Anticipazioni per il Grande Teatroin TVdiKaminkadel
1° aprile alle 16.30 su Rai 5: “La solitudine di un portiere” con regia di
Andrea Camilleri–
Per il Grande teatro in TV andrà in onda oggi su Rai 5 lunedì 1° aprile alle
16.30 “La
solitudine di un portiere”di
Didier Kaminka, diretto da Andrea Camilleri nella versione Rai andata in onda
nell’agosto 1978. Mariano Rigillo interpreta il monologo in
cui viene esplorata la professione del portiere descrivendone sia i lati
positivi che quelli negativi e le frustrazioni derivanti dall’attesa che qualche
giocatore tiri nella sua porta
[…]
La Stampa, 3.4.2024
La classe media vista da Camilleri
Torna in libreria il romanzo più bizzarro e disincantato dello scrittore
siciliano.
Il racconto di vecchi amici che incarnano la meschinità della piccola borghesia Pubblichiamo un estratto della Nota inedita di Lagioia alla nuova
edizione di Un sabato, con gli amici di Andrea Camilleri (Sellerio)
Lo scrittore Andrea Camilleri (1925-2019) ritratto dallo street artist Tvboy a
Taormina, in Sicilia
Il 15 settembre del
1984, dal Teatro Antico di Taormina, durante la sua ultima apparizione pubblica,
Eduardo De Filippo tenne un discorso diventato celebre. Non pronunciò parole
facili da maneggiare, né da ricevere. Dopo aver parlato del proprio carattere
difficile, De Filippo affrontò il tema delle sue abitudini. Disse che il figlio
Luca (anche lui attore e regista), nonostante il cognome che portava, aveva
fatto la gavetta, era venuto su dal nulla sotto il gelo delle abitudini paterne.
Su questa parola, gelo, Eduardo si soffermò in modo stentoreo. «È stata tutta
una vita di sacrifici e di gelo! - disse - così si fa il teatro, così ho fatto». Tra i figli putativi
di Eduardo c’era Andrea Camilleri. Nel 1960 Camilleri fu incaricato da Maurizio
Ferrara, un funzionario di Rai2, di curare come delegato alla produzione la
prima serie televisiva tratta dalle commedie di Eduardo. Camilleri vide Eduardo
alle prese con gli attori, gli scenografi, gli addetti del centro di produzione,
i piccoli censori della tv di Stato. Il grande drammaturgo e il futuro
romanziere strinsero un buon rapporto. «Tutti i registi sono cattivi - ebbe a
dire Camilleri - Eduardo probabilmente era esplicitamente cattivo, ma torno a
dire che era una cattiveria mirata, per tirare fuori dall’attore i suoi
personaggi». Il teatro. La cattiveria. Il gelo. Sono queste le forze che muovono
Un sabato, con gli amici, romanzo che Camilleri pubblicò nel 2009, quando
il successo lo aveva reso già da tempo lo scrittore più popolare d’Italia e la
morte era lontana dieci anni. A chi ha conosciuto
Camilleri attraverso le storie di Montalbano, Un sabato, con gli amici
risulterà un libro totalmente imprevisto nella sua oscurità, un romanzo duro,
perfino disturbante, un viaggio nelle tenebre della normalità borghese, in
Italia, all’inizio del XXI secolo. Come agiscono su di
noi i traumi infantili? Quanto ci si può guastare nel passaggio dalla giovinezza
all’età adulta? Questa storia ruota intorno a una delle più equivoche abitudini
borghesi: la rimpatriata. Un gruppo di amici si rivede dieci anni dopo la fine
dell’università, vent’anni dopo la fine del liceo. Oppure, un amico di cui tutti
avevano perso le tracce ricompare dal nulla dopo tempo, fa irruzione nelle vite
di chi ha continuato a frequentarsi o non è riuscito a farne a meno. Solo chi ci
ha visti durante gli anni della formazione ci conosce davvero, solo con lui o
con lei scatta (anche se non lo vogliamo) un’intimità profonda, a volte
imbarazzante. Con quali occhi ci si rivede? Che cosa sono diventati il dolore,
le speranze, le paure che avevano caratterizzato la nostra giovinezza? Quali
virtù sono rimaste intatte? E quali guasti, allora germinali, sono cresciuti a
dismisura? Soprattutto: che tipo di segreti legano gli amici di vecchia data?
