La
Nuova Sardegna, 13.1.2002
«Il re di Girgenti» è il «gran romanzo»
che fa dello scrittore siciliano un cantore epico destinato a un posto
di primo piano
Camilleri questa volta fa sul serio
Una lingua «necessitata» costruita sulle stratificazioni
storiche
In conclusione del saggio dedicato alla «Geografia e storia della
letteratura italiana», Carlo Dionisotti parlava dei romanzi verghiani
«prima e fin qui sola celebrazione poetica dell'umile contemporanea
Italia» e affermava che la via segnata dal Verga «sembra essere
la sola che dal prossimo passato si prolunghi per la letteratura italiana
sul prossimo avvenire». I cinquanta anni trascorsi dal momento in
cui quelle parole furono scritte hanno mostrato quanta capacità
profetica derivasse allo studioso dalla conoscenza della storia civile,
culturale e specificamente letteraria dell'Italia. Ciò che nel 1951
era soltanto in nuce oggi appare evidente agli occhi di chi ami soffermarsi
a meditare sulla «fantastica e sconsigliata» Italia contemporanea,
su una storia che raccoglie in sé, senza che scompaiano in un'unità
indistinta, tutte
le storie dalle quali l'attuale fisionomia deriva.
Meditazione non facile, e anzi turbata da un rumore di fondo che disturba
la comprensione delle cose, da uno strepito politico di fazioni contrapposte
su tutto e soltanto convergenti nella capacità di alimentare la
confusione delle idee. Così, da un lato si teorizza la frantumazione
dell'unità nazionale, dall'altro la si vorrebbe cementare con malinconici
inviti rivolti ai calciatori perché imparino e cantino a gran voce
l'Inno di Mameli.
Mentre l'unità sta proprio in quella straordinaria diversità
che poche altre popolazioni europee hanno avuto, nel corso dei secoli,
e che ancora si mostra vitale e propulsiva. Nonostante tutto.
Nonostante le differenziazioni dialettali e linguistiche, ad esempio,
che hanno giostrato nel torneo della storia e resistono a ogni processo
omologante.
Nonostante la secolare divaricazione fra le lingue dell'oralità
e quella, letteraria e illustre, della scrittura che nel Novecento ha sempre
più spesso chiesto il «soccorso» dei dialetti. Soccorso
concesso, secondo una mappatura che varia di zona in zona, da un autore
all'altro, sulla base delle maggiori o minori intenzionalità sperimentali
e delle concezioni politiche e culturali.
Paese di straordinari ossimori, il nostro, nell'età della Padania
lo scrittore più amato, quello che da anni occupa in modo del tutto
eccezionale la classifica dei libri più venduti, con due, tre, quattro
titoli, è un siciliano che impiega un lessico di sua invenzione
basato su un impasto di siciliano e che racconta solo storie ambientate
in Sicilia. Ma che, per ulteriore paradosso, non dimostra di apprezzare
l'idea di «sicilitudine»: «A quanto mi risulta, "sicilitudine"
è un adattamento di "négritude", negritudine, termine coniato
tempo fa dal poeta senegalese Léopold Senghor [...] Non amo parlare
di "sicilitudine" perché in realtà non so cosa sia. Anzi
ricordo di avere scritto sulle pagine siciliane di "Repubblica" un articolo
per illustrare quelli che a mio avviso potranno essere i vantaggi di un
eventuale ponte sullo stretto e concludevo che certamente il ponte avrebbe
fatto scomparire la "sicilitudine" qualunque cosa essa fosse. Perché
non mi piace? Perché sottintende (o postula) un sentimento, una
cognizione di diversità. Francamente, mi secca molto sentirmi definire
"scrittore siciliano". Sono scrittore italiano nato in Sicilia».
Lo «scrittore italiano» Andrea Camilleri ha dato un contributo
di notevole portata alle patrie lettere e, per quanto l'affermazione possa
apparire singolare, alla stessa lingua nazionale difesa dai pericoli derivanti
dalla globalizzazione. «Camilleri - ha sostenuto Vittorio Spinazzola
- ha compiuto un'operazione insolita e coraggiosa: di fronte alla pervasività
dell'anglo-italiano ha scelto il dialetto siciliano, riuscendo a farlo
digerire grazie alla vena comica. Inventando il commissario Montalbano,
ha creato un personaggio memorabile, capace di imprimersi nella memoria
dei lettori e di catalizzare l'interesse del pubblico, facendogli accogliere
un linguaggio tutt'altro che accessibile. Camilleri significa anche la
riscoperta dell'Italia, in quel suo aspetto tipico che è il mito
della sicilianità, assolutamente costitutivo dell'unità nazionale».
