l'Unità, 26.11.2002
In scena
Io Montalbano e Pirandello

Dal commissario Montalbano a Pirandello, andata e ritorno. Il passato e il presente della televisione. E del teatro. La conversazione con lo scrittore di maggior successo in Italia, Andrea Camilleri, parte dalla scena per arrivare allo spettacolo tout-court: dalle traversie (e dalle colpe) della Rai alle fiction tratte dai suoi libri sul commissario Montalbano. Un amore e la sua tensione etica ed intellettuale per il teatro che si può ricostruire in un libro edito da Rizzoli, che si fonda su di un'intervista a Camilleri di Roberto Scarpa. Un'occasione per parlare di Pirandello, Beckett, Genet, Adamov, D'Amico, Eduardo De Filippo, Sharoff. Ma, soprattutto, per parlare di quello che la televisione avrebbe potuto essere e non è mai stata.
La fiction tratta dai suoi libri su Montalbano ha un grande successo, batte ogni concorrenza. Sfiora i dieci milioni di telespettatori. Quali sono a suo giudizio le ragioni di questa affermazione?
"Se mi chiede le ragioni del successo, non le conosco. Quel che so, è che il programma è fatto molto bene. Vi è una cura minuziosa dell'insieme e dei dettagli. Una cura che va dalla ottima sceneggiatura alla sapiente regia, agli interpreti tutti. Zingaretti in testa, bravissimi. L'ambientazione è straordinaria, si tratta di un prodotto di qualità ed il pubblico lo gradisce."
Come guarda il suo Montalbano in tv?
"Lo guardo con distacco e vedo da regista come sono stato, che Zingaretti e gli altri sono perfettamente inseriti nel contesto, nessuno è fuori ruolo."
Il commissario Montalbano è diverso dal testo letterario?
"Sì lo è. Il mio commissario è meno aitante, meno scattante, ha reazioni diverse, non è così giovane, ma il modo di ragionare è simile. Nella sostanza, il commissario della fiction rispecchia perfettamente il Salvo Montalbano letterario. "U ciriveddu ci camina" a tutti e due allo stesso modo."
Ha provato ad immaginare come è composto il largo pubblico del Montalbano televisivo?
"Sì. Ovviamente non si tratta solo dei miei lettori. Anche se ho venduto molti libri..."
Parecchi milioni...
"...Comunque, il pubblico televisivo è più ampio, eterogeneo. Anzi sono convinto, che non vi sia esatta corresponsione, nemmeno fra quelli che leggono i libri e guardano Mantalbano in tv. Vi sono molti telespettatori che si divertono a vedere un programma, ben fatto, che riproduce con brevi immagini il senso autentico del testo. Merito dello sceneggiatore Francesco Bruni e del regista Alberto Sironi."
La tv rende più sfumati i diversi livelli interpretativi dei suoi testi.
"Questo è inevitabile, inerisce alla tecnica televisiva. Ma credo che non solo nei testi letterari, ma anche in tv, esistano diversi livelli di fruizione, seppur come Lei dice, più sfumati."
La tecnica del giallo funziona, dalla letteratura alla tv.
"Il giallo funziona, ed è vera letteratura. In televisione la tecnica del giallo, se ben riprodotta, può dare ottimi risultati."
E l'uso del dialetto?
"Anche. Hanno fatto bene in tv, ad utilizzare un dialetto più superficiale, meno caratterizzato, meno colorito, ma comprensibile. La tv deve comunicare con ampio pubblico, è giusto che sia così. Del resto anche i libri, con le dovute differenze tecniche, dovrebbero essere scritti per essere letti, non per una ristretta aristocrazia intellettuale."
Senta Camilleri, lei ha fatto molto teatro in tv. Che ruolo ha oggi il teatro nella società contemporanea?
"Non credo che abbia l'incidenza sociale, morale e politica, che ha avuto sino ai tempi di Brecht. Perché, mi riferisco all'Italia, è mutato il contesto storico. Non a caso si è avuta una diminuzione di coloro che vanno a teatro e di coloro che comprano libri. Vi è anche un fatto importante: che la televisione, penso alla Rai, ha abdicato alla sua funzione culturale per inseguire le reti commerciali. Mi spiego: quando lavoravo in Rai, vi era una strategia culturale, vi erano sinergie tra teatro e tv, si faceva alta divulgazione. Molti ricorderanno i Venerdì teatrali, sul secondo canale Rai, realizzati con grandissimi registi ed attori molto noti. Certo il pubblico teatrale non di può paragonare in quantità a quello di un quiz, a Passaparola, ma allora era pur sempre altissimo. Un mio Finale di partita di Beckett, con Renato Rascel e Adolfo Celi, fece 700mila spettatori. Pochi rispetto al varietà, ma rispetto a quelli che vanno a teatro moltissimi. Ci vogliono anni di repliche di un'opera di successo per raggiungere questi numeri di spettatori in teatro. Ed ancora è un dato buono, per uno spettacolo di cultura alta, che va divulgata a livello popolare, e che una televisione di Stato non può abbandonare."