Tra chi si conosce da un pezzo c’è quasi sempre un patto di riservatezza. Quei
segreti sono a volte terribili. Il patto diventa allora una bomba inesplosa. A partire dalla
seconda metà del Novecento, sono molte le letterature nazionali (e le
cinematografie) che si occupano della questione. Con esiti e poetiche diversi.
Negli Stati Uniti, ad esempio, è facile pensare a It di Stephen King o a
Pastorale americana di Philip Roth. Un horror e un romanzo sociale, due
generi lontani tra loro, accomunati da una medesima vibrazione di fondo: la
nostalgia, la tenerezza (al limite un dolente e affettuoso senso del ridicolo)
con cui King e Roth guardano i propri personaggi diventati adulti alle prese con
gli amici di un tempo. Alcuni sogni sono infranti, d’accordo, ma verso le
imperfezioni (e la fragilità) del camminare verso la vecchiaia (nel presagire,
per la prima volta, la fine) c’è una quieta compassione. Nei casi estremi, il
potere annichilente della tragedia travolge – nobilitandoli – alcuni di questi
personaggi. In Italia, niente di
tutto questo. La tragedia ci è preclusa, la commedia non è quella di Billy
Wilder. La commedia all’italiana è molto più dura, cattiva, sferzante,
irriverente di qualunque genere analogo proveniente da altri Paesi. L’assoluta
mancanza di autoindulgenza ci distingue. È una mancanza ammirevole e sospetta. E
quale canovaccio segue, di solito, la commedia della rimpatriata all’italiana?
Se altrove diventare adulti significa fare (anche dolorosamente) i conti con i
propri limiti e fallimenti, in Italia vuol dire constatare la trasformazione dei
ragazzi di un tempo in veri e propri mostri, e in un modo così conclamato,
sbracato, assordante, ustorio, irredimibile da lasciare attoniti. Basti pensare
a Compagni di scuola, film di Carlo Verdone del 1988, tra i meno
scanzonati (e tra i più riusciti) del regista romano. In modo analogo, gli ex
ragazzi di Un sabato, con gli amici, sono uomini e donne di buona
presenza, vivace intelligenza e discreta posizione sociale a cui gli anni hanno
infuso una dose di cinismo, malevolenza, perfidia, e uno sfrenato individualismo
difficili da trovare in altri contesti. Ricatti, vendette, doppiogiochismi,
esche e trappole pronte a scattare, il tutto allestito tra studi professionali
ben avviati, uffici di rappresentanza e scannatoi nascosti nei quartieri
residenziali: viene in mente il più tagliente dei secoli, il Settecento, e la
cattiveria adamantina di Pierre de Laclos. Ma perché Camilleri
allestisce, intorno a questi personaggi, e in modo così chirurgico e spietato,
il suo teatro della crudeltà? Tra le diverse, ho rintracciato almeno tre ragioni
degne di nota. La prima riguarda il disprezzo, cioè l’opinione che Camilleri
doveva essersi fatto del popolo italiano all’inizio del XXI secolo. O,
perlomeno, di una sua particolare rappresentanza. Lo scrittore di Porto
Empedocle aveva visto il fascismo da ragazzo (il cui disastro, non si stancava
di ripetere, gli era sembrato pari solo al ridicolo di cui il regime era
riuscito a circondarsi), ma aveva vissuto poi da giovane uomo la nascita della
democrazia e del suffragio universale, il protagonismo dei partiti popolari, il
riscatto degli umili, la conquista di diritti a lungo negati, il boom economico,
la trasformazione di un paese arretrato in una potenza moderna. Aveva riposto
speranze nel comunismo italiano, Camilleri, ma aveva creduto in modo ancora più
intenso nella possibilità che gli italiani (da sudditi, sottoposti, conquistati,
obbligati a saltare nei cerchi infuocati) diventassero un popolo libero,
affrancato. Lui stesso (da scrittore, drammaturgo, insegnante, intellettuale,
artista, quando l’arte era considerata istituzionalmente una forza emancipativa)
aveva fatto la sua parte in questo lungo e appassionato cammino. Solo che poi
qualcosa aveva cominciato ad andare storto.
