Andrea Camilleri
Lectio Doctoralis
Girando attorno alla Torre di Babele
Allora tutta la terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse
parole.
Or avvenne che, emigrando dall’oriente, trovarono una pianura nella
regione del Sennaar e vi abitarono...
E dissero: «Orsù, edifichiamoci una città e
una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno di
unione altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra».
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre e disse:
«Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti un medesimo linguaggio.
Niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che
verrà loro in mente di fare.
Orsù dunque proprio lì confondiamo il loro linguaggio,
in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri.
Così il Signore di là li disperse sulla faccia di
tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città, alla quale
perciò fu dato il nome di Babele, perché ivi il Signore aveva
confuso il linguaggio di tutta la terra».
(Genesi, 11, 1-9).
Dunque, come ci spiegano i biblisti, Dio non distrugge la torre perché
segno d’umano orgoglio smisurato, ma perché simbolo dell’unità
raggiunta attraverso l’uso di uno stesso linguaggio. Linguaggio che permetteva
«agli esseri viventi in comunità ad avvicinarsi l’uno all’altro,
a simpatizzare, a lavorare insieme, a capirsi reciprocamente», secondo
la classica definizione di Révész. Situazione che si presenta
agli occhi del Creatore, in quel momento, oltre che come una colpa collettiva,
anche come un rischio assoluto: «niente ormai li impedirà
di condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare».
Dio insomma capisce che le parole di quel linguaggio comune non sono le
parmenidee «etichette delle cose illusorie», ma realtà
concrete che pigliano forma in quei mattoni cotti che servono alla costruzione
della torre. Le parole del comune linguaggio concretamente si tramutano
in elementi basilari della costruzione.
Ma perché Dio rompe a forza quell’unità? Oggi si direbbe
diplomaticamente per una banale divergenza d’opinioni. I discendenti dei
figli di Noè si erano convinti che era meglio per loro starsene
uniti in un unico luogo della terra, mentre Dio al contrario sosteneva
che era meglio che essi si diffondessero per tutta la terra. La sproporzione
del peso contrattuale tra le due parti è enorme e non può
esserci altra strada se non quella della sottomissione alla volontà
divina.
Resta comunque irrisolta la domanda: che bisogno c’era di aggiungere
alla diaspora anche la diversità delle lingue se non si vuole ammettere
che il Verbo con la «v» maiuscola temeva la parola senza la
«p» maiuscola? Perché in verità anche nelle Upanishad
gli Asura, i Demoni, paventano l’uso di un medesimo linguaggio da parte
degli uomini, dicono che «la parola finirà col dominarci»
e rilevano che in fondo, per le loro costruzioni, gli uomini non hanno
avuto bisogno che di sole sette parole. Che cosa accadrà quando
le parole, i mattoni cotti, si moltiplicheranno restando da tutti comprese
allo stesso modo?
In effetti, la rappresentazione che della costruzione della Torre ci
ha dato Bruegel, il quale almeno tre volte tornò su questo argomento
che evidentemente l´affascinava, è la dichiarazione assoluta
dell´orgoglio umano, quando esso prende coscienza delle sue capacità
e possibilità di fare. Le proporzioni della Torre sono colossali
in rapporto al paese che c´è alla sinistra e anche in rapporto
al porto che è sulla destra. In primo piano, a sinistra, c´è
la figurazione dell´indifferenza degli scalpellini che continuano
a lavorare mentre l´architetto illustra a Nembroth i criteri seguiti
per la costruzione. La domanda è: dove sono gli uomini, i lavoratori,
quelli che materialmente eseguono la gigantesca costruzione? Sono così
minuscoli, sono così formiche che quasi non hanno visibilità.
Eppure, a guardar bene, ci sono, e sono tanti. Salgono scale, manovrano
argani, rompono pietre, fanno girare ruote gigantesche, raschiano pareti,
conducono carri, remano, si riposano, corrono, salgono sugli alberi di
navi, scavano, pesano, piallano, segano, misurano. Tutte azioni comandate
e coordinate dalle stesse, pochissime parole. La confusione delle lingue
diventa perciò per Dio e per gli Asura provvedimento indispensabile
alla sopravvivenza.
Borges ha ipotizzato la sterminata biblioteca di Babele, dunque si
riferiva a una biblioteca sorta dopo la distruzione della torre, e sarebbe
stato interessante sapere da lui quanti e quali volumi la biblioteca avesse
contenuto prima della distruzione. Qualche altra ipotesi Borges però
l´ha avanzata: poemi che si compongono di una sola parola o delle
quattro della lingua di Japhet. Per comporre poemi di una sola parola,
basterebbe combinare le lettere che compongono la sillaba sacra, AUM, dove
A è lo stato di veglia, U lo stato di sonno e M il sonno profondo.
