La Repubblica, 7.8.2002
Lo strano esordio dell´interprete di Perlasca e di Montalbano
Dal pallone al teatro: secondo lui, non c´è poi una grande differenza
E pensare che volevo fare il calciatore
Gavetta molta: ore con una alabarda in mano senza dire una parola
Per fare una parte accumulo dati e li rielaboro come un computer

Roma. Voleva fare il calciatore. Anzi, l´ha fatto: semiprofessionista, nella squadra del Rimini. Aveva 17 anni, lo chiamò un mister che l´aveva visto giocare alla San Paolo Ostiense e lui si trasferì per un po´ sulla riviera romagnola con la squadretta: scuola, pranzo, allenamento, studio, cena e poi a dormire molto, ma molto presto, seduti in branda a parlare con i compagni di stanza di che tipo di grasso fosse meglio usare sugli scarpini. Non è durata, non poteva durare. Ma per lui il pallone è stata un´avventura seria, una passione che ha ancora addosso.
Luca Zingaretti è qui a raccontarci questa storia del calcio, ma a noi fa pensare a Perlasca. L´abbiamo visto mentre lo impersonava in tv: aveva tutta l´energia e la spavalderia e l´urgenza del bene, l´inevitabilità del bene, che mossero il commerciante Giorgio Perlasca, ex volontario fascista alla guerra di Spagna, a salvare quei 5000 ebrei ungheresi che senza i suoi falsi salvacondotti spagnoli sarebbero tutti finiti a Auschwitz. Una straordinaria storia vera diventata film, e Zingaretti ci si era calato dentro a perfezione. Mentre lo guardiamo con il suo berretto Nike in testa e la sua aria distesa ci rendiamo conto di questa stranissima opportunità che hanno gli attori di vivere mille vite apparenti. Perlasca, il commissario Montalbano, il cattivo dei primi film, il padre di "Incompreso"… Zingaretti vis-à-vis sembra assai più giovane che sullo schermo. Arriva all´appuntamento in t-shirt, pantaloni cachi, scarpe da ginnastica e computer in spalla. Un ragazzo.
Insomma, lei chi era prima di essere un attore importante? Dove nasce, quando, da chi? Fratelli, sorelle?
«Sono nato a Roma, nel ´61. Mio padre e mia madre erano due impiegati, all´Inail e in banca. Ho un fratello più giovane di me di 4 anni, Nicola, è il segretario dei Ds romani. E poi c´è Angela, 27 anni, lavora in una agenzia stampa di news per le radio. Se siamo amici? Crescendo ci siamo legati. Il fatto è che la timidezza, il pudore sono stati alla base della nostra formazione, sono una caratteristica di famiglia. Mio padre è un uomo di una riservatezza totale».
Era una famiglia religiosa?
«Come lo sono gli italiani. In modo superficiale. E noi assorbivamo il loro modo di pensare. Mia nonna ogni tanto ci portava in chiesa. Però, ora che ci penso prima ho fatto le elementari dai preti, poi andavo all´oratorio, qualcosa ci doveva essere, o forse era solo, come diceva mio padre, un modo per non farmi andare nella scuola pubblica allora sovraffollatissima. Alle medie ero in piazza Mastai, anche se abitavo alla Magliana».
Fu lì che iniziò a giocare a calcio.
«Ero un grand´appassionato fin da bambino. Sempre col pallone per strada. A 9/10 anni andavo al campo del Tre Fontane. Il padre di un amico mi vide giocare in un torneo e mi suggerì di andare al San Paolo Ostiense: c´erano 20 squadre, pagavi una quota, ti facevi vedere a messa e ogni tanto partecipavi a una riunione col prete».
Insomma, una squadra di parrocchia.
«Era divertente. Il parroco ti parlava un po´ di Cristo, ma non te la menava col pilotto. Non teneva sermoni».
Che tipo era lei allora?
«Un compagnone, ma allora come adesso a volte avevo bisogno di isolarmi. Per intendersi mi piace di più andare a cena con gli amici che in discoteca. Ero e sono irrequieto. Sui libri ci so stare poco. Devo essere sempre in movimento. A un risultato devo arrivare in maniera traversa: se tutto va liscio mi sembra quasi ci sia qualcosa che non funziona. D´altra parte l´arte nasce da un disagio».
Ma cosa c´entra il calcio con l´arte, con il teatro, con quello che lei è diventato?
«Per la mia generazione il calcio era arte. Carmelo Bene definì Falcao un poeta. Un calciatore è un libero professionista, non sta sotto padrone. In campo giocando ti esprimi: devi capire l´avversario, devi studiare chi ti è di fronte. E poi giochi in squadra, si tratta di adeguarti agli altri eppure modificare continuamente il gioco. Come in teatro. E sono due riti con tutta l´imponenza che hanno i riti».
Non avendo mai praticato né l´uno né l´altro viene da dire che nella recitazione il lavoro mentale sia maggiore, e qualitativamente superiore.
«Ovviamente non sostengo che Maradona e Amleto siano la stessa cosa. Dico solo che sono due spettacoli rituali, che ci sono dei ruoli da interpretare, che c´è un gioco di squadra, che ti esprimi anche se stai dentro uno schema. L´emozione che ci metti dentro e che vivi si assomiglia: devi essere lucido ma coinvolto fino allo spasimo».
