Stilos, supplemento letterario de La Sicilia, 19.3.2002
Il discorso. Mi sono sottoposto allo studio di me stesso e cosi`
mi sono ritrovato
Pubblichiamo un’ampia sintesi dell’intervento conclusivo di Camilleri
al convegno di Palermo dell'8 e 9 marzo
Non ho nulla di scritto, il che rappresenta un rischio enorme per gli
ascoltatori, perché l’età mi porta a divagazioni a coda di
porco spaventose dalle quali mi è difficilissimo uscire una volta
che ci sono entrato dentro. Mi scuserete. Queste due giornate di studio
hanno avuto un tema sbagliatissimo, perché dovevano essere non «su»
ma «di» Camilleri: mi sono dovuto infatti sottoporre allo studio
di me stesso attraverso le parole degli altri, la qualcosa è una
fatica del diavolo, perché oltretutto non ho avuto neppure la soddisfazione
di dire «questo lo sapevo già», essendoci stata sempre
qualcosina di nuovo in ogni relazione. Più che un caso, il mio è
un fungo: «il fungo Camilleri» potrebbe essere un altro bel
titolo per un convegno, giacché sono venuto fuori negli ultimi tre
anni all’improvviso. Ma, amici miei, è dal ’48 che stampo e pubblico.
Nel ’48 un signore che si chiama Giuseppe Ungaretti decide di pigliare
tre poesie mie e di pubblicarle in un’antologia della prestigiosissima
collana «Lo Specchio» di Mondadori. Mando racconti a «L’Ora»
di Palermo e me li vedo pubblicati senza che mi conoscano neppure, oppure
me li pubblica «L’Italia socialista» di Aldo Garosci di Roma
in terza pagina. Io mando messaggi in bottiglia da Porto Empedocle, provincia
di Agrigento, e questi messaggi da qualche parte arrivano. E prima ancora
del ’48 c’è il Premio Libera Stampa di Lugano con una giuria che
ha Gianfranco Contini, Carlo Bo, Giansiro Ferrata. E’ il ’47: 370 giovani
autori mandano da tutt’Italia le loro produzioni e ne vengono scelti dodici.
Ci sono anch’io. Mai vista una giuria così profetica: premia tutti
i nomi della letteratura a venire. Non sbaglia un colpo: Pier Paolo Pasolini,
che ha un anno più di me, Andrea Zanzotto, uno che diventerà
prete, Davide Maria Turoldo. L’unico «traditore» sono io che
arrivo quarant’anni dopo, ma tutti gli altri si sistemano subito dopo.
Il mio è stato perciò un lungo cammino, che solo formalmente
è stato interrotto dal teatro. Formalmente, perché il teatro
è stato per me una grandissima scuola di scrittura. E’ stato detto
in questo convegno che spesso e volentieri i personaggi li faccio parlare
prima ancora di descriverli. E in realtà io dico questo al mio personaggio:
«Vieni avanti, parla: ti fabbrico secondo come mi hai parlato, secondo
le cadenze e il tono, le inflessioni e la voce». Dopodiché,
se ne ho voglia, gli do un aspetto fisico, ma in genere preferisco lasciare
libero il lettore di farsi da sé un’immagine. Io gli metto a disposizione
i dati.
Dicevo della scuola di scrittura che è stato il teatro: ricordo
che gli allievi dell’Accademia dove insegnavo regia mi dicevano sempre:
«Ma quante volte ce l’ha raccontate queste storie, professore!».
Perché, io le storie che ho scritto le ho sempre raccontate, me
le lavoravo di classe in classe. Ho tenuto saldo un filo che non si è
mai rotto e che è arrivato a queste due giornate, che sono state
fondamentali per me, benché siano arrivate tardi, come tutto nella
mia vita – senza nessun rimpianto. Giornate importanti perché, vedete,
un uomo che va avanti negli anni diventa sempre più solitario: gli
amici vengono richiamati ad altro servizio e va a finire che quelle tre,
quattro persone, Dante Troisi, Ruggero Jacobbi, Niccolò Gallo, alle
quali con piena fiducia potevo rivolgermi e chiedere «che ne pensi
di ’sta cosa?» – trovandole magari teneramente feroci nei miei riguardi
– non ce l’ho più. Posso avere solo la lucida distanza che mia moglie
riesce a cogliere quando scrivo e di cui non finirò mai di esserle
grato. Ma da quando ho cominciato a pubblicare mi pare di sprofondare sempre
più in un abisso senza fondo: tendo l’orecchio per sentire il tonfo
e non lo sento. Ecco che allora arrivano queste due giornate e il tonfo
finalmente lo sento. Lanza Tomasi ha detto una cosa bellissima: che è
difficile parlare con l’autore seduto in prima fila che ti sta a guardare.
