L’ultimo libro di Andrea Camilleri, “Il colore del sole”, storia immaginaria del soggiorno di Caravaggio in Sicilia, può essere visto come una magnifica impostura. Camilleri rovescia le regole del gioco fino a diventare protagonista del suo stesso libro. Si reca in Sicilia per assistere alle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa. Rimane vittima di uno pseudo-rapimento, viene portato in una villa sperduta alle pendici dell’Etna. Uno strano avvocato gli fa ritrovare un manoscritto e lo lascia per alcune ore solo a ricopiare le parti che vuole, un diario scritto dallo stesso Caravaggio, che pubblica. Stilos ha intervistato Camilleri a Roma.
Lei ha scelto di fare del “sole nero” la chiave del romanzo.
”Sì, è vero. Vede, questo libro tratta degli ultimissimi anni di vita di Caravaggio. Proprio in quegli ultimi anni di vita, e quindi nelle pitture di quel periodo, c’è questa grossa prevalenza dell’oscurità. Io ho cercato di leggere la sua arte di quegli anni in questa chiave. Come se lui, sempre e costantemente, vedesse nero. E non nel senso che si usa dire oggi; ma proprio come se ormai avesse compiuto una sorte di vero e proprio passaggio dalla parte del” sole nero”; con tutto quello che questo poteva significare.”
E forse è proprio questa angolatura a rendere il libro estremamente angosciante. Era una sua implicita intenzione arrivare a questo?
”Guardi, questa è una cosa strana. Tutto parte dalla necessità che avevo di inventarmi una scrittura. Perché di Caravaggio noi non conosciamo nessuno scritto compiuto. Tutto quello che abbiamo sono brevi bigliettini, tipo ricevute di pagamenti e cose simili. Inventarmi quindi uno stile di scrittura che fosse consono all’uomo Caravaggio era cosa di una certa difficoltà. Perché chiaramente non era un uomo di lettere, tutt’altro, quindi andare a cercare gli esempi di scrittura colta del Seicento sarebbe stato un errore. Io allora sono andato a cercare altri esempi secenteschi. Si figuri che ho consultato diversi trattati di botanica; in maniera che venisse fuori una scrittura non ricca, non preziosa. Non volevo questo, e non potevo farlo. Via via che scrivevo ho capito che era impossibile, come posso dire… era impossibile non “incorporarsi” all’interno di questo personaggio. Perché fin quando tu scrivi seguendo le tue regole, allora il personaggio lo domini. Ma a un certo momento, questa immersione totale nella scrittura, seppure finta, di un dato personaggio, ha fatto sì che diventasse inevitabile una specie di “ritorno” dalla pagina su di me. Proprio su di me, che stavo scrivendo quella pagina…”
Il Caravaggio continua ad esercitare molto fascino, ieri come oggi. Perché?
”Caravaggio esercita su di noi lo stesso fascino che può esercitare un poeta maledetto francese; poeta che andiamo a leggere innanzitutto perché sappiamo che è “maledetto”. Dopo, solo dopo, scopriamo che è un grande poeta. Lo stesso avviene con Caravaggio. C’è una grande letteratura su di lui, e non solo sulle sue opere, ma proprio sulla sua vita. Aveva ucciso un uomo, scappava in continuazione, sempre inseguito; sempre con i cani dietro. E così man mano che conosciamo la sua storia, cominciamo anche a guardare le sue opere, i suoi dipinti, sotto un’altra luce. E a poco a poco rimaniamo affascinati da quello che vediamo. Anche perché, secondo me, nella sua pittura c’è un progressivo e inarrestabile dichiarare qual è la sua condizione del momento.”
C’è anche nel libro la storia della fuga, della paura. Un uomo in fuga perde tutti i suoi riferimenti, fino ad arrivare al delirio?
