C’è un filo rosso che unisce Maigret a Montalbano e si chiama
Andrea Camilleri, produttore negli anni ’60 della serie tv tratta da Simenon
e autore di quel fenomeno televisivo che oggi si chiama Montalbano. Ma
le similitudini si fermano qui, almeno secondo Oreste De Fornari, esperto
di sceneggiati televisivi, autore del libro Teleromanza, conduttore con
Gloria De Antoni della trasmissione di Raisat Romanzo Popolare. “
I Maigret” spiega “erano tutti fatti di interni, di bianco e nero, Mantalbano
è vagamente cinematografico. E’ fatto bene, ma non ha quella frugalità,
quel rigore quasi teatrale di Maigret, che risolveva tutto lì, nel
suo ufficio. Zingaretti ha carisma, ma gli mancano quei magnifici attori
di contorno che aveva Gino Cervi: tra i cattivi c’era Volontè. Gino
Cervi, poi, è entrato nella memoria di una generazione, perché
gli episodi furono tanti, tra il ’64 e il ’72. Non so se la produzione
letteraria di Camilleri su Montalbano sarà tale da sostenere una
serialità confrontabile.
Quando lo sceneggiato è diventato fiction e qual è
la differenza?
La fiction di oggi, cito Resurrezione dei Taviani e Maria José
di Lizzani, è un ibrido tra lo sceneggiato e il cinema. La fiction
è un film fatto con pochi soldi, sceneggiature meno raffinate perché
tanto non devi trascinare il pubblico al cinema, ma solo convincerlo a
non cambiare canale. E vale anche per i più costosi, alla Padre
Pio, che fanno milioni di telespettatori: credo che al cinema lascerebbero
le sale vuote.
Quali sono oggi gli eredi dello sceneggiato televisivo?
Anche se la cosa può scandalizzare, vanno cercati in quei programmi
vituperati, alla Alda D’Eusanio. Sono rimasto colpito dalla verità
apparente di queste storie minime e passionali: tradimenti, invidie, rancori.
Dicono che sono storie finte e che gli ospiti sono attori. Però
funzionano: i sentimenti messi in scena sono un riflesso della forza passionale
del melodramma popolare italiano raccontato da Majano.
Perché quella degli sceneggiati degli anni ’50 e ’60 è
considerata una stagione irripetibile?
Perché lo fu: un prodotto popolare e di qualità affidato
a buoni registi e grandissimi attori.
I titoli che hanno fatto epoca.
Uno di cui non c’è traccia, ma va nominato perché è
stato il primo è Piccole donne di Anton Giulio Majano. Il secondo,
per la sua forza avventurosa anche se fatto con pochi soldi nella sede
Rai di viale Mazzini è L’isola del tesoro, ancora Majano. E poi
Il Mulino del Po, di Sandro Bolchi: un titolo importante, colto, che dell’autore
Riccardo Bacchelli ha mantenuto la lentezza, la solennità.
Quello che fece scandalo?
Una tragedia americana, del ’62, di Majano: una ragazza incinta uccisa
dal fidanzato perché vuole sposarne un’altra ricca, che cosa c’è
di più scabroso? All’epoca fece scalpore, era esplicito, per soli
adulti, fu accettato perché visto in un’ottica morale: il cattivo
veniva punito sulla sedia elettrica.
Il primo divo?
Alberto Lupo de La cittadella, esemplare nell’interpretare l’eroismo
quotidiano di questo medico, una popolarità mai eclissata, neanche
dal Dottor Kildare e tantomeno da E.R. Medici in prima linea. All’epoca
la gente pensava che Alberto Lupo fosse un vero dottore.
Lo sceneggiato più innovativo?
Citerei il Mastro Don Gesualdo di Giacomo Vaccari del ’62, un regista
che è morto giovane e ci ha lasciato poche cose. Per il linguaggio
originale, il taglio cinematografico di altissima qualità, l’uso
del suono, la recitazione di Enrico Maria Salerno. Non era Fiction, era
cinema.
Arianna Finos