Però qui entriamo in un campo vietato già dal 1866, quando
la Société de Linguistique di Parigi statutariamente dichiarò
che non avrebbe accettato nessuna comunicazione concernente l´origine
del linguaggio. Ma a lungo è rimasto irrisolto il problema, con
buona pace della Società di Linguistica, di come si siano formate
le diverse lingue dopo la distruzione della torre, da quale comune ceppo
si siano dipartiti i rami: su alcuni risultati oggi raggiunti non sembrano
più esserci dubbi. E questo dovrebbe tranquillizzarci. Apparentemente,
la distruzione della torre non ha apportato considerevoli danni. Oggi ci
è possibile comprendere tutte le seimila e passa lingue esistenti
sulla terra attraverso la traduzione, che può anche esser simultanea.
Ma già nella Bibbia è frequente la comparsa di un personaggio
del tutto nuovo, l´interprete. Quando i fratelli di Giuseppe lo raggiungono
in Egitto egli si serve di un interprete per capire ciò che dicono.
Assuero inviava lettere a tutte le province del regno, a ogni provincia
secondo la sua scrittura e a ogni popolo secondo la sua lingua. I Galaditi
identificano e ammazzano gli uomini di Efraim facendo loro dire «schibboleth»
che gli efraimiti pronunziano «sibboleth». Però il dono
dato da Dio agli Apostoli nella Pentecoste, di poter cioè parlare
e comprendere tutte le lingue, quello rimane privilegio degli eletti.
Le parole morte
Apparentemente, dicevo. Perché come se non bastasse la separazione
delle lingue dell´uomo, nuove scienze ci hanno rivelato il senso
e il significato dei segni e hanno tramutato alcune metafore poetiche,
ad esempio quelle sul linguaggio della natura, in concreti segni di linguaggio
e così si è arrivati a scoprire, non so con quanta soddisfazione,
che le cornacchie di città non capiscono le cornacchie di campagna
e che quelle del Connecticut non riescono a farsi intendere da quelle della
California. Anche le cornacchie vittime di una loro torre di Babele? O
babelizzate per contagio umano? Ad ogni modo, le lingue nascono, crescono,
invecchiano, muoiono. Aggiornate statistiche ci dicono quante ne siano
scomparse nell´ultimo decennio. Claude Hagège, nel suo Morte
e rinascita delle lingue, sostiene che ogni quindici giorni scompare una
lingua. Alcune per eutanasia, nel senso che alcune tribù decidono
di abbandonare il loro linguaggio per passare a un altro usato da tribù
vicine e più numerose. A me qui interessa constatare il fenomeno,
troppe essendo e assai contrastanti tra loro le spiegazioni che di questo
fenomeno si vogliono fornire. Un dato comunque è certo: lingue che
hanno fornito all´umanità opere immortali alle quali l´uomo
si è abbeverato nel suo crescere sono morte alla stessa stregua
di lingue che non hanno saputo elevarsi al di sopra della più elementare
comunicazione. Ma qui mi preme porre una domanda che riguarda le ceneri,
il destino delle lingue morte. Sappiamo che alcune di esse, prima di scomparire,
hanno fatto a tempo a generare da sé una lingua figlia. Ma le altre,
quelle che sono scomparse senza eredi, che fine hanno fatto? Voglio dire:
quelle parole morte che hanno costituito una lingua con la quale sono stati
espressi i moti dell´animo e la natura stessa dell´uomo che
le diceva si sono volatilizzate nell´aria? Sono tornate a essere
una modulazione del vento? Oppure sono diventate humus, terreno fertile
per una lingua ancora da venire e che probabilmente nel suo Dna avrà
solo indecifrabili tracce della lingua ava? Oppure ancora gran parte di
queste parole che a noi appaiono morte si sono trasferite, mimetizzandosi,
all´interno del tessuto della lingua prossima e vivente? E inoltre
mi chiedo: non è nemmeno sopravvissuto un traduttore, un interprete
di queste lingue scomparse? Qualcuno cioè in grado di raccontare
agli altri ciò che quelle parole perdute avevano significato per
chi le pronunziava? So benissimo che «il senso di una parola non
è che la media degli usi che ne fanno gli individui e i gruppi di
una stessa società», o per dirla più chiaramente con
Wittgenstein «il significato di una parola non è null´altro
che l´uso che se ne fa nella lingua», ma so anche che ci fu
chi pronunziò qualche volta una parola in senso assoluto, fuori
dalla media, da ogni possibile contabilità. Questo è quello
che chiedo all´eventuale interprete superstite e gli chiedo anche
di ricordarle a se stesso in quanto parziale parte di quel popolo che quella
lingua parlò. Sì, perché qui ci soccorre il ricordo
di Ennio il poeta il quale affermava che, conoscendo il greco e il latino
e l´osco, tria corda habere, era in possesso di tre anime. Se così
non è, come temo, la maledizione della Torre ha ancora pieno vigore
e il linguaggio della tribù, quella summa di conoscenze e di sentimenti,
è destinato a scomparire con la tribù stessa. E in ciò
è forse individuabile il vero, profondo senso della maledizione
divina. Che si estende, ora con sottile ora con tragica ironia, anche all´interno
di una stessa lingua. La sottile ironia, per esempio, ha assunto clamorosa
evidenza in quel Corso di linguistica generale di Fernand de Saussure che
è alla base di ogni moderno studio linguistico, antropologico, semiotico
o di scienza dell´informazione: ebbene ancora oggi ci si chiede se
i volumi che costituiscono il Corso fedelmente rispecchino il pensiero
di Saussure.