”Sì, e lui in modo particolare. Ricordiamoci che è condannato a morte dal Papato. E non è che allora c’erano le facili grazie che ci sono oggi. Questo vuol dire che ovunque l’avessero trovato, lo avrebbero ucciso. Erano autorizzati a farlo. Quindi è un uomo che ha il fiato della morte sopra il collo. E comincia a scappare. Scappa da Napoli cercando di raggiungere Malta, dove gli è stato promesso che dopo un anno di noviziato potrà diventare Cavaliere. Perché c’erano i Cavalieri di Malta detti “di giustizia”, che erano tali per nascita, per nobiltà, e quelli detti “di grazia”, che potevano diventarlo anche senza essere nobili. Questo, nelle sue speranze, doveva servire a metterlo al riparo dalle ricerche papali. E lui, Cavaliero, effettivamente lo diventa. Perché sappiamo dai documenti che quando scappa da Malta, e scappa nudo, la croce di Cavaliere se la tiene fra i denti. Quindi gliel’hanno già data. Però poi deve essere successo qualcosa di misterioso, che io nel libro cerco di chiarire, a modo mio; succede qualcosa per cui va a finire in carcere. Lo incarcerano nel carcere di S. Angelo e da lì, appunto, scappa in modo altrettanto misterioso. Quindi si trova poi, quando arriva in Sicilia, ad essere ricercato non più solo dal Papato, ma anche dai Cavalieri, che intendono vendicarsi. Pensi quindi che cosa succede nella mente di un uomo doppiamente braccato. Su un terreno mentale già fragile - perché gli eccessi, tutti gli eccessi, sono sempre una dimostrazione di fragilità - si innesta, in qualche modo, un aumento, anzi un raddoppiamento di ogni rischio e di ogni pericolo. Ora ci sono due inseguitori, ora è doppio il pericolo di morire ammazzato all’angolo di una strada. E lui precipita. Su questo ho voluto insistere.”
Quella di Caravaggio è anche una storia di occasioni perse. Malta poteva essere l’occasione di rifarsi una vita.
”Certamente, lo sarebbe stata. Ma vede, Caravaggio era un uomo che aveva la vocazione ad autodannarsi. Se non fosse stato ciò che è successo a Malta a rovinarlo, sarebbe stata un’altra cosa a distruggerlo. Ma l’autodannazione era inevitabile.”
Ha trovato grosse difficoltà, nello scrivere questo romanzo?
”No, difficoltà nello scriverlo, no. Una cosa difficile era “agguantare” il personaggio. Trovare dei punti fermi. Allora mi sono chiesto: quali sono questi punti fermi? Sono i suoi quadri, le sue pitture. Questa luminosa scia fantastica di pittura che lascia dietro di sé. Dovunque passa Caravaggio lascia opere indimenticabili. E questi quadri sono come i piloni di un ponte. La mia narrativa, in realtà, non ha fatto altro che raccordare questi piloni.”
In questo libro lei diventa protagonista. Come le è venuta questa idea?
”Mi sono voluto divertire. Vede, l’escamotage del manoscritto ritrovato non è una novità. C’è sempre stato nella letteratura il manoscritto ritrovato in una bottiglia ,il manoscritto ritrovato nel solaio… ma di solito, anzi sempre, l’autore dà la responsabilità, la colpa, a un amico. E dice “c’è un mio amico che ha trovato…”. Insomma, l’autore non si espone mai in prima persona. Io mi sono detto: “E perché? Io mi voglio esporre in prima persona”. Così la finzione – perché sempre di questo si tratta - è ancora più finzione. Quindi tutta la prima parte riguarda questo enigma dei manoscritti; ma è tutto, chiaramente, un mistero di cartone. Penso che traspaia, che mi sto divertendo a creare un finto mistero. E come a voler sottolineare la diversità della cosa, ecco che mi metto a scrivere in italiano. Adopero questo italiano così ovvio, non volendo utilizzare il mio linguaggio solito. Questo vuol dire che se io non avessi “inventato” il linguaggio che uso abitualmente i miei romanzi sarebbero stati scritti in quel modo. Pensi che bella roba…”
Sono rimasta colpita dal personaggio di Carlo. L’ho trovato vivido, dignitoso, sincero. E’ anche lui un uomo braccato, come il Caravaggio. E traspare dietro di lui tutto un mondo del quale verrebbe voglia di sapere di più.
”Le è rimasta voglia di saperne di più… questo mi fa piacere, vuol dire che è una figura riuscita. La specularità con il Caravaggio, beh qui sì, l’ho fatto apposta. Anche Carlo è inseguito da due entità, chiamiamole così. Da una parte la mafia, dall’altra la legge. Praticamente si trova tra le due ganasce di una tenaglia, esattamente come finirà col trovarsi il Caravaggio. E entrambi faranno una brutta fine. Ho creato la specularità per creare un altro ponte con la seconda parte del libro. Però, certo; si poteva scrivere di più di questo personaggio. Ma a me interessava soprattutto raccontare l’occasione che mi viene offerta nella storia, e come mi viene offerta. Diciamo che lo considero un personaggio-funzione, serve per una certa cosa. Mi è servito e l’ho usato.”