«Ce l’avevamo quasi fatta, a diventare un popolo». È una frase attribuita al
Mario Monicelli degli ultimi anni. Non è detto l’abbia davvero pronunciata lui,
ma rende l’idea. L’arrivo del nuovo secolo e, ancora più, qualche anno addietro,
il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha segnato (per dirla questa
volta con Umberto Eco) l’evidenza di una marcia a passo di gambero. Il tracollo
della classe politica con la politica ridotta a farsa e mercato, l’ingiustizia
sociale di nuovo galoppante, la crisi economica e l’ancora più evidente
smarrimento sociale e civico si sono fatti sempre più evidenti, la volgarità più
conclamata, la gente comune di nuovo tentata dal diventare plebe. Questa
ennesima mutazione ha trovato presto i suoi nuovi protagonisti, una nuova classe
se non di privilegiati (il potere vero è altrove) di galleggianti. Sono i
personaggi che mette in scena Camilleri in questo libro. Non sono più le facce
in bianco e nero del neorealismo, non gli irresistibili gradassi del boom, non
le masse rivoluzionarie, non i grandi notabili o i mafiosi e nemmeno quel certo
tipo di borghesia «con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste
disperazione» elogiata da Marco Pannella. Piuttosto, sono i discendenti ripuliti
di quegli «avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi» di cui scriveva
Pier Paolo Pasolini nella Ballata delle madri, i rappresentanti di una
nuova classe media, istruiti, aggiornati, disinvolti, ma divorati da una
terrificante amoralità che rischia di diventare la modalità emotiva standard del
paese. Tutta la simpatia che Camilleri riserva altrove ai suoi commissari, agli
ispettori capo, ai centralinisti, ai giornalisti locali, alle donne coraggiose,
agli arrangiati e ai rubagalline qui è assente. C’è una grande differenza tra
gente comune e uomo medio. La gente comune può ancora farsi popolo, l’uomo medio
no. «Sa cos’è un uomo medio?» (questo è sempre Pasolini, attraverso la bocca e
il corpo di Orson Welles ne La ricotta), «è un mostro, un pericoloso
delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista».
Nicola Lagioia
Nasce a Marsala la
“N.O.M.E.A. Produzioni” e dà il via alla realizzazione di spettacoli teatrali e
musicali: si parte il 10 aprile con “Lilith” e si prosegue con “Vigata Tour”. Un primo
spettacolo che mette al centro la donna “disobbediente” per eccellenza e un
altro che assicura una full immersion nel mondo delle opere storiche di Andrea
Camilleri sono i primi due eventi organizzati dall’associazione culturale
“N.O.M.E.A”. “Si tratta di una sigla – spiega il fondatore Peppe Li Causi che
sta per: Nuovi Orientamenti Musical Entertainment Academy. Lo scopo è quello di
produrre e organizzare manifestazioni teatrali/musicali, culturali, ricreative,
cinematografiche, rassegne, festival, conferenze, concorsi, premi, saggi,
mostre, concerti, musical e ogni altra forma di spettacolo legata alla musica e
alla cultura”. […]
Il secondo spettacolo in programma, mercoledì 24 aprile alle ore 21,00, sempre
nel teatro comunale, è “Vigata Tour” costruito – spiega il regista Peppe Li
Causi – su alcuni testi tratti dalle opere cosiddette “storiche” di Andrea
Camilleri, sottoposte ad una elaborazione tale da configurarle come le tappe
cruciali di un discorso teatrale unitario. Due professori universitari del Dams,
nella prima parte dello spettacolo, e due alunni, nella seconda parte, ci
faranno entrare nel mondo camilleriano. L’elaborazione consiste, in prima
istanza, nella sceneggiatura degli episodi scelti, in modo da essere
rappresentati come se si trattasse di testi propriamente teatrali. Qui la natura
essenzialmente ritmico-musicale della scrittura camilleriana dove la musica, che
pure ha una sua autonoma fisionomia nell’articolarsi del lavoro, non accompagna
soltanto, né fa da sottofondo, ma diventa una realtà essenziale perché tutto ciò
che sta nel testo camilleriano, e sotto la sua superficie, possa compiutamente
esprimersi attraverso il compenetrarsi della musica insita nelle strutture
stilistiche dell’autore con quella creata, in questo caso, da Vincenzo Li Causi,
autore di alcune delle musiche di sottofondo”.
