La Repubblica, ed. di Palermo, 24.2.2002
Le voci nascoste di una lingua nazionale "L'italiano migliore? Nasce dai dialetti"
Intervista con Walter Pedullà, relatore con De Mauro e altri studiosi del convegno "Parlare oggi" che inizia martedì

«All'unità italiana Mike Bongiorno ha giovato più del conte di Cavour Camillo Benso». È una celebre battuta di Umberto Eco, che dà la misura del ruolo di scuola di lingua svolto dalla televisione, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, determinando una diffusione rapida dell'italiano, a scapito però del lessico e della sintassi. È trascorso più di mezzo secolo dal miracolo compiuto dai mezzi di comunicazione, nel corso del quale studiosi, addetti ai lavori, scrittori e parlamentari hanno alimentato un dibattito estenuante sullo stato della nostra lingua, sull'omologazione imperante, sui debiti nei confronti del dialetto. Argomenti che torneranno al centro dell'attenzione la settimana prossima, grazie al convegno organizzato dalla facoltà di Lettere e Filosofia in sinergia con l'assessorato regionale dei Beni Culturali, 
organizzato in occasione del cinquantenario della costituzione del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, sul tema "Parlare oggi. Dinamiche linguistiche nell'Italia contemporanea". Un convegno articolato in sette tavole rotonde, che avranno inizio martedì alle 16 nella sala magna dello Steri, alle quali prenderanno parte i maggiori specialisti italiani e europei, tra cui Tullio De Mauro, Francesco Avolio, Alberto Varvaro, Francesco Bruni, Walter Pedullà. A quest'ultimo, ordinario di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea nell'università La Sapienza di Roma e presidente della Rai nel 1992 e nel 1993, abbiamo chiesto alcune anticipazioni del suo discorso su "I dialetti nel romanzo italiano contemporaneo". «Il tema su cui ci confronteremo - spiega Pedullà - è davvero importante: perché in letteratura il materiale fondamentale, l'ingrediente primario, è la parola; anche i realisti, che pare parlino di oggetti concreti, devono fare i conti sulla parola che usano. Partire da un problema linguistico dunque è la cosa migliore».
Professore Pedullà, che ruolo gioca il dialetto nel romanzo italiano contemporaneo?
«Per rispondere a questa domanda innanzitutto bisogna chiedersi: quanti degli scrittori contemporanei hanno fatto ricorso al dialetto per rifornirsi di parole e dare maggiore mordente alla loro cifra stilistica? In Italia abbiamo avuto il caso clamoroso di Gadda, che ha voluto rompere con una lingua burocratica, da bollettino ufficiale, optando per una scelta polifonica e plurilinguistica. Ma, visto che il convegno si terrà in Sicilia, prima di lui c'era stato De Roberto, il quale ne La paura racconta di alcuni soldati che, in trincea, parlano dialetti diversi, motivo per cui non riescono a comunicare. Quella dovrebbe essere una nazione? A mio avviso, i migliori narratori del secondo dopoguerra, si sono formati nelle zone depresse dell'italiano, saccheggiando serbatoi dialettali, sgrammaticature, anacoluti. La letteratura italiana lavora come un soffietto: ogni tanto va in periferia e si rifornisce di parole, di modi di pensare».
Dopo De Roberto c'è stato Stefano D'Arrigo...
«È lui il più grande narratore dopo Pirandello. Il suo è un caso esemplare riguardo al rapporto tra letteratura e dialetto: con Horcinus Orca è riuscito a creare una lingua che nessuno parla ma che sembra parlato».
Negli anni del capolavoro di D'Arrigo, usciva anche Il sorriso dell'ignoto marinaio di Consolo, il quale faceva parlare tutta una comunità in una lingua emarginata.
«In Sicilia va forte il barocco. E il barocco ama le lingue, le frazione, le tritura e le insaporisce. Oggi ci sono Silvana Grasso, autrice di La pupa di zucchero, ricco di vitalità metaforica, che assorbe il dialetto e lo liricizza, e Camilleri, nelle cui pagine ritroviamo i sapori, la memoria, le citazioni, tutto quanto funzionale al racconto che vuole fare».
Salvatore Ferlita