E’ tutto inventato, in questa prima parte del libro?
”E’ tutto inventato di sana pianta, tranne una cosa. E cioè la motivazione che spinge Carlo a farmi vedere i manoscritti: la moglie che è morta di cancro. E che passa gli ultimi giorni con i miei libri, che riescono a strapparle qualche sorriso. Questo è vero. Io ho ricevuto due o tre lettere di persone che mi ringraziavano per questo. Ho indegnamente “sfruttato” questi avvenimenti.”
E proprio in questa occasione dice: “I miei libri dunque non erano poi così inutili come sosteneva buona parte della critica”.
”Esatto. Se un libro riesce a regalare un sorriso e a portare sollievo a qualcuno che non ha nessuna possibilità di sorridere e nessuna speranza di farcela, già questa è una cosa stupenda.”
Lei è appassionato di sperimentazione linguistica. Dove vuole arrivare?
”Sono appassionato, è vero. Mi piace esplorare l’italiano a 360 gradi. Tanto l’italiano colto, tanto quello arcaico di altre epoche, tanto i dialetti. E’ bellissimo fare questo. Certo, lo dicevo qualche giorno fa: mi piacerebbe arrivare proprio a una sperimentazione totale, quasi a una destrutturazione. Sarebbe bello, ma bisognerebbe averne la forza, la voglia e la capacità. Non è semplice. Perché vede, è facile fare la parodia di Dante. Il problema è entrarci dentro, nel suo linguaggio. Sa, come quel personaggio di Borges che a forza di studiare Cervantes e il Don Chisciotte riuscì a scrivere veramente alcuni capitoli del Don Chisciotte. A scriverli! Non a copiare, a scriverli di sana pianta. E’ la bellissima metafora di Menard.”
All’inizio del libro dice che un’altra ragione che l’ha spinta a partire per la Sicilia è stato il bisogno di sentirsi suonare nelle orecchie la particolare parlata dei catanesi. Un trucco?
”Ah, sì, quello l’ho scritto per i profani. Il non profano sa bene che la parlata catanese non è la mia. E allora l’ho scritto per quelli che considerano il siciliano un unicum. Non sanno che una cosa è la parlata catanese, un’altra la parlata agrigentina, un’altra quella palermitana…”
Però dopo tre giorni in Sicilia, si fa accompagnare all’aeroporto, provando insofferenza, come se ci fosse stato addirittura anni. Perché questo stato d’animo?
”E’ proprio una sensazione di “troppo”. Vede, mi sono detto che se avessi avuto veramente questa occasione, se davvero fossi rimasto coinvolto in questo “sequestro a scopo di lettura”, beh, molto probabilmente davvero mi sarei sentito così. Per tutto quello che circonda questa avventura di leggere il manoscritto: il mafioso, e il contromafioso, “e bèndati”, “e copia tutto”. Ho pensato che alla fine mi sarei veramente sentito stanco. Veramente desideroso di partire, di tornare, in qualche modo, alla normalità.”
Nel 1960, con le “Orestiadi” di Gassmann al Teatro Greco di Siracusa, lei realizza il primo esperimento di prosa in stereofonia. Quindi c’è nel libro un riferimento reale a una sua esperienza.
”Sì, e in verità io a Siracusa ho fatto diverse cose. Mi innamorai di questo bellissimo teatro all’inizio della mia carriera, quando facevo l’aiuto regista di Orazio Costa. Poi nel 1960, appunto, andai a fare le riprese notturne – perché si potevano fare solo di notte - delle “Orestiadi”, fatte da Vittorio Gassmann e dalla sua compagnia. Loro recitavano per il pubblico il pomeriggio; poi la notte, quando c’era un po’ di calma, cominciavamo a fare questo esperimento di registrazione in sterofonia. E fu davvero il primo esperimento di prosa in stereofonia. Il Teatro Greco si prestava benissimo. Perché il grande spazio tu lo traducevi acusticamente nel movimento dei personaggi. Era una cosa bellissima e nello stesso tempo difficile. Perché lei capisce che, per esempio, se partiva un motopeschereccio dal porto di Siracusa alle 2 di notte, noi con i nostri apparecchi ipersensibili lo registravamo. Mi ricordo che ci fece letteralmente impazzire una pompa per l’irrigazione di un orto. Una notte passata a cercare di registrare e sul più bello, ecco che partiva la pompa.