Adattamento testi di Calamia-Dixon-Li Causi, lo spettacolo si realizza con la
regia di Peppe Li Causi e si avvale delle musiche originali di Vincenzo Li
Causi. Questi gli interpreti: Raffaele Muti, Antonio Lungo, Tommaso Rallo,
Andrea Figlioli, Marilena Colicchia, Laura Saladino, Stefania Parrinello, Nadia
Zannelli, Angela Alagna, Gianpiero Soperga, Alessandro Patito, Loredana Salerno.
Prima dello spettacolo serata, Vigata Tour sarà proposto nella stessa giornata,
come matinée per le scuole.
[…]
Famiglia Cristiana,
4.4.2024
Antonio Sellerio: «Camilleri è vivo e torna con un romanzo storico»
Parla il figlio di Elvira, che ha preso in mano le redini della casa editrice
siciliana: «I suoi libri sono un esempio unico nella letteratura italiana di
scrittura coltissima e popolarissima allo stesso tempo. La voce del loro autore
tornerà a farsi sentire con un'opera postuma»
[Dal testo dell’intervista non si evince nulla sulla pubblicazione di
un’opera postuma, che peraltro non ci risulta esistere, NdCFC]
Nell’ultima decade
di maggio del 1984 Andrea Camilleri pubblicò la sua prima opera con la casa
editrice Sellerio. Il titolo del romanzo storico, Una
strage dimenticata, si riferiva a un doppio eccidio di contadini e
detenuti durante i moti siciliani del 1848. Camilleri evidenziò come l’oblio
sarebbe stato voluto sia dai Borbone sia dai Savoia. Nella prima
metà di marzo del 1994, invece, lo scrittore pubblicò – sempre con Sellerio – la
sua prima inchiesta del commissario Salvo Montalbano: La
forma dell’acqua, un giallo ironico ambientato nel sistema di potere
politico-mafioso dell’immaginaria Vigàta, con un susseguirsi di delitti
eccellenti.
Su questi due importanti anniversari letterari abbiamo intervistato Antonio
Sellerio, direttore editoriale della storica casa
editrice palermitana (animata anche dalla sorella Olivia, cantautrice, che ha
composto, tra l'altro, le canzoni delle ultime stagioni delle fiction Il
commissario Montalbano e Il giovane Montalbano). Per l’occasione,
Antonio Sellerio ha annunciato la pubblicazione del romanzo Un
sabato, con
gli amici, scritto da Camilleri oltre 15 anni fa, ambientato nella
società borghese non siciliana e accompagnato da una nota dello scrittore Nicola
Lagioia.
Chi propiziò il debutto di Camilleri con voi? «Andrea
Camilleri è arrivato nella nostra casa editrice grazie a Leonardo Sciascia. Nei
primi anni Ottanta, stava preparando la sceneggiatura della miniserie
televisiva Western
di cose nostre, tratta da un racconto dello stesso Sciascia. Dopo
avere trovato documenti su una incredibile strage dimenticata avvenuta a Porto
Empedocle nel 1848, Camilleri li consegnò al grande scrittore racalmutese
proponendogli di trarne una delle sue celebri cronache. Sciascia – che conosceva
e riconosceva il talento letterario del suo conterraneo – lo spinse a
occuparsene direttamente, assicurandogli che, una volta completato il libro, ne
avrebbe caldeggiato la pubblicazione a mia madre, Elvira Sellerio».
Trent’anni fa, invece, la Sellerio pubblicò il primo giallo di Camilleri sul
commissario Montalbano, dal titolo La
forma dell’acqua.
Quale fu la genesi del romanzo? «Si trattò di
un romanzo molto “sciasciano”, forse diverso dagli altri della serie; Camilleri
lo pensò come un unicum. Tuttavia, terminata l’opera, si accorse che aveva
ancora molto da dire riguardo a quel poliziotto e così volle scrivere anche Il
cane di terracotta. A quel punto, Camilleri si sarebbe voluto
fermare, ma mia madre lo convinse allora a continuare la serie e, a poco a poco,
il pubblico non solo si consolidò ma crebbe fino a farlo diventare un fenomeno
unico nella storia editoriale italiana».
