Il Venerdì di Repubblica, 25.10.2002
In copertina. Bene, bravo, bis

Commissario, confesso: sapessi quanto ti ho odiato
Un'ossessione e un blocco creativo da rischiarci l'esaurimento nervoso. Così Luca Zingaretti ha affrontato l'uomo che gli ha cambiato la vita. Si, perchè, anzichè l'attore, doveva fare il calciatore. Oppure lo psicologo. Oggi, invece, dopo l'incontro con Salvo Montalbano, si ritrova a fare l'eroe

Una fama da stadio, praticamente. Giorni fa, mentre guardava la Roma – che è una fede e non si discute – Luca Zingaretti si è sentito battere con minacciosa e ripetuta energia su una spalla. “Era un ultrà enorme, una bestia, tutto tatuato. Ho pensato: oddio, mi ha scambiato per un altro e adesso mi riempie di botte” Invece il gigante era buono e si è sciolto in un elogio a modo suo appassionato: “Ahò, ma te sei Zingaretti! Mortacci tua, sei forte, davero. Un mito” Il mito ha sospirato e poi si è commosso un po’, “perché noi attori siamo dei disadattati che hanno bisogno di continue conferme, dell’affetto dei bambini e delle nonne. E’ una meraviglia essere fermato per strada, e non perché sono famoso ma perché ho fatto ridere o piangere qualcuno”. Veramente, più che essere fermato, Zingaretti è uno che ferma, nel senso che arresta. E molto, anche. Alla vigilia della  quarta serie delle indagini di quel commissario Montalbano, che prima ha regalato una notorietà tardiva quanto sensazionale al suo autore Andrea Camilleri e poi al suo interprete, l’interprete medesimo è già al lavoro per un’altra fiction, Mediaset, sempre in uniforme. E’ un ispettore dei Nocs che libera un industriale sequestrato.
Va bene, ha fatto anche Perlasca e il papà di Incompreso, ma non starà esagerando con tutti questi poliziotti? Montalbano, il commissario Marotta del Furto del tesoro, adesso quest’altro...
Ci sono sempre dei ruoli che si attaccano a un attore. Anthony Hopkins, quello che stimo di più, ha fatto oltre cento film, di cui alcuni memorabili, ma è identificato con Hannibal Lecter. E poi i poliziotti che interpreto hanno personalità molto differenti: quello che mi interessa in un ruolo è il carattere di un personaggio e non tanto il lavoro che fa.
Non è che entra troppo nella parte? In fondo lei è sempre stato uno di sinistra.
Intende dire se mi metto a pensare anch’io come un poliziotto? Non credo. Tanto per fare chiarezza prendiamo i fatti di Genova: ci sono stati dei gravi errori e chi ha sbagliato deve pagare. Detto questo, anche da ragazzino, quando scendevo in piazza a manifestare, condividevo quello che aveva scritto Pasolini sui poliziotti ai tempi di Valle Giulia.
Esattamente come Montalbano.
Guardi che io ho conosciuto individualità notevoli sia di destra che di sinistra tra le forze dell’ordine. Per la fiction che sto girando sono stato a contatto coi ragazzi dei Nocs, tutti ventenni, a parte i graduati: mi aspettavo di trovare dei Rambo, invece ho incontrato persone di una pacatezza e di una passione impressionante. Magari a cena non citavano Proust ma anch’io quando facevo il calciatore discutevo di calcio, mica dei massimi sistemi.
Parla mai di politica con suo fratello Nicola, segretario dei DS romani?
Come no, lui mi informa su come vanno le cose.
Oggi succede il contrario, è la gente di spettacolo che racconta al partito cosa pensa la base.
Mio fratello è uno che viene dalla base e sa benissimo come la pensa.
In termini di audience, la base, non solo ds, pensa molto bene del suo Montalbano. I sei milioni e passa di spettatori delle precedenti edizioni sono una garanzia o un’incognita?
Noi abbiamo lavorato sempre con lo stesso impegno, anzi, forse maggiore. In tre episodi su quattro ci siamo basati su racconti invece che su dei romanzi. Prima il lavoro era tutto in levare, stavolta si è dovuto aggiungere, aggiungere, aggiungere. Di solito nelle storie di Montalbano ci sono due trame gialle separate che poi si fondono, e intorno alla trama c’è un movimento di personaggi che sono il centro del romanzo. In un racconto di quindici pagine non hai tutti questi elementi, quindi si è lavorato di arricchimento, fantasia, contaminazione.  E Camilleri ha scritto due scene, di fatto due dialoghi, proprio di suo pugno.
Le indagini si svolgono sempre a Vigàta, paese immaginario suggestivo ma minuscolo: alla lunga, queste dimensioni non sono limitanti?