E poi ho fatto la regia del ”Ciclope” di Euripide, tradotto da Pirandello. E il “Ciclope” girò un po’ tutta la Sicilia, venne rappresentato anche a Taormina, a Tindari. Il protagonista era Turi Ferro, che faceva Polifemo.”
Caravaggio viene sempre accusato: di essere troppo crudo, di mostrare troppa realtà, di sbagliare prospettiva, di dare alla vergine il volto di una prostituta, di firmare col sangue, di usare un vero cadavere come modello per ritrarre Lazzaro…
”Sì, è vero. Ma le spiegazioni non sono solo farina del mio sacco… tutto viene detto dagli studiosi. Lui prendeva sempre un modello. Modello che poteva essere un cadavere, poteva essere un mendicante, potevano essere i due becchini; e lo ritraeva. E allora io mi sono messo per ogni quadro a immaginare la storia, la situazione. Ma il punto di partenza mi viene fornito su un piatto d’argento, nel momento in cui mi metto a leggere i varii libri di studiosi del Caravaggio. Del Caravaggio sorprende il suo realismo. E sempre il realismo viene criticato, certamente. Perché il fatto che, per esempio, nella Madonna del Rosario ci siano dei personaggi con i piedi sporchi – e ce li hanno perché sono dei poveracci - è un pugno a quella che è la convenzione della verità artistica di un quadro. Ma Caravaggio ci dice: no, qui c’è un altro tipo di verità. Perché per esempio Gesù non dovrebbe avere i piedi sporchi, se ha camminato tre ore a piedi nudi? Voglio dire: è assolutamente sorprendente, questo lato di verità di Caravaggio.”
A un certo punto Caravaggio ha addirittura l’impressione di vedere la sua testa decollata dentro una pozza d’acqua.
”Proprio così. E’ la testa di Oloferne, del quadro Giuditta e Oloferne. Ma lui vede sé stesso riflesso. Ha quindi sempre davanti IL modello. E ancora una cosa voglio portare ad esempio: il fatto che gli studiosi ci dicono che lui adoperasse la camera oscura. La camera oscura non è che manteneva le proporzioni, per esempio, del corpo umano. Tra l’altro capovolgeva la figura. E all’epoca molti errori dovuti a questo gli vengono rimproverati. Per esempio il fatto che la mano in primo piano nella Cena in Emmaus non può essere così piccola rispetto alla mano in secondo piano, e via dicendo. Ebbene, lui questo lo sa benissimo. Ma non gli interessa, perché la sua ricerca è un’altra. Lui scardina tutto. E lei pensi quanto è curioso il fatto che tantissima gente lo protegga. Persino i priorati e le confraternite di frati lo proteggono, anzi gli fanno addirittura da committenti. Perché quello che lascia dietro di sé il Caravaggio, ogni suo quadro, è talmente “alto”, talmente nuovo, da spingerli a mettere a rischio persino loro stessi. Perché se tu, religioso, dai ospitalità a uno che è un assassino, che è scomunicato, è ovvio che se si scopre, tu stesso vieni coinvolto. Eppure per un suo quadro loro corrono il rischio. E questo è stupefacente. Sì, la Chiesa lo sta perseguitando. La Chiesa spesso lo critica per il realismo. E’ vero, ma lui dipinge per conto della Chiesa stessa. Quasi non fa altro, negli ultimi tempi. E una buona parte del mondo della Chiesa lo apprezza.”
Chiesa che spesso lui sfida; quando a Siracusa gli viene commissionato il “Seppellimento di Santa Lucia” lui raffigura la santa gonfia, scomposta; e mette in primo piano i seppellitori.
”Sì, realismo assoluto. E vede come l’idea della morte, della rappresentazione stessa della morte sia una costante. Il sangue, il seppellimento, il becchino, la fossa. E’ una cosa che continua a tornargli dentro. Lo rode dall’interno, non gli dà tregua. Non ha scampo.”
Lei ci racconta che Caravaggio dipinge in bianco il manto del diacono. E quello stesso manto bianco poi nella notte diventa rosso. E così anche l’indomani.