Adesso spiegano che il teatro in tv non va...
"Tutto dipende da come le cose vengono realizzate. Quell'operazione culturale era fatta in un'ottica televisiva, con attori molto noti. Vorrei ricordare una serie pensata da me, Il custode di Pinter, regia di Fenoglio, con Peppino De Filippo. Adesso, invece, la prosa è scomparsa. Si punta sul leggero, sul "teatro digestivo", che in quanto tale non conta nulla, ed in tv non funziona. Noi facevamo passare opere importanti, istruttive, che piacevano al pubblico. Abbiamo fatto cicli con Carlo Cecchi, Ronconi, Lavia. Si trattava di un teatro importante, adattato per la tv, che oltre ad avere un valore a sé stante, era divulgativo, didattico. C'era insomma una vera e propria strategia culturale."
Quando muta il quadro?
"Quando la Rai ha iniziato a ragionare come i privati. Con la differenza che se le tv private hanno ragione a pensare in termini esclusivamente commerciali, per la televisione di Stato non è così. Chiariamo bene questo punto. Una tv di Stato che utilizza gli stessi parametri dei privati, abdica alla sua funzione altissima di divulgazione culturale. Ora è evidente che la cultura non paga in termini commerciali, o meglio la pubblicità non paga la cultura. Ma la Rai usufruisce del canone, deve dare un servizio pubblico, che è un suo dovere. Invece la televisione di Stato ha preferito strizzare l'occhio ai privati, ha fatto sparire le rubriche dei libri. Oggi gli unici programmi culturali in Rai, sono quelli sugli elefanti, sulle gazzelle, su rare specie di uccelli. Per sentire parlare di letteratura, bisogna guardare Per un pugno di libri, che è una sfida tra due licei. E' cultura anche questa, ma non basta. Possibile che la Rai non riesca ad avere una strategia culturale?"
Di chi è la responsabilità?
"Adesso le dirò una cosa, che potrà stupire qualcuno, ma invece ora è coerente e chiara. Non è colpa di Berlusconi. Ora io sono disposto a dargli tante colpe, ma questa non è una responsabilità di Berlusconi. Non è colpa della tv commerciale, che vive di pubblicità, sono gli altri che hanno ceduto. E la Rai che ha ceduto. E questo non da adesso, ma da un bel po' di tempo. In questo modo è calato il livello dei prodotti e la qualità complessiva. Quando io facevo Ibsen e Strindberg di là c'era Studio 1, un eccellente rivista di varietà. Poi si sono abbassati i livelli dei prodotti. E' stato un errore di filosofia strategica, che continua ad essere perpetuato. Il problema non è se un programma culturale della Rai, lo è invece quando un varietà delle reti private ne batte uno della televisione pubblica. Continuo con questa analogia sui nostri tempi. Il problema è quando l'informazione della Rai viene battuta da quella delle reti private. E questo avviene, perché il TG5 di Mentana, dà un'informazione più spigliata e dinamica di quella dei tg Rai."
In buona sostanza la concorrenza avviene solo su livelli simili.
"Esatto. Se uno commercia mandolini, è chiaro che ne venderà di più di uno che commercia pianoforti. Le due cose non sono compatibili, la concorrenza avviene ad un livello paritario. Prenda questo mio sfogo, come quello di un uomo che ha lavorato per trent'anni alla Rai, ed ha sviluppato una forma di amore-odio verso di essa. Il mio è uno stimolo critico. La Rai, ancora oggi, quando a programmi di qualità vince nell'audience. Le grandi fiction ad esempio. Il punto è che la Rai deve trovare una propria dimensione. Se io faccio Ibsen molte persone che altrimenti non entrerebbero in contatto con le sue opere. E questo si può e si deve fare, perché una parte del canone che gli italiani pagano alla Rai, è giusto che sia devoluto alla cultura. Nel contempo posso produrre programmi di qualità rivolti ad un grande pubblico. Del resto, ogni industria che si rispetti, punta a produrre, e nel contempo destina una parte importante del profitto alla sperimentazione, alla ricerca. Perché la Rai non può farlo? E' evidente che occorre una filosofia diversa. Non si possono valutare i programmi di ricerca e di sperimentazione nel giro di 24 ore, con gli spietati dati dell'auditel. Occorre avere una strategia di lunga durata. I risultati verranno. Così come vengono tutt'ora quando si punta sui programmi di qualità."
