La Stampa, 12.6.2002
Com'e` nato il piu` famoso detective italiano: un libro e due CD in cui Camilleri racconta il suo commissario e ne legge le avventure

Mondadori manda oggi in libreria il cofanetto «Montalbano a viva voce» (19 euro) con un volume e due cd nei quali Andrea Camilleri legge sette racconti che hanno per protagonista il poliziotto di Vigata. Apre il volume l´inedito «Alcune cose che so di Montalbano» in cui, conversando con Renata Colorni e Antonio Franchini, Camilleri racconta genesi e anima del suo personaggio. Con una sorprendente rivelazione: dopo il G8 di Genova, è diventato difficile per lui scrivere un poliziesco. Di questo capitolo introduttivo pubblichiamo la parte iniziale.

 «Quel che so di lui»

HO già raccontato più volte di come Manuel Vázquez Montalbán abbia a che fare con Montalbano soltanto in maniera indiretta.
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Un'altra cosa che ho sempre detto è come l'idea di scrivere un romanzo giallo sia nata in me dalla nota affermazione di Sciascia secondo cui la «gabbia» del giallo è un esercizio salutare e utilissimo per lo scrittore, perché lo «obbliga», lo costringe a giocare col lettore ad armi pari. C'è infine un aspetto che riguarda soprattutto il mio modo di lavorare. Quando scrivo un romanzo che non sia un giallo, l'inizio per me non coincide mai con il capitolo primo. Ciò che scrivo per primo può diventare, in corso d'opera, il capitolo settimo o l'ottavo. Siccome si tratta di romanzi storici, la cosa che comincio a scrivere per prima è la frase, l'aneddoto, il nucleo del fatto che più mi ha colpito.
... Nel giallo non è mai così, in tutti i gialli il capitolo primo è il capitolo primo e l'ultimo è l'ultimo. Allora, mi dissi quando cominciai, vediamo se sono capace. Mi sono dato un compito. Il primo Montalbano, La forma dell'acqua, è nato così, è partito come un'esercitazione, come una forma di autodisciplina di scrittura. Ecco che cosa pensai: se mi devo mettere dei paletti, dei paletti facili da spostare, eliminare, oltrepassare con un salto, tanto vale che essi formino una gabbia. E quindi sono d'accordo con Sciascia, la gabbia è la forma più onesta, quella nella quale non puoi barare con il lettore, quella nella quale il lettore viene a conoscenza degli stessi dati che possiede l'investigatore. La gabbia deve essere tale sotto l'aspetto logico e temporale, tutti i fatti devono risultare connessi, non ci devono essere anelli mancanti. Ci deve essere trasparenza e onestà. Il giallo è l'onestà. Al punto che, quando scrivo un Montalbano, io controllo anche il linguaggio, non lo estremizzo mai, mi astengo dalle sperimentazioni linguistiche alle quali indulgo volentieri nei romanzi storici; e questo lo faccio per non sovraccaricare il lettore di altre difficoltà oltre quelle della trama. Quando ho cominciato a scrivere il giallo è chiaro che non ero uno sprovveduto. Cioè a dire, gialli prima di allora non ne avevo scritti, però come lettore avevo un lungo elenco di benemerenze che risaliva alla mia infanzia. E avevo gusti molto precisi. Per esempio, tra Wallace e Van Dine preferivo Van Dine. Per esempio, Sherlock Holmes non mi piaceva, perché non mi piaceva il metodo scientifico, non mi piaceva quel giochetto, quel meccanismo privo di vere motivazioni, senza una vera società attorno. È noto, perché anche questa è una dichiarazione che ho fatto in tutte le salse, che le mie preferenze andavano a Simenon, non solo il Simenon di Maigret, perché anche quando vai a leggere altri romanzi come Le signorine di Concarneau, 45 gradi all'ombra e Il testamento Donadieu o piccoli capolavori di centoventi pagine come I Pitard, l'indagine e l'atmosfera, insieme, le trovi sempre. Ciò che mi affascina in Simenon è la tranquillità borghese, la calma dell'eroe borghese.
