Roma. Voleva fare il calciatore. Anzi, l´ha fatto: semiprofessionista,
nella squadra del Rimini. Aveva 17 anni, lo chiamò un mister che
l´aveva visto giocare alla San Paolo Ostiense e lui si trasferì
per un po´ sulla riviera romagnola con la squadretta: scuola, pranzo,
allenamento, studio, cena e poi a dormire molto, ma molto presto, seduti
in branda a parlare con i compagni di stanza di che tipo di grasso fosse
meglio usare sugli scarpini. Non è durata, non poteva durare. Ma
per lui il pallone è stata un´avventura seria, una passione
che ha ancora addosso.
Luca Zingaretti è qui a raccontarci questa storia del calcio,
ma a noi fa pensare a Perlasca. L´abbiamo visto mentre lo impersonava
in tv: aveva tutta l´energia e la spavalderia e l´urgenza del
bene, l´inevitabilità del bene, che mossero il commerciante
Giorgio Perlasca, ex volontario fascista alla guerra di Spagna, a salvare
quei 5000 ebrei ungheresi che senza i suoi falsi salvacondotti spagnoli
sarebbero tutti finiti a Auschwitz. Una straordinaria storia vera diventata
film, e Zingaretti ci si era calato dentro a perfezione. Mentre lo guardiamo
con il suo berretto Nike in testa e la sua aria distesa ci rendiamo conto
di questa stranissima opportunità che hanno gli attori di vivere
mille vite apparenti. Perlasca, il commissario Montalbano, il cattivo dei
primi film, il padre di "Incompreso"… Zingaretti vis-à-vis sembra
assai più giovane che sullo schermo. Arriva all´appuntamento
in t-shirt, pantaloni cachi, scarpe da ginnastica e computer in spalla.
Un ragazzo.
Insomma, lei chi era prima di essere un attore importante? Dove nasce,
quando, da chi? Fratelli, sorelle?
«Sono nato a Roma, nel ´61. Mio padre e mia madre erano
due impiegati, all´Inail e in banca. Ho un fratello più giovane
di me di 4 anni, Nicola, è il segretario dei Ds romani. E poi c´è
Angela, 27 anni, lavora in una agenzia stampa di news per le radio. Se
siamo amici? Crescendo ci siamo legati. Il fatto è che la timidezza,
il pudore sono stati alla base della nostra formazione, sono una caratteristica
di famiglia. Mio padre è un uomo di una riservatezza totale».
Era una famiglia religiosa?
«Come lo sono gli italiani. In modo superficiale. E noi assorbivamo
il loro modo di pensare. Mia nonna ogni tanto ci portava in chiesa. Però,
ora che ci penso prima ho fatto le elementari dai preti, poi andavo all´oratorio,
qualcosa ci doveva essere, o forse era solo, come diceva mio padre, un
modo per non farmi andare nella scuola pubblica allora sovraffollatissima.
Alle medie ero in piazza Mastai, anche se abitavo alla Magliana».
Fu lì che iniziò a giocare a calcio.
«Ero un grand´appassionato fin da bambino. Sempre col pallone
per strada. A 9/10 anni andavo al campo del Tre Fontane. Il padre di un
amico mi vide giocare in un torneo e mi suggerì di andare al San
Paolo Ostiense: c´erano 20 squadre, pagavi una quota, ti facevi vedere
a messa e ogni tanto partecipavi a una riunione col prete».
Insomma, una squadra di parrocchia.
«Era divertente. Il parroco ti parlava un po´ di Cristo,
ma non te la menava col pilotto. Non teneva sermoni».
Che tipo era lei allora?
«Un compagnone, ma allora come adesso a volte avevo bisogno di
isolarmi. Per intendersi mi piace di più andare a cena con gli amici
che in discoteca. Ero e sono irrequieto. Sui libri ci so stare poco. Devo
essere sempre in movimento. A un risultato devo arrivare in maniera traversa:
se tutto va liscio mi sembra quasi ci sia qualcosa che non funziona. D´altra
parte l´arte nasce da un disagio».
Ma cosa c´entra il calcio con l´arte, con il teatro, con
quello che lei è diventato?
«Per la mia generazione il calcio era arte. Carmelo Bene definì
Falcao un poeta. Un calciatore è un libero professionista, non sta
sotto padrone. In campo giocando ti esprimi: devi capire l´avversario,
devi studiare chi ti è di fronte. E poi giochi in squadra, si tratta
di adeguarti agli altri eppure modificare continuamente il gioco. Come
in teatro. E sono due riti con tutta l´imponenza che hanno i riti».
Non avendo mai praticato né l´uno né l´altro
viene da dire che nella recitazione il lavoro mentale sia maggiore, e qualitativamente
superiore.
«Ovviamente non sostengo che Maradona e Amleto siano la stessa
cosa. Dico solo che sono due spettacoli rituali, che ci sono dei ruoli
da interpretare, che c´è un gioco di squadra, che ti esprimi
anche se stai dentro uno schema. L´emozione che ci metti dentro e
che vivi si assomiglia: devi essere lucido ma coinvolto fino allo spasimo».
