Si tratta, scrissero, di un´opera che è un inno alla pacificazione, alla volontà di perdono, una fiaba serena di sorridente indulgenza. Poi, a metà del Novecento, come dimostra Jan Kott nel suo «Shakespeare nostro contemporaneo», l´interpretazione canonica viene ribaltata, Prospero non è più un Catone dantesco, ma un potente spodestato che riesce, con mezzi più o meno leciti, a riottenere il potere. Certo La Tempesta non è solo questo, ma è soprattutto questo. Qualcosa di simile mi pare sia capitato ai Promessi sposi. Non sono uno studioso della storia critica del libro, ma sono convinto che al suo apparire sciami, nugoli di «apologeti confessionali», come li chiama Caretti, si siano su di esso abbattuti segnando il solco, profondissimo, di una lettura rimasta troppo a lungo obbligata. E questa mia convinzione nasce da come mi venne presentata a scuola l´opera, oltre sessant´anni fa, e il ritratto che mi fu fatto dell´autore. Un ritratto tanto edificante da cadere nella più bieca agiografia, da rendere Manzoni subitamente antipatico, scostante, bacchettone, bigotto. Persino il gobbetto ci parve più appetibile, almeno non faceva questioni di chiesa, se ne stava lì a parlare coi passeri solitari o con la luna, era innamorato di Silvia e non voleva insegnare niente a nessuno. E per restare nel campo religioso, il beato Piergiorgio Frassati, del quale i preti ci facevano leggere la biografia, almeno ogni tanto sorrideva e partecipava a spensierate escursioni in montagna. Manzoni no, in vita sua non risultava avesse mai sorriso. E i brani che trovavamo nelle antologie? Due o tre, sempre gli stessi, l´incontro di don Abbondio coi bravi, l´Innominato, il Cardinale, l´addio ai monti con i commenti dei curatori a piè di pagina che spargevano disgustosa dolciastra melassa su ogni rigo. Ci rimanevano appiccicate persino le mosche. Finito l´anno scolastico, correvi a venderti il libro alle future vittime con la stessa violenza con la quale qualche prete usava una volta gettare la tonaca alle ortiche. Insomma, una lettura penitenziale e anche, perché no, penitenziaria. E cancellavi per sempre Manzoni dalla tua memoria. Per me invece ci fu un seguito. Lettore vorace com´ero, verso il 1942 mi capitò tra le mani un libretto pubblicato dalla Bompiani che conteneva la Storia della colonna infame di Manzoni. Sfogliai qualche pagina dell´introduzione, dovuta a Giancarlo Vigorelli, e ne rimasi incuriosito. Mi decisi a leggerlo. Uscii da quella lettura così colpito e sorpreso e sbalestrato e commosso e turbato che appena arrivato alla fine ricominciai da capo. Possibile che il Manzoni baciapile dei Promessi sposi fosse lo stesso della Colonna infame? Ora, dalla lettura dei «Percorsi bibliografici» di Nigro e Paccagnini apprendo che quella introduzione del curatore Vigorelli fu assai importante perché segnò «il risveglio d´attenzione sull´opera». Già, nel 1942, all´epoca del «mondo offeso» e degli «astratti (ma concretissimi) furori» di Elio Vittorini. Se una pittura, un disegno, com´è noto, organizzano lo sguardo di chi l´osserva, in letteratura invece l´organizzazione dello sguardo, soprattutto di un testo classico, è demandata in genere al prefatore che di quel testo è spesso anche il curatore. Vigorelli, all´epoca, organizzò benissimo la mia lettura. Tanto è vero che, molti anni dopo, deciso a leggere I promessi sposi senza altri obblighi che non fossero quelli di una pura e semplice lettura, arrivato alle parole che don Abbondio rivolge ai due bravi, appena ha sentito che la minacciosa imbasciata proviene da don Rodrigo: «se mi sapessero suggerire»..., prepotente, con drammatica violenza, mi tornò a memoria un´altra frase, «Vostra Signoria veda quello che vole che dica, lo dirò», quella che il Mora, negli spasimi della spaventosa tortura alla quale viene sottoposto innocente, dice al suo inquisitore e che Manzoni riporta nella Colonna infame commentando che quella è «la risposta di chi sa quant´altri