Giornale di Sicilia, 3.11.2002
Quando Camilleri incontrò Robert Capa
"Un soldato con la macchina fotografica"
Nei cieli sopra il Tempio di Agrigento infuriava un duello aereo: l'allora giovanissimo scrittore conobbe così il grande reporter, a cui è dedicata la mostra che si apre sabato

Era il luglio del '43, in pieno sbarco degli Alleati, quando un giovanissimo Andrea Camilleri incontra Endre Friedman, o meglio Robert Capa.
Un ricordo personalissimo e commovente ai piedi del Tempio di Agrigento quello che lo scrittore siciliano rievoca per il catalogo "Leggermente fuori fuoco" che accompagna la mostra di Racalmuto, dedicata al grande reporter di guerra. Il testo che pubblichiamo in anteprima apparirà come prefazione al catalogo, insieme ai contributi del fotografo Ferdinando Scianna della Contrasto e di Antonio Di Grado, presidente della Fondazione Leonardo Sciascia.
"I volti della storia", questo il titolo della mostra, che dopo Milano arriva in Sicilia (l'inaugurazione è sabato prossimo a Racalmuto) non è solo una mostra di immagini di guerra. Attraverso 120 scatti, Robert Capa riesce a raccontare il fascino e la suggestione di un quarto di secolo di storia tra i piu` intensi. La mostra è promossa dalla Fondazione Sciascia, che la organizza con il Comune e Magnum Contrasto, e che ospiterà la parte dell'esposizione dedicata alla campagna degli Alleati in Italia, mentre al Castello Chiaramontano, oggi restaurato, ci saranno gli "scatti" su personaggi celebri e gente comune. Un grande impegno per la Fondazione, che ha potuto contare sull'apporto di sponsor come Enel, Omnitel, Giornale di Sicilia e DHL. La mostra resterà a Racalmuto fino al 9 febbraio e, durante i tre mesi, si alterneranno eventi e manifestazioni collaterali.

Appena la prima jeep americana arrivò, nel luglio del '43, a Serradifalco dove la mia famiglia si trovava sfollata, agguantai una bicicletta e mi diressi verso il mio paese, Porto Empedocle, per avere notizie di mio padre che era rimasto lì durante lo sbarco alleato. Fu un viaggio allucinante, colonne americane fatte di carri armati giganteschi, camion stracolmi di soldati, cannoni, viveri, munizioni, jeep lanciate a velocità folle andavano verso il fronte, in senso inverso al mio e spesso mi trovai dentro un fosso o su un prato.
Traversai paesaggi di morte. Uno ne ricordo in particolare, un uliveto dove era avvenuto uno scontro tra carri armati italiani e carri armati americani. Tutto appariva bruciato, di un colore nero-marrone scuro; dentro i nostri carri, vere scatole di sardine sventrate, c'erano ancora i corpi dei nostri soldati. Arrivato in paese, seppi che mio padre era salvo, si trovava sul porto. Non ebbi la forza di andare da lui, mi diressi verso casa, avevo l'assoluta necessità di lavarmi, di distendermi su un letto. Ma dal portone di casa si partiva e procedeva lungo le scale un'ordinata fila di soldati americani ognuno munito di sapone e asciugamano: avevano scoperto che il mio appartamento era uno dei pochi muniti di vasca da bagno e doccia e lo stavano adoperando. Spiegai chi ero (quasi tutti erano figli di siciliani emigrati negli Usa e parlavano il dialetto) e mi cedettero immediatamente il primo posto nella fila.
In casa non c'era un mobile, uno specchio, una sedia, un libro, niente, mio padre mi spiegò dopo che approfittando dei bombardamenti che avevano preceduto lo sbarco gli sciacalli si erano portati via tutto.
Per dormire, si era procurato una branda militare e ne trovò un'altra per me. Su quella branda ho fatto, per la stanchezza e le emozioni, uno dei sonni più profondi della mia vita. All'indomani, e non so ancora spiegare il perché, appena aperti gli occhi, mi vennero a mente i templi di Agrigento. Ero sicuro che i bombardamenti li avevano danneggiati. Volevo vederli, controllare di persona. Inforcai la bicicletta e cominciai a pedalare. Non so come riuscii a fare la salita della Catena, tutta la stanchezza del giorno prima era di colpo tornata. Dall'alto, il porto era una babilonia di navi e di anfibi, navi si vedevano in attesa a perdita d'occhio. Inoltre c'erano, sospesi in aria, decine e decine di enormi palloni che avrebbero dovuto impedire un attacco aereo ravvicinato. Ormai pedalavo sbandando. Un negro su una jeep ebbe pietà di me e mi caricò con tutta la bici, lasciandomi proprio ai piedi del tempio della Concordia.
Nella luce abbagliante di quella mattina di luglio, il tempio m'apparve intatto. Nello spiazzo antistante c'era un soldato americano che stava fotografando il tempio. O almeno tentava. Perché inquadrava, scuoteva la testa, si spostava di qualche passo a sinistra, scuoteva nuovamente la testa, si spostava a destra. A un tratto si mise a correre, si fermò, cercò un'altra angolazione. Neppure questa volta si mostrò contento. Io lo guardavo meravigliato. Il tempio quello era, bastava fotografarlo e via. Che cercava? Doveva essere un siciliano, lo si capiva dai tratti, forse voleva portare un ricordo ai suoi familiari in America. In quel momento, fummo assordati da un rumore di aerei e di spari. In cielo, ma a bassissima quota, si stava svolgendo un duello tra un aereo tedesco e uno americano. Mi gettai a terra. Anche il soldato si gettò a terra, ma, al contrario di me, a pancia all'aria. Scattava fotografie una appresso all'altra senza la minima indecisione, la macchina tra le sue mani era un'arma, una mitragliatrice. Poi i due aerei scomparvero. Ci rialzammo, gli dissi qualcosa in dialetto. Non capì. Io non parlo inglese, ma qualche parola la capisco. Mi spiegò che era un fotografo di guerra. Mi scrisse su un pezzetto di carta il suo nome: Robert Capa. Per me, allora, un perfetto sconosciuto. Ci salutammo. Ripresi la bicicletta, tanto la strada ora era tutta in discesa.
Adesso, se mi capita di guardare una delle foto «siciliane» di Capa, di quei giorni risento persino gli odori, ricordo i suoni, le parole, i rumori. Perché Capa, come tutti i grandi artisti, non solo rappresentava il presente, ma sapeva, contestualmente, consegnarcene una memoria eternamente viva e pulsante.
Andrea Camilleri