MILANO — Un giorno sentì Aldo Busi dire in televisione: uno non
può definirsi scrittore se non ha venduto almeno 3mila copie di
un libro. Beh, racconta ora Andrea Camilleri (nella foto), «la mia
editrice, Elvira Sellerio, mi aveva appena detto che ero arrivato a 5mila
copie, mi sentii un po' più sicuro». Non capisci se Camilleri
parli sul serio o gigioneggi, quando racconta dell'inizio della sua carriera
di scrittore di successo. A Milano per un evento che «mi ha profondissimamente
emozionato», il conferimento di una laurea honoris causa in Lingue
e Letterature straniere da parte dell'Università IULM, l'intellettuale
siciliano si racconta. Dieci anni di successi, iniziati con «la Stagione
della caccia», dopo una vita passata a fare il regista radiofonico
e televisivo, l'autore teatrale e televisivo, il saggista. Poi, la scoperta
di un genere letterario, il romanzo giallo, che lo proietta nella hit parade
della narrativa. I numeri, Andrea Camilleri, li snocciola con compiacimento,
«finora ho venduto in Italia 7 milioni e mezzo di copie, all'estero
non lo so, però sono stato tradotto dappertutto tranne in Russia,
Cina e Paesi Arabi».
La definizione di «giallista» sta però un po' stretta
allo scrittore siciliano, «mi sembra un po' limitativa», che
pure riconosce di dovere gratitudine a quegli autori, da De Angelis a Scerbanenco
soprattutto, che «hanno avuto il coraggio di ambientare i gialli
nel nostro Paese», mentre prima il thriller italiano veniva collocato
in un improbabile proscenio americano. Dice: «Dobbiamo tutti parecchio
a Scerbanenco, anche l'esattezza del contesto». Ma il padre del commissario
Montalbano rivendica la propria originalità: «Io amo scrivere
di cose che mi sento di conoscere, come il mio villaggio. Certo, potrei
ambientare una storia a Milano, dove ho lavorato a lungo, alla Rai di corso
Sempione. Anche mia moglie, che ci ha vissuto dai tre mesi ai vent'anni,
è milanese. Però, sono convinto che un autore deve conoscere
non la topografia di una città, bensì i codici di comportamento
di chi la abita. Ecco perchè uso la mia Sicilia come sfondo. E il
siciliano per raccontare certi stati d'animo».
Come quello che lo pervade al mattino, quando si sveglia e gli piace
«tambiasare» per una «mezzorata» circa. Che significa
girare per casa, vestiti in qualche modo, fare cose inutili come raddrizzare
un quadro o dare un'occhiata alla copertina di un libro. Sforna libri con
un ritmo invidiabile, Andrea Camilleri, non ne tiene mai nessuno fermo
nel cassetto, «sono uova fresche di giornata, i miei racconti, e
una volta pubblicati ne butto via subito il lavoro preparatorio».
Però non gli dispiace sentirsi dire che «Camilleri è
uno degli ultimi grandi scrittori di confine, tra tradizione e modernità»
(così recita la motivazione della laurea). Anche se chiosa: «Io
non ho nessuna pretesa di rinnovare la lingua, questo è il mio modo
di scrivere, se aiuta a dare un po' di linfa alla lingua italiana»,
tanto meglio.
La difficoltà per i lettori? «L'essenziale è cominciare
a raccontare una storia che prenda il lettore, è come buttare una
rete». Certo, c'è il problema delle traduzioni: «Dipende
dalla coscienza e dalla professionalità di chi le fa. C'è
una traduttrice francese che ha tradotto i miei libri in un francese-lionese».
Vivrà o morirà Montalbano? Sposerà o no la sua
fidanzata genovese? «Mi hanno fatto mille volte questa domanda»,
risponde con un filo d'impazienza. E poi, scaramantico: «C'è
da chiedersi se finirà prima Montalbano o suo padre Camilleri che
ha 77 anni».
Flavia Baldi