Negli ultimi racconti di Camilleri pubblicati da Mondadori lo scorso
maggio (La paura di Montalbano), l'eroe antieroe solitario e scontroso,
che non riesce a trovare nulla di sacro nella morte, ha paura. L’uomo generoso,
leale, sincero, che ha costruito la sua simpatia sulla normalità
e sull'amore per le buone letture e la buona tavola, il personaggio che
trova sfumature sempre nuove di romanzo in romanzo, teme di perdersi negli
abissi dell'animo umano. Un Montalbano inquieto si muove in quelle pagine:
svanita la "compiuta appagatezza" delle triglie fritte, appare smarrito
davanti alla “cosiddetta realtà” che si sdoppia: "Io esisto perché
c'è un negativo fatto di delitti, di assassini, di violenze. Se
non esistesse questo negativo, il mio positivo, cioè io, non potrebbe
esistere”. Montalbano, sul ciglio dello strapiombo, rivede la faccia disperata
di una donna che non riesce più ad aprire gli occhi dopo l'incidente
che avrebbe dovuto spalancarglieli, e per la prima volta in vita sua prova
un senso di vertigine "perché sapeva benissimo che, raggiunto il
fondo di uno qualsiasi di questi strapiombi, ci avrebbe immancabilmente
trovato uno specchio. Che rifletteva la sua faccia”.
I racconti brevi, precisa Camilleri, non sono polizieschi in senso
stretto, ma storie di incontri occasionali e straordinari di Montalbano,
che sempre più spesso nelle sue indagini è colto da un senso
di delusione e impotenza. Il commissario, nato nel 1950, accusa l'incalzare
della modernità, la devianza delle istituzioni, lo sfascio di quelle
regole implicite che tenevano in equilibrio la struttura precaria della
legalità, e annuncia che modellare un racconto sulla temperie attuale
non è più possibile. L'inquietudine e il disagio gli impediscono
ormai di tessere le fila delle sue indagini in un contesto politico di
cui non riesce più a decrittare i codici.
La crisi del personaggio adombra la difficoltà dell'autore,
che medita di mandare “i Montalbano”, ormai traslati a genere letterario,
in pensione. Gli risponde Mondadori, sdoganando il poliziesco nel più
elegante dei modi: Storie di Monta bano, in uscita nella collana “I Meridiani”,
raccoglie i sei romanzi incentrati sulle vicende del poliziotto di Vigàta
(La forma dell’acqua, Il cane di terracotta, il ladro di merendine, La
voce del violino, La gita a Tindari, L'odore della notte), e una bella
antologia d'autore dei libri di racconti, compreso l'ultimo (Un mese con
Montalbano, Gli arancini di Montalbano, La paura di Montalbano). Questo
primo volume, a cura di Mauro Novelli (il secondo, sui romanzi storici,
è previsto per il 2004), è corredato da una cronologia ricca
e divertente, nella quale si riconosce la mano di romanziere di Antonio
Franchini, attento a cogliere la rilevanza biografica di episodi anche
minimi, e si avvale di un'introduzione di Nino Borsellino, Camilleri gran
tragediatore.
Tragediaturi è chi organizza beffe e burle, spesso pesanti,
a rischio di ritorsioni ancora più grevi; proprio le strategie della
comicità sono oggetto dello studio di Borsellino, che verifica il
nesso con la tradizione letteraria siciliana del secolo scorso, ipotizzando
una diversa lettura del caso letterario, che si costruisce su un fenomeno
da tempo scomparso in Italia, il pubblico "in attesa". In effetti il pregio
di Montalbano è, come sottolinea il curatore, di aver creato un
successo persistente, che a ogni puntata trascina i testi precedenti, allargandosi
- complice la trasposizione in fiction televisiva e radiofonica - a diverse
fasce di pubblico. Forse perché, così come Montalbano risolve
le indagini mettendosi "dalla parte del morto", Camilleri si mette dalla
parte del lettore, tramite indispensabile dell'esistenza di un'opera.
Chi legge per professione, cioè il critico, è più
distratto, riflette Borsellino; è più chiuso nei suoi settori
di competenza o è condizionato da militanze e poetiche personali.
