Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002
Camilleri in Francia
Contro il centralismo viva la parlata di Lione
L'argot ripescato come sfida al monolinguismo parigino. Come per "La
stagione della caccia" e "Un filo di fumo", anche per "Il re di Girgenti"
si annuncia una traduzione che tra scavare e inventare preferisce la fedelta`
idiomatica: quella della provincia lionese
di Dominique Vittoz
Camilleri in francese: un work in progress
Parte del recente convegno di Palermo sul caso Camilleri è stata
dedicata ai problemi della sua traduzione in francese, inglese, spagnolo
(castillano e catalano) e tedesco, presenti quattro traduttori: Stephen
Sartarelli per l’inglese, Moshe Kahn per il tedesco, Serge Quadruppani
e la sottoscritta per il francese, con rispettivi interventi ai quali purtroppo
non fu fatto seguire un dialogo tra traduttori e con il pubblico. Ovviamente
emerse una cosa: l’italiano di Camilleri costringe le lingue che lo vogliono
tradurre a creare opportuni e inconsueti spazi all’interno di sé.
Tutto il problema sta nel come farlo, su quali criteri, in funzione di
quale stato della lingua di arrivo, con quali obbligate eppur torturanti
preferenze. E con un continuo dilemma: bisogna costringersi a restare all’interno
delle proprie risorse linguistiche riscoprendole all’occasione, oppure
ci si può concedere margini di deformazione e invenzione (fonetica
e/o morfologica), fermo restando che Camilleri rarissimamente, se non mai,
inventa parole di sana pianta ma sfrutta con gusto un suo patrimonio dialettale,
letterario e biografico? Premetto che nel campo della traduzione, non solo
ogni autore sta a sé ma pure ogni libro, e la strategia va ripensata
di volta in volta anche perché la ricezione di un’opera si iscrive
nella durata. Tanto per intenderci, il lettore italofono de Il re di
Girgenti non è lo stesso del suo antenato che nel 1978 lesse
il molto più timido, dal punto di vita della sperimentazione linguistica,
Corso
delle cose redatto sin dal 1968 e pubblicato senza clamore dieci anni
dopo. E di ciò hanno preso atto l’autore stesso e la sua editrice
nella ristampa selleriana de Un filo di fumo quando ripropongono
con «sottile divertimento» il glossario dell’edizione garzantiana
del 1980, ormai «diventato superfluo». Anche le traduzioni
si costruiscono sul sostrato di quelle precedenti come dimostrano le ritraduzioni
periodiche dei grandi libri della letteratura mondiale. Perciò queste
mie riflessioni sono da considerare iscritte in una dinamica in atto, che
dialoga sia con le scelte degli altri traduttori (si consideri che la ricezione
dell’opera di Camilleri in Francia è affidata a niente meno che
cinque case editrici e quattro traduttori diversi) sia con la mia propria
pratica.
Il mio proposito qui è di chiarire perché, riguardo al
dilemma scavare/inventare, ho dato la preferenza, nella traduzione de La
stagione della caccia e di Un filo di fumo, alla prima soluzione.
Non senza rammarico, ho scrupolosamente tenuto a bada le tentazioni della
libera inventività la quale porta pur con sé il rischio di
sfociare in un angusto e narcisistico idioletto. Nel caso specifico del
francese poi, questo rischio è moltiplicato da una limitatissima
elasticità, di gran lunga minore rispetto a quella, non diciamo
nemmeno della lingua di Camilleri, ma dell’italiano tout court.
Fondamentalmente questa poca duttilità linguistica ha due ragioni
: lo scrupolo accademico e il centralismo linguistico, entrambi potentemente
sorretti dagli ideali di matrice illuministica di chiarezza, universalità
e uguaglianza.
Lo scrupolo accademico consiste in una fortissima esigenza di rispetto
della norma, sintattica (le famigerate fautes de français),
ortografica (il nostro è Paese dove è possibile fare appassionare
la gente con gare nazionali di dettato…), lessicale (basti pensare all’obbrobrio
che suscitano i neologismi). In altre parole, il codice linguistico francese
è ferreamente strutturato e le devianze mai pacifiche. Ulteriore
elemento di vigilanza è reperibile nel fatto che il non usare un
francese corretto fu a lungo - e temo purtroppo lo sia ancora - un alimento
alla mai sopita xenofobia francese. Non si dimentichi che nel francese,
lingua di colonizzatori, esiste il modo di dire parler petit nègre
(letteralmente “parlare piccolo negro”), anzi p’tit nègre,
per una persona che non sia in grado di maneggiare correttamente sintassi
coniugazioni e fonemi. Come scrive il romanziere francofono di Costa d’Avorio,
Ahmadou Kourouma: «Sono p’tit nègre. Non già
perché io sia black e caruso. No! Perché parlo male
il francese. Così è. Anche se si è grandi, vecchi,
arabi, cinesi, bianchi, russi, perfino americani; se si parla male il francese,
si dice quello parla p’tit nègre, si è p’tit nègre
lo stesso. Lo vuole la legge del francese di tutti i giorni». Perfino
il divario tra lingua scritta e lingua parlata è pudicamente sorvegliato
(si badi che qui parliamo di letteratura: ad essere in ballo è il
parlato letterario, non il parlato della strada). Per cui bisognerà
tener presente tale importanza psicologica del padroneggaire la lingua,
anche orale, quando si cercherà di tradurre gli scarti linguistici
di Camilleri rispetto alla norma dell’italiano nazionale, i quali
sono di natura dialettale e non grammaticale o ortografica, tranne eccezione
come alcuni biglietti scritti da personaggi analfabeti o quasi in Concessione
del telefono o La scomparsa di Patò. Prova a contrario
dell’imperante rispetto del codice in francese è la ricchezza anche
letteraria dell’argot al quale ricorsero e ricorrono autori in rottura
di consenso accademico come Céline, e numerosi autori di gialli.