Lei ama ancora la Rai...
"Come Le dicevo, ho lavorato per trent'anni in Rai. E' un'azienda misteriosa dalla quale non riesci mai a liberarti. Vedere in difficoltà l'azienda dove hai lavorato per tanti anni, ti addolora e ti fa rabbia."
Quali critiche muove alla gestione attuale?
"Lo ribadisco, il processo di competizione sbagliato è iniziato tempo fa. L'errore di adesso è la gestione strettamente politica. Io parlo di televisione di stato, molti parlano di televisione di governo. E' sbagliato voler trasformare la televisione di Stato nel suo insieme in televisione di governo."
Torniamo al teatro ed al suo rapporto con la letteratura.
"Quando andai in accademia nel '49, ero prevenuto, pensavo in maniera scolastica. Allora nelle antologie non trovavi il teatro. Poi sono arrivato alla scuola di Orazio Costa, ed ho capito che quella fra teatro e letteratura era una distinzione fasulla. Ma allora generalmente prevaleva la "scolastica" di una corrente di pensiero dell'inizio del Novecento. E' esemplare leggere le lettere di Serra, scritte in modo da querela da parte del teatro. Vi era una sorta di aristocrazia intellettuale che disdegnava il teatro perché contaminazione di generi. Del resto in Italia siamo lenti, la prima opera di Cechov è arrivata nel '24. Gli altri paesi avevano capito prima di noi che il teatro era fusione di cultura e letteratura."
Nel libro curato da Scarpa, parla degli autori che predilige.
"Pirandello è l'autore che amo più di tutti. Ma amo molto anche Beckett, Adamov, De Filippo, Genet. Nel libro parlo anche di grandi uomini vicini al teatro, Silvio D'Amico e Orazio Costa. Discuto della complessità di Sharoff..."
Un giudizio su Pirandello.
"Dire qualcosa di Pirandello è difficile. I Giganti della montagna è quanto di più alto si sia potuto concepire sul teatro."
La definirebbe un'opera "metateatrale"?
"La rigida definizione "metateatrale" applicata all'opera di Pirandello non si attaglia. La parola metateatrale è adeguata se riferita all'Amleto. In quell'opera vi è un melodramma che viene trasformato in una tragedia. In Pirandello vi è una concezione spirituale del teatro, il teatro come forma di sacrificio. Più che di metateatro, parlerei di un ritorno alle radici più profonde del teatro."
Al teatro greco?
"Non un ritorno al teatro greco, inteso come coralità, mediterraneità, ma al principio spirituale della tragedia. Alla nascita della tragedia."
Da Pirandello a Genet.
"Altro autore che amo. Con Genet però ho avuto un rapporto curioso, l'ho conosciuto, ma non sono mai riuscito a metterlo in scena. Muoio con qualche rimpianto, mai Shakesperare, mai Cechov, li hanno fatti i miei allievi, io no. Per una oggettiva difficoltà, non ho mai avuto la possibilità di proporli come lavori."
Camilleri in lirica. Che ne pensa?
"Si riferisce al Fantasma della cabina, regia di Rocco Mortelliti, musica di Marco Betta. Un'opera lirica tratta dai miei racconti incentrati su Cecè Collura, un commissario di bordo, che non ha tanta dimestichezza con le armi, ma ha una buona "parlantina". Un'opera che debutta al Teatro Donizetti. Quanti ricordi. Al Donizetti feci il San Giovanni decollato di Martoglio, messo in musica, dal maestro catanese Sangiorgi, che aveva a lungo studiato in Germania. Tra l'altro l'opera fu un successo, la dirigeva Franco Mannino, ma è stata la mia prima e ultima esperienza in lirica. Come passa il tempo. Comunque, mi chiedeva che ne penso... Guardi, mi fa piacere ma non mi impressiona, sono andato a fumetti, sui cd, mi diverte la diversità dei generi letterari e culturali, dai più leggeri ai più complessi. Non credo come altri alla sacralità dei miei lavori, non mi appartengono certi snobismi elitari."
Dopo queste dichiarazioni, i suoi detrattori nella critica letteraria storceranno ancora di più il naso.
"Storcano pure."
Salvo Fallica