L'Indice, 12.2002
Come chiese di campagna
Andrea Camilleri. Storie di Montalbano

Negli ultimi racconti di Camilleri pubblicati da Mondadori lo scorso maggio (La paura di Montalbano), l'eroe antieroe solitario e scontroso, che non riesce a trovare nulla di sacro nella morte, ha paura. L’uomo generoso, leale, sincero, che ha costruito la sua simpatia sulla normalità e sull'amore per le buone letture e la buona tavola, il personaggio che trova sfumature sempre nuove di romanzo in romanzo, teme di perdersi negli abissi dell'animo umano. Un Montalbano inquieto si muove in quelle pagine: svanita la "compiuta appagatezza" delle triglie fritte, appare smarrito davanti alla “cosiddetta realtà” che si sdoppia: "Io esisto perché c'è un negativo fatto di delitti, di assassini, di violenze. Se non esistesse questo negativo, il mio positivo, cioè io, non potrebbe esistere”. Montalbano, sul ciglio dello strapiombo, rivede la faccia disperata di una donna che non riesce più ad aprire gli occhi dopo l'incidente che avrebbe dovuto spalancarglieli, e per la prima volta in vita sua prova un senso di vertigine "perché sapeva benissimo che, raggiunto il fondo di uno qualsiasi di questi strapiombi, ci avrebbe immancabilmente trovato uno specchio. Che rifletteva la sua faccia”.
I racconti brevi, precisa Camilleri, non sono polizieschi in senso stretto, ma storie di incontri occasionali e straordinari di Montalbano, che sempre più spesso nelle sue indagini è colto da un senso di delusione e impotenza. Il commissario, nato nel 1950, accusa l'incalzare della modernità, la devianza delle istituzioni, lo sfascio di quelle regole implicite che tenevano in equilibrio la struttura precaria della legalità, e annuncia che modellare un racconto sulla temperie attuale non è più possibile. L'inquietudine e il disagio gli impediscono ormai di tessere le fila delle sue indagini in un contesto politico di cui non riesce più a decrittare i codici.
La crisi del personaggio adombra la difficoltà dell'autore, che medita di mandare “i Montalbano”, ormai traslati a genere letterario, in pensione. Gli risponde Mondadori, sdoganando il poliziesco nel più elegante dei modi: Storie di Monta bano, in uscita nella collana “I Meridiani”, raccoglie i sei romanzi incentrati sulle vicende del poliziotto di Vigàta (La forma dell’acqua, Il cane di terracotta, il ladro di merendine, La voce del violino, La gita a Tindari, L'odore della notte), e una bella antologia d'autore dei libri di racconti, compreso l'ultimo (Un mese con Montalbano, Gli arancini di Montalbano, La paura di Montalbano). Questo primo volume, a cura di Mauro Novelli (il secondo, sui romanzi storici, è previsto per il 2004), è corredato da una cronologia ricca e divertente, nella quale si riconosce la mano di romanziere di Antonio Franchini, attento a cogliere la rilevanza biografica di episodi anche minimi, e si avvale di un'introduzione di Nino Borsellino, Camilleri gran tragediatore.
Tragediaturi è chi organizza beffe e burle, spesso pesanti, a rischio di ritorsioni ancora più grevi; proprio le strategie della comicità sono oggetto dello studio di Borsellino, che verifica il nesso con la tradizione letteraria siciliana del secolo scorso, ipotizzando una diversa lettura del caso letterario, che si costruisce su un fenomeno da tempo scomparso in Italia, il pubblico "in attesa". In effetti il pregio di Montalbano è, come sottolinea il curatore, di aver creato un successo persistente, che a ogni puntata trascina i testi precedenti, allargandosi - complice la trasposizione in fiction televisiva e radiofonica - a diverse fasce di pubblico. Forse perché, così come Montalbano risolve le indagini mettendosi "dalla parte del morto", Camilleri si mette dalla parte del lettore, tramite indispensabile dell'esistenza di un'opera.