Comunque lei a un certo punto smise di fare il calciatore.
«Mi stava stretto. Feci alcuni mesi nella squadra del Rimini. Mi piaceva, ma avevo la mia prima fidanzatina, e poi… era il ´78 e io facevo politica, volevo stare a Roma e magari non parlare solo di grasso per le scarpette, anche se il tema è del tutto onorevole e mi avvince ancora. Così tornai. Nell´80 partii militare. In ogni modo continuo anche adesso a giocare, sia chiaro».
Ma come le venne in mente di fare l´attore?
«Negli ultimi due anni di Liceo scientifico avevo partecipato a un corso di recitazione, mi ero divertito. Non fu quell´esperienza però a farmi decidere. Un mio amico, Francesco Fagioli, con cui ero stato al corso, mi propose di preparare insieme l´esame per entrare all´Accademia. Fui accettato. Sei mesi dopo me ne volevo già andare: mi sembrava una gran perdita di tempo».
E allora?
«Allora, gliel´ho detto, sono irrequieto. Tra mille incertezze continuai».
Senza convinzione? Non aveva avuto un´illuminazione, non aveva visto un attore, un personaggio da emulare, qualcosa che diventasse il suo unico obiettivo?
«Guardi, io alle illuminazioni non ci credo. Vado avanti, tra una contraddizione e un ripensamento. Anzi forse di illuminazione una ne ho avuta, poco tempo fa. Sono andato in Uganda con Amref, un´associazione non governativa africana. Un sopralluogo per girare poi un documentario di cui dovevo fare il testimonial. Sono arrivato a Gulu, a 400 chilometri da Kampala, tante ore di jeep, un posto che ha avuto molte vittime per il virus Ebola. Lì ho avuto la prima illuminazione della mia vita: mi sono detto che devo fare qualcosa per questa gente».
E invece con il teatro come è andata?
«E´ andata che entri in un meccanismo di cui man mano inizi ad innamorarti. Anche perché ho avuto la fortuna di lavorare con tutta gente che mi insegnava qualcosa su cui far crescere la mia passione».
Ecco, dicono tutti che lei è stato fortunato. Uno dei primissimi lavori, ad esempio, l´ha fatto con Ronconi. Era la Santa Giovanna di Bernard Shaw.
«Ho avuto molta fortuna, ma ho fatto anche molta gavetta, che maledivo anche se ora la benedico: imparavo pian piano, con i tempi giusti. Mentre fai l´alabardiere per ore in piedi con un asta in mano e devi dire solo due parole, ti chiedi perché lì arriva una risata, perché là il pubblico si commuove, perché quella battuta viene detta in quel certo modo. L´importante non è darsi le risposte giuste, ma farsi le domande giuste. L´importante è anche stare a caccia di qualcosa, e dunque essere in grado di vederlo, se passa».
Poi arrivò Montalbano.
«Camilleri era stato un mio professore in Accademia. E i suoi libri su Montalbano mi erano piaciuti. Avevo perfino provato a comprare i diritti. Quando seppi che lo portavano in tv, chiesi di fare il provino. Fui scelto. Telefonai subito a Camilleri: "Non ti avevo detto niente" gli dissi, "ma ora che ho avuto la parte me la faccio sotto". Sapevo come volevo fosse Montalbano, ma non sapevo come arrivare a quel risultato. Comunque un personaggio letterario offre all´attore un enorme vantaggio, perché puoi conoscere anche cosa pensa oltre alle parole e ai movimenti. E´ un dato conoscitivo fantastico. Tra due persone che dicono "Che piacere vederla" e intanto pensano l´uno "che palle" e l´altro se lo immagina nudo mentre prende il caffè, c´è un mare di mezzo: nel primo caso abbiamo una visione scocciata della situazione, nell´altro una ironica e protesa a trovare un lato comico nelle cose».
E con Perlasca come ha fatto? Quando lei ha accettato la parte, era già morto. Enrico Deaglio (l´autore del testo base su Perlasca, La banalità del bene), ha detto che lei ha parlato molto con la moglie, con i sopravvissuti ungheresi.
«Esatto. Per fare un personaggio bisogna reperire e studiare le informazioni: ha presente un paleontologo che studia le ossa dei dinosauri? Io accumulo dati, e li rielaboro, come un computer. Fuori scena scrivo molto del personaggio. Anche le emozioni entrano in gioco secondo il percorso che ti sei preparato: a scena 12 entro in questo dato modo, a scena 15 faccio quel dato movimento…».
E il calcio dov´è finito?
«Gioco nella Nazionale calcio attori. No, non è una roba mondana. Ci vediamo tre volte la settimana sotto la guida di Giacomino Losi, mitico allenatore della Roma. Ah: mi scordavo, ho un´altra passione: un cavallo di nome Zum del Terriccio. Ma io non sono abbastanza bravo per i concorsi: lo monta Francesco Franco, un cavaliere. Io mi limito a guardare. In futuro, si vedrà».
Susanna Nirenstein