”E quella è tutta invenzione mia. Vede, che cosa mi succede? E’ stata un’idea. C’era un pittore del tardo seicento, primi del settecento, napoletano ma di origini francesi, Monsù Desiderio. Lui dipingeva dei paesaggi stranissimi, per esempio delle case implose. Una cosa misteriosissima. Dipingeva non rovine già compiute, ma, come dire, nel compiersi della rovina. E nei quadri c’erano anche dei cavalieri, delle figure. All’epoca erano proprio chiamati così questi quadri, “paesaggi con figure”. Ma mentre le figure erano normalissime, i paesaggi cominciavano a delirare sempre di più. Un pittore strepitoso. Fin quando un medico psichiatra francese disse: “Guardate che non è un solo pittore, sono due”. E riuscì a identificarli, questi due pittori. Uno, quello che dipingeva i paesaggi, che dava fuori di matto, che si avviava a larghi passi verso la pura follia; l’altro, quello che dipingeva le figure, restava normale. Il risultato è mirabile. L’osservatore ha uno shock continuo osservando la normalità di queste figure all’interno di un’anormalità paesaggistica incredibile e assoluta. Caravaggio non ha bisogno di avere un altro pittore. Ecco la cosa straordinaria. E’ lui stesso che è “due”. Una parte è il genio di sempre. Ma una parte gli comincia a fagliare; ed ecco quindi, per esempio, il non controllo del colore. Comincia a perderlo, ecco che deve combattere per riconquistarselo.”
E a un certo punto lo sentiamo che invoca “il mio bel verde”…
”Infatti, pensi cosa voleva dire per un pittore non riuscire più a vedere, a dominare il colore. Perde il verde, poi lo ritrova… Questo era un altro segno di quello che è il suo decadere. Vede, c’è una frase che mi ha colpito. La frase è del suo committente siracusano, che vede Caravaggio - e questo è riportato nei documenti autentici - e dice:”Mi trovai davanti un mentecatto”. Gli cascano le braccia quando se lo vede davanti. Un mentecatto nel senso di allora: cioè a dire, uno che non ci stava con la testa. Io nel mio libro la faccio pronunciare da uno di passaggio, la parola “mentecatto”. Ma il Caravaggio, il grande genio, in quel momento lo è davvero.”
Lei ha dichiarato che è nella capacità di correggere, in qualche modo, la realtà che c’è l’arte. Vale anche per la scrittura?
”Sì, certamente. Vale per qualsiasi forma d’arte. Le dirò di più, l’arte è anche una forma di risarcimento della realtà. Caravaggio usava la camera oscura. Noi oggi non ne abbiamo bisogno. Perché oggi noi la riproduzione della realtà, che ci serve per potercene distaccare, ce l’abbiamo sotto gli occhi, sempre. Abbiamo il lavoro che fa la televisione e abbiamo il lavoro che fa, soprattutto, la fotografia. La fotografia è un grandissimo esempio. Guardi, le voglio raccontare una cosa, sulla fotografia; quella che coglie l’istante reale, il momento, e lo fissa per l’eternità. C’è, in qualsiasi foto, il fattore-tempo, che già di per sé è inquietante. Ma lei pensi che cosa straordinaria è la foto, famosissima, scattata da Robert Capa, del miliziano colpito che muore col fucile che gli sta sfuggendo dalle mani. E’ una foto strabiliante, che non finisce mai di appassionarmi. E stuzzica molto la mia fantasia. E ancora, pensi a quando Capa andò coi soldati americani in Normandia e fotografò lo sbarco; ebbene, quando mandò le foto all’agenzia americana la risposta fu:”Capa, guardi che le sue foto sono leggermente fuori fuoco”. Una frase che è rimasta famosa. Ecco, quello che a me, scrittore, interessa veramente è far sapere che cosa accadeva, attorno a Robert Capa, per far sì che quella fotografia fosse fuori fuoco. Tutto ciò che non era compreso dentro il taglio della fotografia.”
Quale sarà il prossimo libro ad uscire? Sarà lo storico “Le pecore e il pastore” di Sellerio?
”Guardi, in verità credo che il prossimo libro che uscirà sarà un altro apocrifo. Un’altra mia presa in giro, in qualche modo… Cioè a dire, le racconto: una novella sconosciuta di Boccaccio, misteriosamente ritrovata, e da me data alle stampe per la prima volta. Cercando di spiegare con severa interpretazione critica e storica perché non trovò spazio, non trovò posto, nel Decamerone.”