Chi legge per professione, cioè il critico, è più distratto, riflette Borsellino; è più chiuso nei suoi settori di competenza o è condizionato da militanze e poetiche personali. Seleziona le offerte difendendosi dal suo istinto, quel principio del piacere che invece anima le scelte del lettore comune, per nulla intimorito, nonostante i dubbi dei primi editori, dal meticciato italo-vigatese. Sulla sfida linguistica si è appunto concentrato il lavoro di Mauro Novelli. Nel saggio L'isola delle voci si riconosce la matrice essenziale della scrittura camilleriana e si esaminano gli effetti di quella tensione all'oralità che restituisce al lettore un'immagine suggestiva della Sicilia, racchiudendone le voci: uno studio rigoroso sulla questione della sintassi, sull'inesauribile polifonia che si sprigiona dagli scambi verbali, sull'abilità mimetica dello scrittore.
Novelli ricorda come la soluzione "creolizzante", veicolo per il recupero di una riconoscibile identità letteraria, sia stata a torto interpretata ora come un plurilinguismo espressionista dalle velleità populistiche, ora come una concessione all'aborrita “facilità”. Certo è che la lunga esperienza di sceneggiatore, anche radiofonico, di Camilleri, unita alluso ironico di ipotesti raffinati, è il marchio di uno stile inconfondibile segnato dal “teatralismo intrinseco” (la definizione è di Borsellino) che, nonostante la singolarità, ha registrato un vasto consenso anche all'estero.
Le traduzioni, oltre un centinaio, diffuse in paesi assai lontani dalla nostra cultura, ne fanno uno degli scrittori italiani contemporanei più letti nel mondo. Il problema linguistico meriterebbe un approfondimento a parte per la ricchezza di spunti che offre, ed è stato infatti occasione di incontro e scontro durante l'ultimo convegno a Palermo nel marzo scorso (“Letteratura e storia. Il caso Camilleri”), i cui atti sono previsti in uscita presso Sellerio all'inizio del 2003. L'evento ha riunito per la prima volta i principali traduttori (Dominique Vittoz e Serge Quadruppani per il francese, Moshe Kahn per il tedesco, Blanca Muñiz per lo spagnolo e Stephen Sartarelli per l'inglese) di fronte a problemi tecnici e interpretativi. Al di là delle scelte, interessantissime, operate per riprodurre nelle singole lingue il vigatese di Camilleri, la sua scrittura rimette in discussione il concetto stesso di traduzione: riproduzione piatta e fedele, distruggendo in questo caso un'individualità precisa? ricorso a parlate regionali che potrebbero risultare troppo evocative per il lettore straniero? allargamenti arbitrari verso neologismi che forzano i limiti di elasticità di una lingua? Se è vero che la traduzione dovrebbe poter sfruttare le potenzialità linguistiche insite in ciascun idioma per esaltarne la differenza come garanzia di specificità delle singole culture, quale francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco o giapponese per Camilleri?
La tentazione della critica più intransigente, il silenzio sdegnoso - o sdegnato -, è contraddetto nei fatti dal dibattito che l'opera di Camilleri accende su più fronti, e sarà probabilmente scosso dall'operazione spregiudicata di Mondadori, che ha scelto proprio Montalbano come alfiere di una ripolarizzazione iniziata con il recente interesse di linguisti e sociologi per la narrativa d'intrattenimento, per quei romanzi gialli che, come dice Montalbano a Mimì Augello, '”a una certa critica e da certi cattedratici, o aspiranti tali, sono considerati un genere minore, tant'è vero che nelle storie serie della letteratura manco compaiono”. Lo stesso Camilleri, che si ritiene scrittore democraticamente eletto, ed eletto più volte, lungi dal volersi camuffare si fa portavoce di quella controversa categoria: “Una cosa che ho sempre detestato è che in Italia se tu non fai una cattedrale non sei un architetto. Invece ci sono delle cattedrali orrende, delle chiese orrende, e delle chiese di campagna meravigliose” (La testa ci fa dire).
Forse aveva ragione Gadda, è inutile assediare di chiacchiere quelle idee fisse che paiono occluse in talune posizioni della conoscenza: “Mentre il canone brilla nel cielo delle sette stelle, più fisso che mai, il mondo impertinente gira sette volte su sé stesso. (...) Così avviene malauguratamente a certi solenni maestri: di esser battuti dagli empirici” (Meditazione milanese II).
Simona Munari