Cosa ha rappresentato, dunque, Andrea Camilleri per la letteratura italiana, per
la storia italiana e per la casa editrice Sellerio? «Un esempio
unico di scrittore coltissimo e popolarissimo! Pochi conoscevano, al suo
livello, la poesia e il teatro, la letteratura contemporanea e quella classica,
gli scrittori di genere e quelli più sperimentali. E questa sua incredibile
cultura l’ha riversata in migliaia di pagine di lettura piacevole e raffinata.
Era un profondo indagatore dell’animo umano e della società italiana. Pochi
hanno avuto un impegno civile pari al suo, pochi scrittori sono stati così amati
quanto lo era lui, talvolta persino da chi aveva opinioni politiche opposte alle
sue… Per noi è stato un successo irripetibile, ci ha fatto conoscere anche da un
pubblico che fino a quel punto non avrebbe acquistato un oggetto raffinato come
i nostri libri blu. È stato anche l’emblema del modo di lavorare di mia madre:
percorrere strade nuove (il romanzo in una lingua inventata), percorrerle fino
in fondo a prescindere dall’immediato successo».
Quali ricordi personali di Camilleri conservate in famiglia? «Era una
persona straordinaria, meravigliosa. Era affascinante, generoso di sé,
disponibile, corretto… Ed era forse la persona più divertente che abbia mai
incontrato. Ma era un lavoratore incredibilmente serio, sempre puntualissimo
nelle consegne e negli appuntamenti. Lavorare con lui, sui suoi libri e per i
suoi libri, è stato un privilegio per il quale io, mia sorella Olivia e tutte le
persone che lavorano e hanno lavorato in questa casa editrice non finiremo mai
di essergli grati».
Pietro Scaglione
“Un sabato, con gli amici”:
si intitola così l’opera di Andrea Camilleri appena pubblicata da Sellerio. Si
tratta di un romanzo storico ambientato nella società borghese al di fuori della
Sicilia. Un regalo bello e inatteso, questo, per i tantissimi lettori che ancora
non si rassegnano alla morte del grande scrittore siciliano. L’opera, pubblicata
la prima volta da Mondadori nel 2009, è ora arricchita da una nota di Nicola
Lagioia, che scrive: <<Andrea Camilleri, in questo romanzo così attuale e
luccicante, sembra dirci: attraversate questa porta, seguitemi giù per le scale,
lì in fondo, non appena si fa buio, c’è qualcosa che riguarda anche voi>>. Ad annunciare la
pubblicazione postuma [in realtà si tratta di una riedizione, NdCFC] di
questo romanzo è Antonio Sellerio, direttore editoriale dell’omonima casa
editrice palermitana, in occasione di un’intervista al settimanale Famiglia
Cristiana. <<Camilleri – spiega Sellerio – era un esempio unico di
scrittore coltissimo e popolarissimo! Pochi conoscevano, al suo livello, la
poesia e il teatro, la letteratura contemporanea e quella classica, gli
scrittori di genere e quelli più sperimentali. E questa sua incredibile cultura
l’ha riversata in migliaia di pagine di lettura piacevole e raffinata. Era un
profondo indagatore dell’animo umano e della società italiana. Pochi hanno avuto
un impegno civile pari al suo, pochi scrittori sono stati così amati quanto lo
era lui, talvolta persino da chi aveva opinioni politiche opposte alle sue… Per
noi è stato un successo irripetibile, ci ha fatto conoscere anche da un pubblico
che fino a quel punto non avrebbe acquistato un oggetto raffinato come i nostri
libri blu. È stato anche l’emblema del modo di lavorare di mia madre: percorrere
strade nuove (il romanzo in una lingua inventata), percorrerle fino in fondo a
prescindere dall’immediato successo>>. Sellerio
nell’intervista sottolinea anche l’estrema precisione di Camilleri: <<Era una
persona straordinaria, meravigliosa. Era affascinante, generoso di sé,
disponibile, corretto… Ed era forse la persona più divertente che abbia mai
incontrato. Ma era un lavoratore incredibilmente serio, sempre puntualissimo
nelle consegne e negli appuntamenti. Lavorare con lui, sui suoi libri e per i
suoi libri, è stato un privilegio per il quale io, mia sorella Olivia e tutte le
persone che lavorano e hanno lavorato in questa casa editrice non finiremo mai
di essergli grati>>. D’altro canto è
stato lo stesso Camilleri a chiarire con quanto rigore affrontasse il suo
lavoro. Nel libro dal titolo “Come la penso. Alcune cose che ho dentro la
testa”, scriveva:<<Alla base di ogni scrittura c’è un paziente,
scrupoloso, estenuante lavoro di rifinitura, di correzione, di messa a fuoco, di
puntualizzazione, di calibratura che costituisce la qualità e la forza del buon
artigiano>>.
