Per la prima volta, Andrea Camilleri si racconta, e per intero, davanti
alla telecamera di Diego Romeo che ha realizzato un interessante documentario
televisivo (Tra Vigata e Montelusa - Il racconto del figlio cambiato),
in questi giorni trasmesso da alcune emittenti siciliane.
La scena è quasi sempre dominata dal faccione rassicurante di
Camilleri mentre fuma avidamente e parla, con dire flemmatico e suadente,
dell´infanzia e della giovinezza, vissute appunto tra Vigata (ovvero
Porto Empedocle, dove è nato nel 1926) e la vicina Montelusa (alias
Agrigento, dove ha fatto il liceo) e dei ritorni frequenti in Sicilia a
trovare gli amici, a respirare gli odori densi della sua Marina: «Odore
del porto, poiché - sottolinea lo scrittore - ogni porto ha un suo
odore fatto di nafta, di cordame marcito, d´alghe fradice: cattivi
odori che, fra loro mischiati, formano un buon odore».
Il racconto si scioglie in una sorta di confessione, a tratti pudica,
che ci svela un´intimità gelosamente conservata, per 76 anni:
la scoperta incidentale del sesso attraverso le visioni della pensione
Eva, chiusa di giorno e animata soltanto la sera, dove si «affittavano»
corpi nudi di donne a uomini che li guardavano con lascivia, come faceva
lui quando, di soppiatto, spiava sotto le gonnelle delle cugine.
Come Pirandello, anche Camilleri da bambino subì il trauma del
figlio cambiato: i genitori ricorsero a questo espediente per punirlo delle
sue vastasate, gli dissero che era figlio di un ignoto carrettiere col
quale, per errore, s´erano scambiati i figli neonati.
Sì, perché il giovanotto era talmente vivace da indurre
la famiglia a internarlo presso il Convitto vescovile di Agrigento dove
«non facevo altro che piangere, perché dalla finestra della
camerata si vedeva il porto». Per uscirne ricorse a una trovata alquanto
empia: tirò un uovo contro il crocifisso e con questo gesto, enormemente
blasfemo e imperdonabile, si assicurò l´espulsione da quella
sorta di anacronistico reclusorio. In questo vanto degli errori infantili,
probabilmente, c´è il tentativo di «non morire di quella
specie di buon senso progressivo... quando si scopre, troppo tardi, che
le uniche cose che non si rimpiangono mai sono i propri errori» (Oscar
Wilde, Il ritratto di Dorian Gray ).
Racconto intenso, sincero, umanissimo che svela un radicato sentimento
d´appartenenza alla terra natia, il suo sentirsi figlio di questa
provincia marginale, ancor oggi assetata e sfigurata da tante ingiustizie
e dal predominio di poteri occulti e minacciosi. Ci riferiamo alla provincia
di Agrigento così segnata da contraddizioni e asperità sociali
e culturali da renderla prolifica di scrittori di successo (Pirandello,
Sciascia, Camilleri, per citarne alcuni). Qui - come altrove in Sicilia
- gli artisti non hanno bisogno di essere molto immaginifici, poiché
la realtà stessa è immaginazione e rappresentazione, anche
se la gran parte di questi talenti riescono a sbocciare soltanto lontano
dai luoghi natii.
Anche Camilleri per affermarsi è dovuto emigrare. Eppure - come
lui racconta - è stato baciato da una sorte felice, fin dalla nascita.
È l´unico sopravvissuto dopo due fratelli morti in tenerissima
età e venne alla luce in una fausta coincidenza: precisamente, alle
ore 13 della prima domenica di settembre, giornata dedicata alla festa
di San Calogero: «Uscivo dal ventre di mia madre nello stesso momento
in cui San Calogero usciva dalla Chiesa matrice per la processione; per
la gioia la levatrice mi espose dal balcone, nudo come m´aveva tirato,
alla visione della moltitudine che seguiva il fercolo del santo».
Lo scrittore, che si proclama ateo, ammette che nel suo personale paradiso
«deserto, privo di santi» c´è solo San Calogero,
il «santo nero» il cui culto strambo (descritto nel romanzo
Il corso delle cose) è tuttora vivissimo in molti paesi e città
della fascia meridionale della Sicilia. In realtà, la sua non sembra
essere devozione, ma sincera affezione per questa singolare figura di eremita,
giunto dall´Africa in un tempo remoto, nero e povero in canna, la
cui santità è stata imposta alla gerarchia cattolica a furor
di popolo.
Quando può, Andrea Camilleri ritorna alla Vigata dei suoi strabilianti
successi editoriali, ma non ritrova più il paese ordinato e pulito
della sua giovinezza, delle scorribande felici con gli amici, delle fabbriche
operose, dei pescatori e dei commerci di sale e di zolfo, estratti dalle
viscere di questa terra ingrata e ammassati sui moli del porto empedoclino
che, per quanto piccolo, «era pur sempre un luogo più avanzato
rispetto a Girgenti, poiché le città portuali sono sempre
un passo avanti rispetto a quelle dell´entroterra».
Oggi le fabbriche sono quasi tutte smantellate e il porto commerciale
langue nella perenne stasi. Invece che bastimenti a Porto Empedocle arrivano
traghetti carichi d´immigrati clandestini e carrette strapiene di
disperati che vengono a morire sugli scogli. Camilleri non ritrova la sua
Vigata, quella che chiama «la prima Porto Empedocle», perché
è stata cancellata dalla tremenda alluvione del 1971. Della seconda,
quella della mafia spietata cresciuta all´ombra dei «grattacieli
ignobili della Lanterna», nemmeno ne parla.
Lui, che si definisce «un siciliano di scoglio» (espressione
coniata da Vittorio Nisticò per indicare quella categoria di siciliani
che non osano avventurarsi in mare aperto), a questa seconda città
volta le spalle e preferisce restarsene seduto sopra uno scoglio della
vecchia, cara Marina ad assaporare l´odore del porto e a scrutare
le profondità del mare africano.
Agostino Spataro