Comunque lei a un certo punto smise di fare il calciatore.
«Mi stava stretto. Feci alcuni mesi nella squadra del Rimini.
Mi piaceva, ma avevo la mia prima fidanzatina, e poi… era il ´78
e io facevo politica, volevo stare a Roma e magari non parlare solo di
grasso per le scarpette, anche se il tema è del tutto onorevole
e mi avvince ancora. Così tornai. Nell´80 partii militare.
In ogni modo continuo anche adesso a giocare, sia chiaro».
Ma come le venne in mente di fare l´attore?
«Negli ultimi due anni di Liceo scientifico avevo partecipato
a un corso di recitazione, mi ero divertito. Non fu quell´esperienza
però a farmi decidere. Un mio amico, Francesco Fagioli, con cui
ero stato al corso, mi propose di preparare insieme l´esame per entrare
all´Accademia. Fui accettato. Sei mesi dopo me ne volevo già
andare: mi sembrava una gran perdita di tempo».
E allora?
«Allora, gliel´ho detto, sono irrequieto. Tra mille incertezze
continuai».
Senza convinzione? Non aveva avuto un´illuminazione, non aveva
visto un attore, un personaggio da emulare, qualcosa che diventasse il
suo unico obiettivo?
«Guardi, io alle illuminazioni non ci credo. Vado avanti, tra
una contraddizione e un ripensamento. Anzi forse di illuminazione una ne
ho avuta, poco tempo fa. Sono andato in Uganda con Amref, un´associazione
non governativa africana. Un sopralluogo per girare poi un documentario
di cui dovevo fare il testimonial. Sono arrivato a Gulu, a 400 chilometri
da Kampala, tante ore di jeep, un posto che ha avuto molte vittime per
il virus Ebola. Lì ho avuto la prima illuminazione della mia vita:
mi sono detto che devo fare qualcosa per questa gente».
E invece con il teatro come è andata?
«E´ andata che entri in un meccanismo di cui man mano inizi
ad innamorarti. Anche perché ho avuto la fortuna di lavorare con
tutta gente che mi insegnava qualcosa su cui far crescere la mia passione».
Ecco, dicono tutti che lei è stato fortunato. Uno dei primissimi
lavori, ad esempio, l´ha fatto con Ronconi. Era la Santa Giovanna
di Bernard Shaw.
«Ho avuto molta fortuna, ma ho fatto anche molta gavetta, che
maledivo anche se ora la benedico: imparavo pian piano, con i tempi giusti.
Mentre fai l´alabardiere per ore in piedi con un asta in mano e devi
dire solo due parole, ti chiedi perché lì arriva una risata,
perché là il pubblico si commuove, perché quella battuta
viene detta in quel certo modo. L´importante non è darsi le
risposte giuste, ma farsi le domande giuste. L´importante è
anche stare a caccia di qualcosa, e dunque essere in grado di vederlo,
se passa».
Poi arrivò Montalbano.
«Camilleri era stato un mio professore in Accademia. E i suoi
libri su Montalbano mi erano piaciuti. Avevo perfino provato a comprare
i diritti. Quando seppi che lo portavano in tv, chiesi di fare il provino.
Fui scelto. Telefonai subito a Camilleri: "Non ti avevo detto niente" gli
dissi, "ma ora che ho avuto la parte me la faccio sotto". Sapevo come volevo
fosse Montalbano, ma non sapevo come arrivare a quel risultato. Comunque
un personaggio letterario offre all´attore un enorme vantaggio, perché
puoi conoscere anche cosa pensa oltre alle parole e ai movimenti. E´
un dato conoscitivo fantastico. Tra due persone che dicono "Che piacere
vederla" e intanto pensano l´uno "che palle" e l´altro se lo
immagina nudo mentre prende il caffè, c´è un mare di
mezzo: nel primo caso abbiamo una visione scocciata della situazione, nell´altro
una ironica e protesa a trovare un lato comico nelle cose».
E con Perlasca come ha fatto? Quando lei ha accettato la parte, era
già morto. Enrico Deaglio (l´autore del testo base su Perlasca,
La banalità del bene), ha detto che lei ha parlato molto con la
moglie, con i sopravvissuti ungheresi.
«Esatto. Per fare un personaggio bisogna reperire e studiare
le informazioni: ha presente un paleontologo che studia le ossa dei dinosauri?
Io accumulo dati, e li rielaboro, come un computer. Fuori scena scrivo
molto del personaggio. Anche le emozioni entrano in gioco secondo il percorso
che ti sei preparato: a scena 12 entro in questo dato modo, a scena 15
faccio quel dato movimento…».
E il calcio dov´è finito?
«Gioco nella Nazionale calcio attori. No, non è una roba
mondana. Ci vediamo tre volte la settimana sotto la guida di Giacomino
Losi, mitico allenatore della Roma. Ah: mi scordavo, ho un´altra
passione: un cavallo di nome Zum del Terriccio. Ma io non sono abbastanza
bravo per i concorsi: lo monta Francesco Franco, un cavaliere. Io mi limito
a guardare. In futuro, si vedrà».
Susanna Nirenstein