Gli artisti, quelli veri, non muoiono mai davvero. Così il genio di Andrea
Camilleri rivive all’infinito, illudendoci di essere ancora qui con noi, seduto
alla sua scrivania con quel sorriso a metà tra il bonario e il sardonico.
Maremosso –
Feltrinelli, 5.4.2024
Scelti per voi
Un sabato, con gli amici di
Andrea Camilleri
Torna in libreria, edito da Sellerio, uno dei romanzi più particolari di Andrea
Camilleri, maestro d'intrecci mosso sempre da una finalità di denuncia e da una
pressante esigenza etica. Recensione a cura di Wuz
“Si
alza dal divano e si risiede. Poi corre alla scrivania e preme il bottone del
divieto d'accesso. Torna a sedersi, si asciuga il sudore dalla fronte. È anche
peggio di quanto temesse, un brivido lo scuote. Proprio ora che è arrivato dove
voleva... Chi può avere interesse a tirar fuori quella storia?” Trama piuttosto complessa, circolare, in cui
il primo capitolo viene poi spiegato ed esplicitato dall’ultimo. In tutta la
parte centrale del romanzo di Camilleri,
riedito in questi giorni da Sellerio, il gruppo
di bambini, protagonisti e vittime di fatti narrati nel primo e ultimo capitolo, ormai
adulti e tutti in relazione tra loro, pagano
lo scotto di quei terribili traumi infantili. Romanzo molto diversoda altri dello scrittore siciliano, vera e
meritata gloria italica, che lascia forse perplesso il lettore. Diverso anche da
quel “simenionano” Il
tailleur grigio, intimista e psicologico, diverso dai romanzi
storici più noti come lo straordinario ed ormai "antico"La concessione
del telefono, diverso insomma... Maestro di trame,
maestro di intrecci, Camilleri ha qui scelto di giocare con questa sua abilità,
forse però in modo un po’ meccanico e scoperto, forse sottovalutando il lettore,
ha voluto spiegare il suo intento, chiarire nell’ultimo capitolo i singoli
traumi subiti dai vari personaggi, causa remota, ma non così oscura, dei loro comportamenti adulti. Incapaci di amare,
vittime di morbose passioni, figlisenza
padri né madri con cui rapportarsi e da cui farsi consolare,
questi giovani uomini e donne sembrano
muoversi per autodistruggersie per annientare chi sta
loro accanto. Certo lo
scrittore, mettendo insieme un intero gruppo di persone in relazione tra loro e
tutti vittime
di vari tipi di traumi infantili o di comportamenti inconsciamente deviati,
non vuole dare un quadro realistico di un vero odierno gruppo di amici, ma
mostrare come il nostro agire adulto sia inscindibilmente connesso con ciò che
ci portiamo dentro fin dall’infanzia. Un’educazione sentimentale all’incontrarioquella
esercitata dal mondo dei grandi sui piccoli...
E questo libro è un modo per spingere
il lettore a cercare dentro di sé i primi ricordi (come nel
gioco doloroso che viene fatto dal gruppo nel sabato sera citato dal titolo),
perché è là che troviamo le radici delle nostre azioni. Ed è là che, in ogni
fatto di cronaca che vede adolescenti colpevoli di orrendi misfatti, bisogna
indagare.
Nella scrittura di Camilleri c’è sempre, anche nei mitici gialli del commissario
Montalbano, una finalità di denuncia e una pressante esigenza etica e
in questo romanzo è davvero esplicita. Come possiamo insomma sperare che le
nuove generazioni vivano in modo positivo ed equilibrato, che siano socialmente
utili e disponibili al mondo se, nell’infanzia, li abbiamo violentati,
traumatizzati, fatti assistere ad ogni orrore e miseria?Come sperare nel futuro se l’eredità che
lasciamo è solo una montagna di macerie? Credo che sia questo il
messaggio più interessante di questo romanzo, che mostra quanto l'autore fosse
disgustato da ciò che vedeva tutt’attorno a sé per coltivare il solo piacere
letterario.