Come dire, che il punto più alto della dimensione nazionale
è possibile raggiungerlo soltanto passando attraverso una regionalità
non incolta.
E, per capirlo, basta leggere «Il re di Girgenti», l'ultimo
romanzo di Andrea Camilleri. Il quale, a dire il vero sembrava voler ingannare
o quanto meno depistare tutti. Il suo appariva come un bel gioco della
letterarietà, un divertimento compiaciuto, quasi l'esibizione di
un virtuosismo, di una velocità di scrittura da cui nascevano le
opere, una dietro l'altra. Romanzi di vario genere, soprattutto polizieschi,
i quali nella serialità del commissario Montalbano sembravano più
il frutto di un accorto programma editoriale che di un convincimento profondo,
di un bisogno espressivo.
Anche se c'erano alcuni tratti di «sicilitudine» che, contro
ogni dichiarazione dell'autore, parevano indicare una prospettiva possibile.
Prospettiva che ora si mostra pienamente compiuta come ritiene anche
Salvatore Silvano Nigro, se ha potuto scrivere: «"Il re di Girgenti"
è il gran romanzo di Camilleri, che tutti aspettavamo». È
vero: aspettavamo un «gran romanzo», consapevoli delle qualità
di questo scrittore, anche quando la sua prolificità e l'evidente
gusto per il «gioco» potevano insinuare il dubbio.
Ma non ci saremmo aspettati la straordinaria invenzione che Camilleri
fa di se stesso, trasformandosi dal capace e fecondo scrittore di racconti
legati al mondo siciliano, in un «mastro-cantore epico della vita
e dei sogni del suo popolo». Così Sergio Atzeni ha definito
Patrick Chamoiseau, lo scrittore caraibico inventore dell'epopea di «Texaco»
e della lingua necessaria per cantarla. Sulla stessa strada si è
posto Andrea Camilleri che, come molti autori di paesi in passato sottoposti
a dominio coloniale, esprime un'esigenza morale, una volontà di
riscatto, il bisogno di testimoniare verità che i documenti lasciano
appena intravedere ma che sono chiare nell'intelligenza e nel cuore degli
uomini.
«Il re di Girgenti» è un racconto al cui interno
si sente l'eco della fiaba popolare ma che ha la densità del poema
d'oggi. Scritto nella sua lingua «necessaria»: non più
nel lessico individuale e «familiare» tipico di Camilleri,
ma in una lingua della «sicilitudine» nella quale si impastano
tutti gli idiomi parlati in Sicilia, per imposizione o per scelta, nel
corso dei tempi. Una lingua nella quale ritornano, fluite attraverso una
lunghissima tradizione, le parole della letteratura delle origini che ancora
hanno vitalità e forza espressiva. Come quell'«abento»
che era nel «Contrasto» di Cielo d'Alcamo («per te non
ajo abento notte e dia / penzando poi di voi, madonna mia») e che
ritroviamo ne «Il re di Girgenti» col generale significato
di «riposo» («l'omo poté pigliare abento»)
e con quello più specifico di «riposo dalle pene d'amore»
(«Non aveva abento»).
Ecco, sono numerosi i temi e gli aspetti che il «cantore»
Camilleri propone col suo romanzo e riguardano gli uomini e la loro storia,
la Sicilia e la travagliata vicenda di dominazioni all'interno della quale
molti elementi hanno posto: la Spagna, il Piemonte, l'Italia, l'oggi e
l'ieri, la catena dei soprusi e il sentimento di sé, quella che
Fenoglio definirebbe «la nascita forcipata» del sentimento
nazionale. Ma tutti sono riassunti in un processo linguistico complesso
e contraddittorio, nell'aspirazione alla purezza che ha dominato la nostra
storia linguistica e in una realtà che negava l'idea stessa della
purezza, nella sfida che quanti escono da un lungo itinerario di dominazioni
pongono a se stessi e agli altri.
Una sfida che può per metafora essere espressa mediante le stesse
parole impiegate dal duca Sebastiano Vanasco Pes y Pes per rappresentare
i dubbi che lo assalgono mentre realizza il progetto di far ingravidare
la nobile Isabella dal «viddrano» Gisuè: «el hijo,
nacido dalla semilla di un campesino ignorante y grosero, che inteligencia
avrebbe avuto?».
Il romanzo, che ci dice poco di quel figlio, dice invece molto sulla
«inteligencia» dei linguaggi nati dalla «semilla»
della storia e potenzialmente disponibili, oggi, nelle diverse parti d'Italia
come in tante altre regioni del mondo.
Giuseppe Marci