... Spesso però penso che la mia personale visione del giallo e della sua scrittura sia debitrice soprattutto della tecnica teatrale. La scrittura della drammaturgia mi ha aiutato molto anche nei romanzi storici, ma per il lavoro sul giallo è stata determinante. Prendiamo un classico, prendiamo Filottete, e cerchiamo di rappresentarlo, cerchiamo di ambientarlo come facevano i greci. Dunque: entrano due signori vestiti da guerrieri, uno vecchio e uno giovanissimo. Tu spettatore non sai nulla, non chi sono, non dove si trovano, niente di niente. Ma il più vecchio comincia a parlare e dice «questa è la terra di Lemno, un'isola deserta, lontana dalle rotte delle navi, dove io, Ulisse, o giovane figlio di Achille, tanti anni fa abbandonai, per ordine dei miei capi, Filottete...». A questo punto tu spettatore sei stato martellato da una quantità enorme di informazioni: che quella è la terra di Lemno, che è un'isola, che è deserta, che è lontanissima dalle rotte delle navi, che il personaggio che parla si chiama Ulisse - e si sta rivolgendo a Neottolemo, il figlio di Achille -, che ci sarà un altro personaggio, abbandonato tanti anni prima, e che questo personaggio si chiama Filottete... La spinta dinamica è data da questa raffica di informazioni, però all'interno di queste ce ne sono anche altre, nascoste: che significa «abbandonai»? Perché quell'«abbandonai»? Ti verrà detto dopo: «per ordine dei miei capi», e Ulisse dunque sarà una specie di militare, un militare che esegue ordini... Ma il gioco delle informazioni scoperte, che vengono date al lettore, e quello delle informazioni sotterranee, implicite dentro un'informazione apparentemente chiara, è già il gioco della scrittura gialla. Il poliziotto capisce che sotto un'informazione ce n'è un'altra, e anche il lettore comune può arrivarci, perché la prima informazione lui pure la possiede. Se ci arriva buon per lui, se non ci arriva pazienza, avrà la sorpresa finale, ma questa struttura aiuta moltissimo nella scrittura del giallo. E devo dire che un maestro nell'organizzare i dati in questo modo è Conrad, un grande nello spargere qua e là segnali che poi precipitano tutti in un unico contenitore.
... Augusto De Angelis l'aveva già dimostrato, con il suo commissario De Vincenzi, che l'ambientazione italiana poteva essere plausibilissima per un giallo. Non parliamo di Scerbanenco, che è stato un grande anticipatore della realtà. Quando noi leggevamo romanzi crudelissimi come I milanesi ammazzano al sabato, pensavamo «va be', ha una fantasia volta al male, poveraccio». Invece non era così, lui sapeva come sarebbero andate a finire le cose. Prevedeva. Quando lessi la Milano di Scerbanenco, così viva, così al di fuori di ogni tipo di convenzione e di luogo comune, mi sentii autorizzato anch'io a dare nomi italiani, ambientazioni italiane ai miei personaggi, alle mie storie. Questo adesso può apparire scontato, ma per gli scrittori della mia generazione non lo era. In realtà, Duca Lamberti, l'eroe di Scerbanenco, o il commissario De Vincenzi sono ancora per molti aspetti dei personaggi non normali, eccezionali: Duca Lamberti è un medico radiato dall'ordine dei medici, il commissario De Vincenzi ha le visioni... Questi erano i soli aspetti che non mi convincevano. A me è sempre piaciuto l'individuo normale, assolutamente privo di tratti di eccezionalità, un individuo in grado di connettere i fatti tra loro e di ragionarci sopra. Questo era il mio ideale. E quest'ideale aveva un nome: Simenon.
Andrea Camilleri