Il paradosso di Saussure
Com´è noto, il maestro ginevrino, che aveva una singolare
e inesplicabile repugnanza a pubblicare, tenne questo corso universitario
tra il 1906 e il 1911. I suoi allievi linguisti Bally e Sechehaye, servendosi
dei loro appunti, di quelli di altri cinque uditori e di quelli di mano
di Saussure, fecero stampare nel 1916 il Corso. Il maestro era morto tre
anni prima e gli stessi curatori affermarono, nella prefazione, che il
loro lavoro era consistito essenzialmente in una «ricostruzione»
del suo pensiero. Una ricostruzione, una interpretazione dunque, non il
pensiero originale. Dal 1957, quando Robert Godel rimette mano alle fonti
del Corso, «anche la semplice lettura di Saussure diventa un problema»,
come scrive Georges Mounin. Problema che il nostro Tullio De Mauro ha tentato
di risolvere consentendo una visione delle idee di Saussure non del tutto
collimante con quanto era stato stampato nel 1916. Ma «resta il fatto»
- scrive Giulio Lepschy - «che il testo su cui si fondano le correnti
più interessanti della linguistica strutturale moderna è
quello - del 1916 - così come fu stampato dagli editori».
Non è paradossale? Oppure va rivisto quel concetto di identità
che Saussure ha voluto dimostrarci col celebre esempio del treno Ginevra-Parigi
delle 20,45? Mettiamo - dice Saussure - che ci siano due treni Ginevra-Parigi
che partano alle 20,45 a ventiquattr´ore di distanza l´uno
dall´altro. Ai nostri occhi si tratta dello stesso treno, anche se
assai probabilmente la locomotiva e i vagoni sono stati cambiati e personale
e passeggeri sono diversi. Allora perché diciamo che è lo
stesso treno? Perché, spiega Saussure, «ciò che costituisce
il treno è l´ora della sua partenza, il suo itinerario e in
genere tutte le circostanze che lo distinguono da altri treni». Ma,
a parte il fatto che tutto ciò è forse valido per le ferrovie
svizzere mentre lo è assai meno per le ferrovie italiane, dove talvolta
treni partono in ritardo, cambiano percorso e denominazione, perdono identità
assieme ai passeggeri, a parte tutto questo, la possibilità dell´errore
scientifico può darsi risieda nella necessità della generalizzazione.
In altri termini, con un paradosso forse chiarificatore, si potrebbe obiettare
a Saussure che i due treni Ginevra-Parigi partiti a ventiquattro ore di
distanza non sono riconducibili alla stessa identità mai, perché
nel primo viaggiava lo stesso Saussure e nel secondo i suoi allievi Bally
e Sechehaye.
Il mostro con due teste
Ho anche accennato all´ironia tragica con la quale si manifesta
l´effetto Torre. Le due torri di New York vengono fatte crollare
con un immondo attacco terroristico, la nazione che si fa paladina della
civiltà occidentale sparge il terrore in Afghanistan con bombardamenti
indiscriminati, i cosiddetti terroristi palestinesi si fanno saltare in
aria uccidendo donne e bambini israeliani, gli israeliani seminano il terrore
coi loro carri armati uccidendo donne e bambini palestinesi, e poi ci sono
i terroristi dell´Ira, dell´Eta, delle Brigate rosse e tanti
di altre organizzazioni che mi sfuggono. Ebbene, da mesi e mesi, all´Onu,
parlando tutti convenzionalmente la stessa lingua, l´inglese, non
riescono a dare una definizione, valida per un qualsiasi dizionario, della
parola «terrorismo». Quando ero piccolo, c´era nella
campagna di mio nonno un anziano contadino che amava raccontarmi storie
fantastiche. Un giorno mi disse di un mostro vissuto da quelle parti al
tempo degli antichi che si chiamava «Gufia», forse una deformazione
di Golia, non so. Era un mostro perché, pur essendo un essere umano
come tutti gli altri, aveva due teste. Queste due teste parlavano due lingue
diverse e non riuscivano tra loro a capirsi. Allora a Gufia, certi giorni
che le due teste cominciavano tra di loro ad altercare senza riuscire a
spiegare il perché, saltavano i nervi e si metteva ad ammazzare
tutti quelli che incontrava per strada. Ci sono voluti anni e anni per
scoprire che non si trattava di una leggenda, per rendermi conto che Gufia
continua a esistere e che non è un mostro: è, molto semplicemente,
l´uomo.
Andrea Camilleri