Era il luglio del '43, in pieno sbarco degli Alleati, quando un giovanissimo
Andrea Camilleri incontra Endre Friedman, o meglio Robert Capa.
Un ricordo personalissimo e commovente ai piedi del Tempio di Agrigento
quello che lo scrittore siciliano rievoca per il catalogo "Leggermente
fuori fuoco" che accompagna la mostra di Racalmuto, dedicata al grande
reporter di guerra. Il testo che pubblichiamo in anteprima apparirà
come prefazione al catalogo, insieme ai contributi del fotografo Ferdinando
Scianna della Contrasto e di Antonio Di Grado, presidente della Fondazione
Leonardo Sciascia.
"I volti della storia", questo il titolo della mostra, che dopo
Milano arriva in Sicilia (l'inaugurazione è sabato prossimo a Racalmuto)
non è solo una mostra di immagini di guerra. Attraverso 120 scatti,
Robert Capa riesce a raccontare il fascino e la suggestione di un quarto
di secolo di storia tra i piu` intensi. La mostra è promossa dalla
Fondazione Sciascia, che la organizza con il Comune e Magnum Contrasto,
e che ospiterà la parte dell'esposizione dedicata alla campagna
degli Alleati in Italia, mentre al Castello Chiaramontano, oggi restaurato,
ci saranno gli "scatti" su personaggi celebri e gente comune. Un grande
impegno per la Fondazione, che ha potuto contare sull'apporto di sponsor
come Enel, Omnitel, Giornale di Sicilia e DHL. La mostra resterà
a Racalmuto fino al 9 febbraio e, durante i tre mesi, si alterneranno eventi
e manifestazioni collaterali.
Appena la prima jeep americana arrivò, nel luglio del '43, a
Serradifalco dove la mia famiglia si trovava sfollata, agguantai una bicicletta
e mi diressi verso il mio paese, Porto Empedocle, per avere notizie di
mio padre che era rimasto lì durante lo sbarco alleato. Fu un viaggio
allucinante, colonne americane fatte di carri armati giganteschi, camion
stracolmi di soldati, cannoni, viveri, munizioni, jeep lanciate a velocità
folle andavano verso il fronte, in senso inverso al mio e spesso mi trovai
dentro un fosso o su un prato.
Traversai paesaggi di morte. Uno ne ricordo in particolare, un uliveto
dove era avvenuto uno scontro tra carri armati italiani e carri armati
americani. Tutto appariva bruciato, di un colore nero-marrone scuro; dentro
i nostri carri, vere scatole di sardine sventrate, c'erano ancora i corpi
dei nostri soldati. Arrivato in paese, seppi che mio padre era salvo, si
trovava sul porto. Non ebbi la forza di andare da lui, mi diressi verso
casa, avevo l'assoluta necessità di lavarmi, di distendermi su un
letto. Ma dal portone di casa si partiva e procedeva lungo le scale un'ordinata
fila di soldati americani ognuno munito di sapone e asciugamano: avevano
scoperto che il mio appartamento era uno dei pochi muniti di vasca da bagno
e doccia e lo stavano adoperando. Spiegai chi ero (quasi tutti erano figli
di siciliani emigrati negli Usa e parlavano il dialetto) e mi cedettero
immediatamente il primo posto nella fila.
In casa non c'era un mobile, uno specchio, una sedia, un libro, niente,
mio padre mi spiegò dopo che approfittando dei bombardamenti che
avevano preceduto lo sbarco gli sciacalli si erano portati via tutto.
Per dormire, si era procurato una branda militare e ne trovò
un'altra per me. Su quella branda ho fatto, per la stanchezza e le emozioni,
uno dei sonni più profondi della mia vita. All'indomani, e non so
ancora spiegare il perché, appena aperti gli occhi, mi vennero a
mente i templi di Agrigento. Ero sicuro che i bombardamenti li avevano
danneggiati. Volevo vederli, controllare di persona. Inforcai la bicicletta
e cominciai a pedalare. Non so come riuscii a fare la salita della Catena,
tutta la stanchezza del giorno prima era di colpo tornata. Dall'alto, il
porto era una babilonia di navi e di anfibi, navi si vedevano in attesa
a perdita d'occhio. Inoltre c'erano, sospesi in aria, decine e decine di
enormi palloni che avrebbero dovuto impedire un attacco aereo ravvicinato.
Ormai pedalavo sbandando. Un negro su una jeep ebbe pietà di me
e mi caricò con tutta la bici, lasciandomi proprio ai piedi del
tempio della Concordia.
Nella luce abbagliante di quella mattina di luglio, il tempio m'apparve
intatto. Nello spiazzo antistante c'era un soldato americano che stava
fotografando il tempio. O almeno tentava. Perché inquadrava, scuoteva
la testa, si spostava di qualche passo a sinistra, scuoteva nuovamente
la testa, si spostava a destra. A un tratto si mise a correre, si fermò,
cercò un'altra angolazione. Neppure questa volta si mostrò
contento. Io lo guardavo meravigliato. Il tempio quello era, bastava fotografarlo
e via. Che cercava? Doveva essere un siciliano, lo si capiva dai tratti,
forse voleva portare un ricordo ai suoi familiari in America. In quel momento,
fummo assordati da un rumore di aerei e di spari. In cielo, ma a bassissima
quota, si stava svolgendo un duello tra un aereo tedesco e uno americano.
Mi gettai a terra. Anche il soldato si gettò a terra, ma, al contrario
di me, a pancia all'aria. Scattava fotografie una appresso all'altra senza
la minima indecisione, la macchina tra le sue mani era un'arma, una mitragliatrice.
Poi i due aerei scomparvero. Ci rialzammo, gli dissi qualcosa in dialetto.
Non capì. Io non parlo inglese, ma qualche parola la capisco. Mi
spiegò che era un fotografo di guerra. Mi scrisse su un pezzetto
di carta il suo nome: Robert Capa. Per me, allora, un perfetto sconosciuto.
Ci salutammo. Ripresi la bicicletta, tanto la strada ora era tutta in discesa.
Adesso, se mi capita di guardare una delle foto «siciliane»
di Capa, di quei giorni risento persino gli odori, ricordo i suoni, le
parole, i rumori. Perché Capa, come tutti i grandi artisti, non
solo rappresentava il presente, ma sapeva, contestualmente, consegnarcene
una memoria eternamente viva e pulsante.
Andrea Camilleri