La Sicilia, 27.5.2002
Il «giallo della stricnina»
La penna di Camilleri ripesca un caso del '48
CALTANISSETTA - Nei giorni scorsi è arrivato nelle librerie d'Italia,
svettando subito nella classifica delle vendite, il nuovo volume della
“saga” del commissario Montalbano, il fortunato personaggio nato dalla
sempre più feconda penna di Andrea Camilleri. Si tratta de “La paura
di Montalbano” (edito da Mondadori) che raccoglie sei racconti con protagonista
il poliziotto di Vigàta, alle prese con i soliti casi più
o meno intricati.
Il racconto finale, intitolato “Meglio lo scuro”, nonostante lo scrittore
empedoclino dichiari in appendice che «nomi e situazioni sono di
mia invenzione e non hanno quindi nessun rapporto con la cosiddetta realtà»,
invero presenta forti analogie con un celebre caso giudiziario che ebbe
a Caltanissetta scenario e protagonisti nell'immediato dopoguerra. Fu,
quello, “il giallo alla stricnina”, un caso di veneficio che vide protagonista,
nel 1948, una donna dell'aristocrazia nissena, alfine condannata per aver
avvelenato il marito, noto professionista, propinandogli un topicida, perchè
follemente innamorata del cugino-amante. Una vicenda, quella, che fece
molto scalpore e divise l'Italia tra innocentisti e colpevolisti: la donna
confessò subito l'avvelenamento del marito, a sua volta sofferente
di una grave forma di tabagismo, e di avergli propinato la polvere topicida
durante un attacco di quel male, così da portarlo alla morte. Poi
ritrattò, rimanendo comunque al centro di una lunga e complessa
vicenda giudiziaria, che si concluse con la sua condanna, e che registrò
anche “gialli” nel “giallo”, come ad esempio quello delle perizie chimiche
fatte sui reperti cadaverici della vittima: nessuna traccia di stricnina
per i periti palermitani, massiccia presenza del veleno per i controperiti
fiorentini; o come quello dello “strano” e lungo viaggio dei reperti tra
i due laboratori (spediti da Palermo, si “rinvennero” a Firenze dopo due
mesi...). Fatti, questi, che - come altri - si riscontrano nell'episodio
camilleriano che, come detto, presenta molte - forse troppe - “analogie”
col celebre caso nisseno: e quanti a Caltanissetta ancora ne conservano
ricordo (la protagonista si è spenta, novantenne, appena l'anno
scorso), leggendo la nuova avventura di Montalbano non hanno potuto fare
a meno di cogliere il netto collegamento (il “giallo” nisseno, proprio
per la sua avvincente complessità, ha anche trovato spazio in pubblicazioni
dedicate, appunto, ai casi giudiziari più celebri).
Nel suo racconto, Camilleri - cui, di certo, non difetta la fantasia
per i suoi apprezzati soggetti, e il successo che continua a mietere lo
conferma appieno - inserisce la vicenda del veneficio in quella del “pentimento”
di un'anziana donna, vedova di un farmacista, che in punto di morte confessa
che la bustina consegnata cinquant'anni prima ad un'amica (l'avvelenatrice)
non conteneva quel veleno che sarebbe stato causa del decesso del marito
della stessa amica, e quindi al centro della vicenda giudiziaria in seguito
scaturita. Camilleri, da maestro di trame qual è, è bravo
a montare questa storia, che impegna Montalbano, su quella dell'avvelenamento
che occupa la parte centrale del racconto e che, come detto, ricorda molto
quella nissena, pur nella diversità di alcuni particolari.
Rimangono obiettivamente parecchi, però, quelli in comune riscontrabili
nelle due storie: dai primi malesseri della vittima, al suo decesso assistito
dagli amici, agli immediati sospetti dei familiari che chiedono l'esame
autoptico, alla prima confessione della donna, alle varie fasi del processo,
via via fino alla grazia concessa alla donna dopo una lunga detenzione.
Walter Guttadauria