E’ come parlare davanti alla salma. Oggi, dopo un esame autoptico di tale
intensità, orrore, la salma parla. E vorrebbe dire alcune cose.
Ho già rilevato che non c’è stata una sola relazione
inutile. Dove e quando io potrò utilizzare le cose utili che ne
ho ricavato non lo so. L’essenziale è che ci siano state. E la prima
questione di cui vorrei parlare è il debito grosso con Manzoni.
Dopo che una scuola voleva adottare il mio Birraio di Preston in
sostituzione dei Promessi sposi, gli ho scritto una lettera su La
Stampa per dirgli che me ne sono innamorato a 32 anni leggendolo per i
fatti miei tre o quattro volte. E’ quindi naturale che io faccia delle
citazioni non accorgendomene e chiami un personaggio col nome di Minzoni.
C’è stato il traduttore tedesco che ha detto di essersi servito
del Simplicissimus per tradurmi. Io il Simplicissimus l’ho
letto a dodici anni! Era un libro pubblicato da Salani e stava nella biblioteca
di mio padre. E lo stesso Le feu di Barbusse, che è stato
citato dalla traduttrice francese come libro di paragone, è stato
per me un altro romanzo formativo. In questi due giorni ho dunque scoperto
che i miei fili si riannodano oggi.
Un’altra questione da discutere è l’uso del dialetto. Nel teatro
ho sempre tenuto presente Shakespeare che dice: «Il mio uomo è
attore e tutto il mondo è teatro». E’ una frase da me messa
in scena interamente nella creazione della mia scrittura. E’ stato bene
osservato che il punto di partenza per me è la parlata piccolo-borghese:
e in realtà quando torno a Porto Empedocle è in questo modo
che parlo con i miei amici superstiti, un misto di siciliano e italiano
che appartiene al parlato contadino. Da bambino sono stato un attento ascoltatore
di Minicu, un narratore di cose straordinarie, che è molto presente
dietro il mio Re di Girgenti, un vero contadino che insegnava la
virtù della pelle del serpente per «stagnare u sangu»
contro i tagli della falce o come cercare una certa erba medicamentosa.
Ai miei allievi chiedevo sempre quale fosse la bibliografia della loro
regia, cioè che letture avessero fatto, che spettacoli avessero
visto. Perché quando metti in scena la riduzione pirandelliana in
dialetto del Ciclopu di Euripide devi fare i conti con molteplici
piani linguistici, fra cui la versione catanese del testo, perché
destinato agli attori della compagnia di Musco. Il ciclope è un
contadino e Pirandello lo fa esprimere in stretto vernacolo. Poi arriva
Ulisse, che ha fatto il militare a Cuneo e vuole parlare in italiano e
dice: «Per favuri, vulissivu ’nsignaricci quarchi deflussu d’acqua
pi smorzarinni la siti chi nn’avvampa» Nel Birraio di Preston
la signora che ha avuto il marito marinaio e si esprime con le stesse parole
mi viene tutta da Pirandello. Da lui ho imparato a lavorare su più
piani linguistici. Un’altra cosa. Nel Re di Girgenti non è
stata la singolarità del fatto ad attrarmi, perché sapevo
che non era singolare. E’ stata nella civiltà degli irochesi che
ho trovato le tre righe che riguardano Zosimo. E’ così. Gli irochesi,
ovvero i contadini siciliani, l’occupazione delle terre nel dopoguerra,
la loro generosa storia. E ho scritto il romanzo perché mi permetteva
di scrivere di un sogno che mi auguro che continui.
Un’ultima cosa che voglio dire riguarda l’impegno politico nella mia
scrittura. Ho ricevuto la lettera di uno che diceva di avere raccolto voci
negative e di aver letto tutti i miei libri: «Non riesco a capire
perché lei venga indicato come un uomo di sinistra» mi ha
scritto. Ma come aveva letto i miei libri? Cosa aveva letto?