Il Venerdì di Repubblica, 25.10.2002
C'era una volta lo sceneggiato (ovvero la fiction dell'Italia che fu)
Eredità e differenze spiegate da un esperto

C’è un filo rosso che unisce Maigret a Montalbano e si chiama Andrea Camilleri, produttore negli anni ’60 della serie tv tratta da Simenon e autore di quel fenomeno televisivo che oggi si chiama Montalbano. Ma le similitudini si fermano qui, almeno secondo Oreste De Fornari, esperto di sceneggiati televisivi, autore del libro Teleromanza, conduttore con Gloria De Antoni della trasmissione di Raisat  Romanzo Popolare. “ I Maigret” spiega “erano tutti fatti di interni, di bianco e nero, Mantalbano è vagamente cinematografico. E’ fatto bene, ma non ha quella frugalità, quel rigore quasi teatrale di Maigret, che risolveva tutto lì, nel suo ufficio. Zingaretti ha carisma, ma gli mancano quei magnifici attori di contorno che aveva Gino Cervi: tra i cattivi c’era Volontè. Gino Cervi, poi, è entrato nella memoria di una generazione, perché gli episodi furono tanti, tra il ’64 e il ’72. Non so se la produzione letteraria di Camilleri su Montalbano sarà tale da sostenere una serialità confrontabile.
Quando lo sceneggiato è diventato fiction e qual è la differenza?
La fiction di oggi, cito Resurrezione dei Taviani e Maria José di Lizzani, è un ibrido tra lo sceneggiato e il cinema. La fiction è un film fatto con pochi soldi, sceneggiature meno raffinate perché tanto non devi trascinare il pubblico al cinema, ma solo convincerlo a non cambiare canale. E vale anche per i più costosi, alla Padre Pio, che fanno milioni di telespettatori: credo che al cinema lascerebbero le sale vuote.
Quali sono oggi gli eredi dello sceneggiato televisivo?
Anche se la cosa può scandalizzare, vanno cercati in quei programmi vituperati, alla Alda D’Eusanio. Sono rimasto colpito dalla verità apparente di queste storie minime e passionali: tradimenti, invidie, rancori. Dicono che sono storie finte e che gli ospiti sono attori. Però funzionano: i sentimenti messi in scena sono un riflesso della forza passionale del melodramma popolare italiano raccontato da Majano.
Perché quella degli sceneggiati degli anni ’50 e ’60 è considerata una stagione irripetibile?
Perché lo fu: un prodotto popolare e di qualità affidato a buoni registi e grandissimi attori.
I titoli che hanno fatto epoca.
Uno di cui non c’è traccia, ma va nominato perché è stato il primo è Piccole donne di Anton Giulio Majano. Il secondo, per la sua forza avventurosa anche se fatto con pochi soldi nella sede Rai di viale Mazzini è L’isola del tesoro, ancora Majano. E poi Il Mulino del Po, di Sandro Bolchi: un titolo importante, colto, che dell’autore Riccardo Bacchelli   ha mantenuto la lentezza, la solennità.
Quello che fece scandalo?
Una tragedia americana, del ’62, di Majano: una ragazza incinta uccisa dal fidanzato perché vuole sposarne un’altra ricca, che cosa c’è di più scabroso? All’epoca fece scalpore, era esplicito, per soli adulti, fu accettato perché visto in un’ottica morale: il cattivo veniva punito sulla sedia elettrica.
Il primo divo?
Alberto Lupo de La cittadella, esemplare nell’interpretare l’eroismo quotidiano di questo medico, una popolarità mai eclissata, neanche dal Dottor Kildare e tantomeno da E.R. Medici in prima linea. All’epoca la gente pensava che Alberto Lupo fosse un vero dottore.
Lo sceneggiato più innovativo?
Citerei il Mastro Don Gesualdo di Giacomo Vaccari del ’62, un regista che è morto giovane e ci ha lasciato poche cose. Per il linguaggio originale, il taglio cinematografico di altissima qualità, l’uso del suono, la recitazione di Enrico Maria Salerno. Non era Fiction, era cinema.
Arianna Finos