infelici». Certo, le situazioni sono totalmente diverse, ma il fine ultimo è lo stesso: la negazione della dignità dell´individuo, della sua libertà, la prevaricazione violenta del potere, quale che esso sia. Quello che voglio dire è che la pavidità di don Abbondio, dopo la lettura della Colonna infame, non muove più tanto al sorriso, su tutta quella scena all´aperto stinge il nero orrore che proviene dal chiuso di una stanza della tortura. Allora hai l´impressione che la scomparsa e la ricomparsa della Colonna (della quale Nigro e Paccagnini seguono il tortuoso percorso) sia come un fiume carsico che continua ad esserci anche quando più non è visibile e che l´averla il Manzoni alla fine proposta a parte non come un´appendice ai Promessi sposi, ma scopertamente assegnandole la funzione di terminale e indispensabile integrazione, mi fa venire in mente un paragone forse blasfemo. La Colonna, così posizionata, è come un sacchetto che Manzoni regala ai suoi più avvertiti lettori. Il sacchetto contiene spezie forti ed erbe pesantemente aromatiche con le quali il lettore, se lo desidera, può condire di tratto in tratto la lettura dei Promessi sposi. Ma certamente chi di quel condimento ha fatto una volta uso, non potrà più farne a meno, la sua mancanza darà al palato un gusto che potrà parere scialbo, scipito. Dei tre tomi dei «Meridiani» mondadoriani che contengono Fermo e Lucia, I promessi sposi edizione 1827, I promessi sposi edizione 1840 e la Storia della colonna infame, Salvatore Silvano Nigro, a rigor di frontespizio, sarebbe l´autore del saggio introduttivo, della revisione del testo critico e del commento. Si è servito della collaborazione acuta e precisa di Ermanno Paccagnini limitatamente alla Storia della colonna infame. Ho usato il condizionale perché quando poi apri uno qualsiasi dei tre tomi ti rendi facilmente conto che le cose non stanno esattamente così, che l´intervento di Nigro è assai più ampio, direi totalizzante. Intanto viene omesso che la «Cronologia», ossia la sintetica biografia del Manzoni, è di suo pugno ed è tutt´altro che di lieve peso. Dicevo poco fa che ogni prefatore-curatore è una sorta di tour operator che organizza un viaggio all´interno del testo che presenta: dico subito che, a mio parere, Salvatore Silvano Nigro è uno dei più discreti, cortesi, abili, intelligenti tra tutti quelli che hanno proposto un itinerario Manzoni, ma anche il più determinato, il più fermo a farci ammirare il più minuto dettaglio del paesaggio attraverso i suoi occhi. La «cronologia» è sommamente illuminante perché non si limita alla necessità delle date, ma si slarga in un ritratto che non può dirsi né reverente né irreverente, un ritratto libero e sornione, una biografia che certamente non sarebbe stata autorizzata e che comunque illustra assai meglio di un saggio specifico le ragioni morali, estetiche, letterarie, religiose della scrittura manzoniana, attraverso certi aspetti del privato, dagli angosciosi sogni (tra i quali, fondamentale, quello dell´impostore) alle crisi di panico, dalle sue reazioni all´accoglienza che viene tributata all´opera (trovo molto divertente che a Goethe dispiacciano le pagine sulla peste che invece moltissimo piacciono a Edgar Allan Poe), alle vicissitudini familiari e matrimoniali (tra l´altro, Nigro scrive poche righe assolutamente esilaranti sulla damnatio memoriae dell´Imbonati). Personalmente, sono grato a Nigro di non aver dato peso al ritratto di Manzoni che Tommaseo fece al Vieusseux e dove si parla di «mite sapienza che irradia», di bontà e sincerità, di modestia e timidità, insomma quel ritratto di superuomo in tratti di sottuomo che accompagnava e immediatamente distorceva il nostro approccio scolastico. E dato che siamo in tema di bontà e sincerità manzoniana, forse vale qui ricordare il fulminante ritratto che Manzoni dava, in dialetto, del Tommaseo: «Quel Tommaseo lì, con un piede in sagrestia e l´altro in un bordello».
Andrea Camilleri