Per quanto poi riguarda il centralismo linguistico, il contesto è
quello identitario di un sentimento nazionale forte, espressosi nei dettami
dell’Académie française per cui le parlate delle province
(come cadenza, come lessico), bollate di rozzezza e goffaggine, non accesero
a dignità di veicolo culturale extraregionale (come invece fu ed
è il caso delle lingue regionali in Italia: tanto per intenderci
la Francia non ha né Goldoni né De Filippo né Massimo
Troisi). Eppure un patrimonio linguistico regionale dei francesi c’è,
presente in particolare nel mondo rurale, vale a dire, fino al secondo
dopoguerra, la stragrande parte del Paese, solo che è in gran parte
inconscio. Si tratta quindi di recuperarlo a fini non folcloristici ma
espressivi. Almeno è quanto ho tentato di fare per La stagione
della caccia e Un filo di fumo, riscoprendo grazie al plurilinguismo
disinibito di Camilleri una mia personale memoria di patois, per
usare la spregiativa parole francese, vale a dire in termini linguistici
più nobili, la parlata franco-provenzale di Lione i cui lessemi
e modi di dire energici non avevo mai usato, ma tante volte sentito in
bocca a persone della mia famiglia e del mio paese.
Si trattò quindi per me di coniare spudoratamente un francese
meticcio, non inventandolo contrariamente a Louis Bonalumi per La bolla
di componenda che conia parole francesi anche gustosissime, o Serge
Quadruppani che a piccolissime dosi inventa un vocalismo solo suo (paradigmaticamente:
pirsonne invece di personne) ma attingendo a una parlata, dal francese
accademico trascurata e disprezzata, eppure piena di vitalità. Con
un altro vantaggio poi e non di minor conto: fare finalemente a meno dell’argot
che, in quanto lingua dell’emarginazione non è fonte linguistica
originaria dell’infanzia, e tuttavia troppe volte resta l’ancora di salvezza
dei traduttori per i brani dialettalizzati.
È chiaro che lì ho imboccato una strada poco frequentata
anche se non proprio deserta. Si pensi a Henri Barbusse ne Le feu,
versione francese formato romanzo de La paura di De Roberto, o a
Jean Giono. La scelta poi del lionnese non fu motivata solo dall’essere
di già patrimonio mio, ma per altri tre motivi: l’esistenza di un
ricco lessico, morfologicamente ben distinto da quello francese; l’assenza
di deformazioni fonetiche troppo distanti dalla norma dell’eleganza e etnicamente
caratterizzate, evocanti in particolare arabi o africani francofoni e infine
l’esistenza di una tradizione scritta. A differenza della situazione linguistica
tedesca gustosamente esposta da Moshe Kahn, dove difficilmente si può
sfruttare un dialetto di Germania per sostituirlo al dialetto di Camilleri
in quanto troppo connotato per il lettore tedesco, la parlata di Lione
produce un effetto straniante non facilemente e sistematicamente riconducibile
ad una precisa regione di Francia.
Chi non si è convinto si rassicuri : sto rimettendo tutto ciò
in questione per affrontare la mia nuova traduzione camilleriana, quella
de Il Re di Girgenti la cui diversa impostazione linguistica
mi obbliga a ripartire daccapo. Sperando di cuore di trovare modi per offrire
ai lettori francesi qualcosa dell’ormai sfrenata immersione dialettale
alla quale Camilleri sottomette i suoi consenzientissimi lettori italiani.
Dominique Vittoz insegna italianistica all'università di
Lione. Ha pubblicato saggi su Guido Morselli, Aldo Busi, Marcello Fois,
Erri De Luca nonché sul giovane cinema italiano. Ha tradotto Niccolò
Ammaniti e Marcello Fois. Di Andrea Camilleri ha tradotto per Fayard La
concessione del telefono, Il gioco della mosca, La stagione della caccia,
Un filo di fumo e sta preparando Il re di Girgenti e Il corso
delle cose.