Il Tempo, 7.2.2002
Nostalgici della vecchia «kultura»

«FACCIAMOCI molto male», sembra la parola d'ordine fra gli intellettuali radicali di sinistra. Ha cominciato Nanni Moretti con il suo comizietto in piazza Navona dove, oltre a mostrare il re nudo, ovvero il suo partito privo di idee, ha dimostrato una irresistibile vocazione all'intolleranza additando come «squadrista» il mite Emilio Fede e demonizzando l'attuale governo di centro-destra, quasi fosse una minaccia per la democrazia. Per evitare che la polemica si concentrasse sulla povertà di idee e di strategie dei dirigenti dei DS, come stava succedendo in questi giorni, sono intervenuti adesso alcuni scrittori molto conosciuti in Francia soltanto perché sono stati tradotti grazie alla rete di complicità editoriali-giornalistiche di cui hanno goduto per anni e alle quali non sono estranei, come scrivevo qualche giorno fa, i direttori degli istituti di cultura all'estero, scelti sempre o quasi sempre nell'area di sinistra.
Vincenzo Consolo, dicendo di parlare anche a nome di Antonio Tabucchi e di Andrea Camilleri, ha dichiarato all'Istituto italiano di Cultura di Parigi (non a caso...) che non accetterà di intervenire al Salone del Libro di Parigi, dedicato quest'anno al nostro Paese, in qualità di esponente della nostra cultura, perché non vuole «rappresentare un governo che non ha nulla da spartire con la cultura». Vi sarà soltanto a titolo personale pagando di tasca propria. Questa mi pare un'ottima decisione: una volta tanto un intellettuale di sinistra non scende in alberghi a cinque stelle a spese dei munifici editori, come ha dichiarato Umberto Eco.
Consolo ha poi aggiunto: «Non c'è cultura senza democrazia e non c'è democrazia senza cultura», rinnovando il grido di dolore degli intellettuali, nostalgici della «kultura» che, espressione dei benemeriti governi di Prodi o di D'Alema, è passata per lo meno ai nostri occhi inosservata. Era forse impersonata dalla Melandri e in Rai da Zaccaria e Freccero? Ma lo scrittore siculo, che anni fa aveva minacciato di recarsi in esilio se fosse stato eletto sindaco di Milano un leghista, ma poi aveva desistito dal proposito nonostante l'elezione di Formentini, non ha capito o, meglio, non ha voluto capire che la delegazione italiana non rappresenta il governo: tant'è vero che Gianni Vallardi, coordinatore fra gli editori della presenza italiana, ha sottolineato che «sono gli editori e non i governi ha organizzare il salone». Fra l'altro questo gruppo di scrittori rappresenta soltanto una parte delle cultura italiana perché fra di loro non vi è nessun intellettuale di area diversa. Ma si sa ormai da decenni che la cultura che si definisce «di sinistra» ha sempre espunto e dichiarato come non esistenti gli scrittori che non fanno parte dei suoi clan.
In ogni modo questa sortita c'era da aspettarsela perché qualche settimana fa un altro personaggio fazioso, il ministro della cultura francese Catherine Tasca, aveva dichiarato di non gradire la presenza all'inaugurazione di Silvio Berlusconi definendolo «ospite indesiderato», e mettendo così in serio imbarazzo il suo governo.
Giustamente Alain Elkann ha definito le parole di Consolo «incivili e antidemocratiche» soggiungendo che questi scrittori «dovrebbero sapere che la differenza di patente di democrazia si vede proprio quando si è all'opposizione. Mettendo in discussione la legittimità di un voto democratico finiscono per dimostrare un atteggiamento antidemocratico». In realtà la loro preoccupazione è di perdere a poco a poco quelle rendite di posizione che sono state favorite dagli ultimi governi di 
sinistra e di vedere irrompere sulla scena intellettuali, artisti, attori e registi, come ad esempio Giorgio Albertazzi, finora repressi, sottostimati e respinti dal salotto buono della cultura che una volta era marxista o neoilluminista e oggi non ha più certezze.
Noi, che al «salotto buono» non apparteniamo e non siamo nemmeno favoriti dal nuovo governo, non possiamo che ringraziare calorosamente Consolo & C. perché con le loro dichiarazioni hanno rivelato all'opinione pubblica nazionale e internazionale la loro vocazione totalitaria, la propensione non a discutere civilmente, a confrontare le idee, ma semplicemente a demonizzare chi non ne condivide le convinzioni, se mai ne abbiano ancora.
Da tutta questa storia si salva infatti la cultura libera o, se volete chiamarla con un linguaggio politico, moderata. D'altronde, quando i suoi esponenti si recano all'estero anche a titolo personale, sono consapevoli, di là dai colori dei governi in carica, di rappresentare una nazione e la sua società culturale nelle sue varie articolazioni ideali: senza spirito di parte, senza mettere le mani nel naso.