Seleziona le offerte difendendosi dal suo istinto, quel principio del piacere
che invece anima le scelte del lettore comune, per nulla intimorito, nonostante
i dubbi dei primi editori, dal meticciato italo-vigatese. Sulla sfida linguistica
si è appunto concentrato il lavoro di Mauro Novelli. Nel saggio
L'isola delle voci si riconosce la matrice essenziale della scrittura camilleriana
e si esaminano gli effetti di quella tensione all'oralità che restituisce
al lettore un'immagine suggestiva della Sicilia, racchiudendone le voci:
uno studio rigoroso sulla questione della sintassi, sull'inesauribile polifonia
che si sprigiona dagli scambi verbali, sull'abilità mimetica dello
scrittore.
Novelli ricorda come la soluzione "creolizzante", veicolo per il recupero
di una riconoscibile identità letteraria, sia stata a torto interpretata
ora come un plurilinguismo espressionista dalle velleità populistiche,
ora come una concessione all'aborrita “facilità”. Certo è
che la lunga esperienza di sceneggiatore, anche radiofonico, di Camilleri,
unita alluso ironico di ipotesti raffinati, è il marchio di uno
stile inconfondibile segnato dal “teatralismo intrinseco” (la definizione
è di Borsellino) che, nonostante la singolarità, ha registrato
un vasto consenso anche all'estero.
Le traduzioni, oltre un centinaio, diffuse in paesi assai lontani dalla
nostra cultura, ne fanno uno degli scrittori italiani contemporanei più
letti nel mondo. Il problema linguistico meriterebbe un approfondimento
a parte per la ricchezza di spunti che offre, ed è stato infatti
occasione di incontro e scontro durante l'ultimo convegno a Palermo nel
marzo scorso (“Letteratura e storia. Il caso Camilleri”), i cui atti sono
previsti in uscita presso Sellerio all'inizio del 2003. L'evento ha riunito
per la prima volta i principali traduttori (Dominique Vittoz e Serge Quadruppani
per il francese, Moshe Kahn per il tedesco, Blanca Muñiz per lo
spagnolo e Stephen Sartarelli per l'inglese) di fronte a problemi tecnici
e interpretativi. Al di là delle scelte, interessantissime, operate
per riprodurre nelle singole lingue il vigatese di Camilleri, la sua scrittura
rimette in discussione il concetto stesso di traduzione: riproduzione piatta
e fedele, distruggendo in questo caso un'individualità precisa?
ricorso a parlate regionali che potrebbero risultare troppo evocative per
il lettore straniero? allargamenti arbitrari verso neologismi che forzano
i limiti di elasticità di una lingua? Se è vero che la traduzione
dovrebbe poter sfruttare le potenzialità linguistiche insite in
ciascun idioma per esaltarne la differenza come garanzia di specificità
delle singole culture, quale francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco
o giapponese per Camilleri?
La tentazione della critica più intransigente, il silenzio sdegnoso
- o sdegnato -, è contraddetto nei fatti dal dibattito che l'opera
di Camilleri accende su più fronti, e sarà probabilmente
scosso dall'operazione spregiudicata di Mondadori, che ha scelto proprio
Montalbano come alfiere di una ripolarizzazione iniziata con il recente
interesse di linguisti e sociologi per la narrativa d'intrattenimento,
per quei romanzi gialli che, come dice Montalbano a Mimì Augello,
'”a una certa critica e da certi cattedratici, o aspiranti tali, sono considerati
un genere minore, tant'è vero che nelle storie serie della letteratura
manco compaiono”. Lo stesso Camilleri, che si ritiene scrittore democraticamente
eletto, ed eletto più volte, lungi dal volersi camuffare si fa portavoce
di quella controversa categoria: “Una cosa che ho sempre detestato è
che in Italia se tu non fai una cattedrale non sei un architetto. Invece
ci sono delle cattedrali orrende, delle chiese orrende, e delle chiese
di campagna meravigliose” (La testa ci fa dire).
Forse aveva ragione Gadda, è inutile assediare di chiacchiere
quelle idee fisse che paiono occluse in talune posizioni della conoscenza:
“Mentre il canone brilla nel cielo delle sette stelle, più fisso
che mai, il mondo impertinente gira sette volte su sé stesso. (...)
Così avviene malauguratamente a certi solenni maestri: di esser
battuti dagli empirici” (Meditazione milanese II).
Simona Munari