Ogni tanto mi piace
rivisitare i classici della letteratura poliziesca come Camilleri. Soprattutto
quando sono presentati da un certo Giancarlo De Cataldo. Trattasi di
tre racconti. Incominciamo dal primo. Troppi
equivoci Lui è Bruno
Costa, tecnico della società dei telefoni che vive da solo a Mondello.
Caratteristica peculiare la sua eccitante curiosità. Lei è Anna Zanchi discreta
bionda sui trent’anni, divorziata e laureata in lingua e letteratura ungherese
che vive in affitto al centro di Palermo. Chiaro che i due si incontreranno per
un controllo del suo telefono diventando amici e anche oltre. Tutto l’ambaradan
parte dalla chiamata di un cellulare al ristorante da loro scelto. Il cameriere
ascolta, poi chiede agli avventori chi sia il signor Zanchi richiesto. Al terzo
squillo il nostro Bruno, sopraffatto dalla citata, irresistibile curiosità,
risponde precipitando in una serie di malintesi, ovvero “in un’equivoca
avventura come il Cary Grant di Intrigo Internazionale”. Per farla breve si
troverà incasinato in un omicidio del quale sembra proprio lui il colpevole.
Speriamo che almeno questa volta sia la stessa, innata curiosità a salvarlo… Il giudice
Surra Il giudice
Efisio Surra arriva da Torino a Montelusa nel 1862. Deve rifare di sana pianta
il tribunale, togliendo di mezzo il vecchio presidente Fallarino di idee
filoborboniche per applicare il nuovo codice piemontese. Subito si parla in giro
del suo cognome come ventresca di tonno che promette bene, o come un’erba “amara
e fitusa” con effetto opposto. Da una lettera anonima viene a sapere che sono
sparite le carte istruttorie di alcune persone. E allora lui si darà da fare per
recuperarle in ogni modo, non rendendosi conto del posto in cui è capitato dove
vige la regola della Fratellanza, insomma della mafia. Tutto preso dal suo
istintivo agire e dal suo bianco candore, non si accorge nemmeno di essere
scampato per miracolo ad un attentato. Riesce addirittura a sorridere di fronte
ad un eclatante significato di una minaccia. E a far sorridere tutta quanta la
città per avere dato, senza rendersene neppure conto, “scacco matto” al capo
della Fratellanza. Il
medaglione Il
maresciallo scapolo Antonio Brancato di Belcolle è chiamato a risolvere dalla
popolazione le più svariate questioni. Fino a quando ne incontra una davvero
difficile relativa alla morte di Marta Barbato, moglie di Ciccino che si è
rinchiuso in casa e non vuole più vedere nessuno. Ha mandato via anche il
parroco del paese sparando un colpo in aria con il fucile per intimorirlo. Il
nostro maresciallo decide allora di andare lui stesso a trovarlo per capire
quale sia il problema e risolverlo. Ma non sarà facile perché dovrà vedersela
con un pericoloso latitante ed escogitare un trucco per calmare il profondo,
angosciante dolore di Ciccino. Dovuto ad un medaglione, o meglio ad una foto
custodita al suo interno… Tre racconti
dove la casualità, il Caso irrompe improvviso nella vita reale mescolando le
carte e dando luogo a incredibili personaggi che restano impressi nella memoria,
anche per merito di una scrittura esatta, spedita e sicura sfruttando pure il
caro dialetto siculo senza esagerazioni di sorta. Tre piccoli
capolavori. Buona
lettura.