Continua a divertirsi, insomma.
”Eccome. Questo libro verrà pubblicato dalla casa editrice Guida. Che ha questa splendida collana che si chiama “Autentici falsi d’autore”. Ha già pubblicato falsi di Saffo, di Platone, e mi hanno chiesto di scrivere una falsa novella del Boccaccio. Lei pensi: ambientata a Palermo.”
Inoltre dovrebbe essere a breve in libreria un libro della casa editrice Nottetempo: la riedizione di “Elogio del crimine” di Karl Marx, di cui ha scritto l’introduzione, dal titolo “Il Rinascimento e l’orologio a cucù”.
”Sì, dovrebbe uscire a breve: è stata scelta questa frase, come titolo della mia prefazione. Frase famosissima, è di Orson Welles. Orson Welles girava Il terzo uomo di Carol Reed, e faceva la parte di quello che vendeva agli ospedali penicillina scaduta, andata a male, facendo morire i bambini. Senza alcun scrupolo. Arrivato a un certo punto del film, in un meraviglioso dialogo con un amico, che si svolge sotto la ruota panoramica di Vienna, pronuncia questa frase che rimarrà nella storia: «Stai a sentire: in Italia per trent’ anni hanno avuto guerra, terrore, tradimenti, stragi, sangue che scorreva a fiumi, e che cosa è venuto fuori? Il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, pace, democrazia, laghetti, che cosa è venuto fuori? L'orologio a cucù». Questa frase, racconta Carol Reed, non era nella sceneggiatura originale. La notte prima di registrare la scena, Orson Welles si scrisse su un “pizzino” queste parole. Arrivò sul set e chiese al regista: ”Le posso dire?”. “Certo che le puoi dire!” rispose il regista entusiasta.
Ed è in fondo l’idea che il male non sia una forza negativa per la produzione artistica, ma anzi sia una forza abbastanza positiva. E’ una vecchia tesi di Bernard De Mandeville, che Marx riprende.”
Se non ci fosse il crimine, non ci sarebbe il penale…
”Ma che fa, scherziamo? Si immagina? Non esisteremmo noi scrittori di gialli, di polizieschi!”
A proposito di gialli e polizieschi. Ne “Il colore del sole” afferma che, proprio in quanto scrittore di polizieschi, lei è “portato a vedere possibili intrighi in ogni fatto che non sia subito chiaro, addirittura non illuminato in ogni angolo da una luce quasi solare”. Questo le capita quindi anche nella vita di tutti i giorni?
”Eccome, mi succede sempre. Se non c’è luce totale io non mi persuado. Però poi i casi sono due. Si può dire “questa cosa non mi persuade ma faccio finta di non averlo capito”. E vai avanti. E man mano che vai avanti ti rendi conto che avevi ragione; e non fai finta di niente, vai fino in fondo. Altre volte invece, su cose più grosse uno vede la zona, la linea d’ombra, direbbe Conrad; e non la oltrepassa.”
Uscirà in primavera un romanzo con Montalbano, dal titolo “La pista di sabbia”, sempre per Sellerio. L’ambientazione è quella delle corse clandestine dei cavalli, a quanto si sa.
”Sì. Quest’estate ammazzarono un cavallo sulla spiaggia di Catania. Il fatto ebbe vasta eco sulla stampa, ai telegiornali. Pare che ci fosse di mezzo la storia, l’ambiente delle corse clandestine. Un fatto di faide, di contese tra di loro. E da questo fatto di cronaca è partita la mia fantasia. Perchè poi è successo che mentre questa cosa cominciava a marciarmi in testa, mi vengo a trovare in Toscana in vacanza. In quel periodo ero immobilizzato, avevo la gamba sinistra che non potevo usare bene e una delle mie figlie mi portava in giro per la Toscana, in macchina. Si fermò davanti a un’edicola. E l’edicola esponeva una locandina con i titoli dei giornali. Io lessi un titolo de “Il Tirreno”: “Rubati sei purosangue da una scuderia del Grossetano. Servizi a pagg. 3, 4, 5, 6”: quattro pagine. Dissi subito a mia figlia: “Comprami questo giornale, che imparo tutto sui cavalli!”. E così è stato, da lì sono partito per questa nuova storia del Commissario.”