Nel microcosmo puoi costruire meglio le trame, è più facile riferire gli avvenimenti a uno schema di valori. Anche il delitto di Désirée in una grande città avrebbe un significato diverso. Poi, Vigàta è un luogo immaginario, sospeso nello spazio e nel tempo: somiglia ai ricordi che Camilleri aveva in testa, non alla Sicilia della sua gioventù né a quella di oggi.
E lei com’è riuscito a somigliare al Montalbano che Camilleri e i suoi lettori avevano in testa?
Con il produttore e il regista abbiamo capito subito che era una sfida infernale. I lettori di Montalbano sono più fanatici dei Talebani, quindi bisognava mirare solo allo spirito di Montalbano, a quella sensazione che ti fa star bene per venti minuti dopo che hai finito il libro e che te ne fa sentire subito la mancanza. A quell’odore di basilico, di capperi, di melanzana, di oliva, a quel mare d’inverno di domenica, quando te ne stai al sole ma hai anche un po’ freddo. Se ci riuscivamo eravamo a cavallo, sennò meglio cambiare mestiere.
Evocare una melanzana dev’essere durissima…
Ero terrorizzato, sapevo quale Montalbano volevo ma non sapevo come arrivarci. Ci lavorai tre mesi, avevo una mole di informazioni incontenibile, non una sceneggiatura ma tutti i libri di Camilleri, che avevo letto e amato molto prima dei provini. La prima settimana di riprese fu tremenda: mi chiedevo perfino come il Montalbano vero avrebbe preso in mano un bicchiere. Insomma, ero bloccato. Allora chiamai Camilleri, che era anche stato mio professore all’Accademia d’Arte drammatica, e gli chiesi scusa: gli stavo rovinando il personaggio, stavo facendo un casino.
E lui cosa le rispose?
Una banalità, ma solo per un occhio profano: “So che attore sei e tu sai quello che devi fare, se hai lavorato bene come credo tu abbia fatto in questi tre mesi. Rilassati, fregatene, agisci e fa in modo che Montalbano esca”. E’ stato decisivo, mi ha dato spinta emotiva dal punto di vista psicologico, la pacca sulla spalla dell’autore, ma in termini più razionali era il mio professore che mi dava il metodo.
Lei ha rischiato di diventare uno psicologo invece che un eroe popolare: racconti.
Facevo già l’attore, non andava tanto bene, ero un po’ spallato. Così un amico mi portò a seguire delle conferenze di Giovanni Russo, un professore che aveva inventato una nuova teoria analitica: la Paf, Pragmatica eclettica analitica. Era una sorta di mappatura della personalità  che prendeva in considerazione tre tipi diversi di energia. Mi appassionai, iniziai una terapia analitica e m’iscrissi anche all’università. Nel frattempo continuavo col teatro, ma quando ero a Roma frequentavo la scuola di Russo. E lì c’era la signora Concettina da Caltanissetta, la madre del professore, donna sensazionale, scorbutica ma affettuosa che portava il tè coi biscotti. Parlava siciliano strettissimo: è da lei che ho imparato.
E oltre che imparare la lingua di Montalbano a cos’altro sono serviti gli studi di psicologia?
A capire che è sbagliato porsi di fronte a un personaggio con un atteggiamento moralistico. Se devo fare un cattivo non devo dire che è un figlio di puttana. Lo devo far odiare, d’accordo, ma mi ci devo mettere davanti come un analista con l’analizzato, far capire perché è diventato una carogna, suggerire l’abisso di ingiustizie e crudeltà che ha subito.
A parte un film recente, Texas, lei da tempo non frequenta molto il cinema italiano. Perché?
Texas non è stata una grande esperienza e infatti il film è stato fuori pochissimo. Il problema del cinema italiano sono le sceneggiature. Uno potrebbe dire: se lo sai che lo hai fatto a fare? Giusto, ma c’era Roy Sheider che mi piaceva. Adesso un po’ meno: non è stato tanto simpatico sul set. Comunque, alcuni film italiani sono buoni, ma negli ultimi anni non c’è stato un ruolo che avrei voluto per me. Punto sulla vecchiaia e sui miei tempi comici, fra qualche anno farò le commedie e farò ridere. Perché la risata del pubblico è la gratificazione più grande.
Lei è un divo tv, ha fatto il calciatore, tifa Roma. E per amore di Margherita D’Amico, scrittrice, è entrato in una famiglia che è il concentrato della cultura italiana: Croce, Pirandello, Cecchi, la sceneggiatrice di Visconti, persino il fondatore dell’ accademia dove lei ha studiato. Nessun imbarazzo?
No, per niente: anche in questa famiglia sono tutti romanisti. A me poi piaceva tanto fare il borgataro, ma in realtà di borgata ne ho respirata poca, mio padre era un funzionario di banca e mia madre un’impiegata dell’Inail. Tutte le persone eccezionali di questa famiglia sono semplicemente la madre, il padre, la nonna e gli antenati della mia compagna.
Paola Zanuttini