Il Mattino, 7.4.2002
Quando c’era il regime, quello vero

«Sorry» - come dicono gli inglesi - per gli aspiranti Nobel Camilleri, Consolo e Tabucchi, che non ho il piacere di conoscere e di cui ho letto le opere (e me la pagheranno), ma l’Italia è ancora un Paese libero. Ad onta degli sforzi che il Cavaliere ha fatto, e fa, per renderlo schiavo. I giornali scrivono quello che gli pare e piace. La Rai, bieco feudo del Centrodestra, dà voce e spazio ai Santoro e ai Biagi che sarebbe eccessivo definire pasdaran del mostro arcoriano. In attesa della mordacchia e del guinzaglio la Sperling & Kupfer, controllata al cento per cento dalla Mondadori controllata a sua volta dalla Fininvest, controllata a sua volta dalla famiglia Berlusconi, affida una collana di saggistica contemporanea al noto forzista Gianni Minà, amico di Cassius Clay e di Fidel Castro.
Chi parla di fascismo o ignora la storia o non conosce il pudore. Se non conosce il pudore, peggio per lui: io non posso farci niente. Se ignora la storia, o l’ha dimenticata, posso rinfrescargli la memoria. Il cavalier Benito, come tutti sanno, o dovrebbero sapere, diventò capo del governo nell’ottobre del 1922, dopo la marcia su Roma, che in realtà fu una folcloristica scampagnata fuori porta. Conquistò il potere non con un colpo di Stato, ma con trentacinque deputati. Pochi, pochissimi rispetto a quelli socialisti, popolari e liberali. Che uniti avrebbero salvato sé stessi e la democrazia.
Ma uniti non erano. Si guardavano in cagnesco e si facevano la guerra, dopo avere perduto, almeno i socialisti e i liberali, quella appena finita. Perduta nei fatti, pur se vinta sulla carta e sui campi di battaglia. La pace di Versailles, arbitrata dal visionario yankee Wilson e da Clemenceau, «il tigre», ci aveva negato Fiume e una fetta della Dalmazia. Vittorio Emanuele Orlando ne aveva fatto una malattia e a Parigi, in piena conferenza, era scoppiato a piangere, suscitando la celebre battuta del prostatico premier francese: «Ah, se potessi far pipì come Orlando versa lacrime».
Non fu, ho detto, un colpo di Stato perché di un colpo di Stato non c’era bisogno. Nel Paese non funzionava più nulla, tutto era a pezzi. Le squadracce rosse e nere avevano trasformato le strade e le piazze in sanguinose arene. Manganelli, olio di ricino, falò, assassinii erano all’ordine del giorno. I comunisti, nati a Livorno nel 1921, si accanivano, ricambiatissimi, contro i fascisti, usciti dal cappello a cilindro del maestro romagnolo nel 1919. Chi alzava più la voce, chi menava meglio le mani, avrebbe avuto partita vinta. La ebbero i neri con i loro maglioni e le loro camicie dello stesso colore, resi più minacciosi dal motto stentoreo e ribaldo: «Me ne frego».
Mussolini vinse non solo perché più abile e spregiudicato dell’avversario, ma anche perché i poteri forti temevano i soviet, che avevano occupato la Fiat di Torino, più dei fasci, che non avevano occupato niente. La corona, gli stati maggiori, l’alta burocrazia, l’alta diplomazia, la grande finanza e la grande industria preferirono affidarsi al cavalier Benito che agli agenti moscoviti. Erano convinti - e mai convinzione fu più fallace e fatale - di usare il capopopolo predappiese finché gli fosse servito, per poi sbarazzarsene a normalità ritrovata. Ma avevano fatto i conti senza l’oste. Mussolini aveva capito il gioco, ci era stato e, al momento opportuno, ne aveva dettato le regole. Dettate così bene che per vent’anni governò, trasformando una democrazia inetta e dimissionaria in un regime autocratico.
È quello che, secondo gli aspiranti Nobel Camilleri, Consolo e Tabucchi, che non ho il piacere di conoscere e di cui ho letto le opere (e me la pagheranno), vorrebbe fare il Cavaliere.
Il suo quartier generale, come sapete, è in via del Plebiscito, a un tiro di schioppo, anzi di cerbottana, da Palazzo Venezia. Un trasloco facile, il tempo di attraversare la strada e raggiungere la sala del Mappamondo, aprire la finestra e affacciarsi al balcone. E non in doppiopetto, anche se di Caraceni, e neppure in pullover girocollo di cachemire. No: in uniforme di caporale d’onore della milizia, fez e stivali. Coram populo, il redivivo «puzzone» dovrebbe pronunciare un discorso. E non un discorso qualunque. Un discorso di quelli che lasciano il segno, che la Storia archivia, i contemporanei applaudono, i posteri meditano. Un discorso rivolto a tutti i connazionali, compresi quelli che, in nome della libertà, hanno scelto l’esilio: «Italiani, siate seri».
Roberto Gervaso