Fabio Lotti
Andrea Camilleri
pubblica “Un sabato, con gli amici” nel 2009, quando i romanzi della serie di
Montalbano lo hanno consacrato già da diverso tempo nell’Olimpo dei migliori
giallisti europei. Quando il
romanzo viene dato alle stampe, sono numerosi i lettori rimasti basiti ad una
prima lettura. “Un sabato, con gli amici” non somiglia a nessun altro titolo
nato dalla penna di Camilleri: né ai gialli che vedono protagonista il
commissario vigatese, né ai colorati romanzi storici del calibro de “Il re di
Girgenti”. “Un sabato,
con gli amici” è misterioso, cupo, avvolto da un’aura di non detto che emerge
poco a poco, affiorando da un passato che sembrava cancellato, svanito nel
nulla. Si tratta di
una narrazione che salta dal presente al passato grazie ai ricordi d’infanzia
dei protagonisti che, per via di un improvviso evento traumatico, tornano a fare
i conti con realtà che avevano seppellito davvero bene, nel profondo del loro
cuore. La
sinossi di “Un sabato, con gli amici” “Un
sabato, con gli amici” è il romanzo più sorprendente di Camilleri, pubblicato
per la prima volta da Mondadori nel 2009. Non è un giallo. Anche se l’ingombro
di un cadavere non manca, con gli interrogativi che pone, in margine a un finto
quanto torbido tentativo di ricatto. E neppure
difetta, il non giallo, di una forte tensione narrativa: subito inaugurata in
copertina da quel segnale d’allarme dato dalla virgola del titolo che rende
quanto meno ambigua, se non micidiale, la qualifica di amicizia. Il romanzo è
spietato. Per esso,
Camilleri ha dismesso gli estri umoristici e i colori del vigatese. Il non
riscattabile teatro degli orrori gli ha imposto un italiano asciutto: veloce,
affilato e freddo; addirittura raggelante. Volutamente imprecisata è
l’ubicazione della storia. La città non ha nome. È astratta da ogni referenza. È solo il
luogo della composizione, in un variare di interni borghesi (completati da una
garçonnière condivisa), di un susseguirsi di dialoghi come in scene di teatro:
con scarne didascalie, che rendono agevole il transito al racconto. Sono sei gli
amici: tre uomini e tre donne in carriera. Hanno trascorso insieme gli anni di
liceo e università. Formano
adesso una comitiva esclusiva, rinsaldata da un lussuriare sostenuto dal cinismo
e dall’ipocrisia; oltre che da un convulso ricambio di letti, che disegna un
puzzle da ricomporre e continuamente aggiornare. La viziosità ha derive di
depravazione, profondamente segnata com’è da infanzie violate o da traumi mai
seppelliti. Gli amici si
danno un appuntamento settimanale. È la rimpatriata del sabato sera. Per una
volta, coinvolgono nel rito un compagno da tempo dato per disperso. L’ospite è
scomodo, socialmente diverso. È gay
dichiarato e comunista. Non ha soldi. Deve arrangiarsi. E soprattutto detiene
fotografie pesantemente compromettenti per un componente del sodalizio. Viene
trovato morto. Era caduto
accidentalmente, sporgendosi ubriaco dal parapetto del terrazzo, si convenne. Il
provvido tonfo aveva liberato la trista brigata, chiusa e refrattaria che,
indisturbata, poteva continuare a ravvolgersi su sé stessa. Ma chi aveva dato la
spinta, se spinta c’era stata? Chi era
Andrea Camilleri Papà del
Commissario Montalbano, Andrea Camilleri è stato fra gli scrittori più amati del
nostro tempo. Con il suo
stile colto e la sua arguzia ha saputo farci innamorare della sua scrittura, del
suo linguaggio e delle storie che raccontava. Nato il 6
settembre del 1925 a Porto Empedocle, Andrea Camilleri non è stato soltanto uno
scrittore, ma anche un drammaturgo, un autore teatrale e televisivo, un regista
radiofonico, ed infine un apprezzato accademico. Oltre alla
serie per cui è conosciuto in tutto il mondo – quella che vede protagonista
l’arguto, affascinante, sempre affamato di buon cibo e di verità, Commissario
Montalbano -, Andrea Camilleri ha scritto opere di grande spessore, che
appassionano per l’incredibile uso della lingua, un simil siciliano che ha il
merito di avvicinare il lettore al luogo dove le storie sono ambientate, e per
le trame, intrecciate con sopraffina maestria, indissolubilmente legate al
territorio siciliano. Basti pensare
al capolavoro “Il re di Girgenti“, un romanzo pubblicato nel 2001 da Sellerio,
ambientato nel Seicento e scritto in una lingua, un siciliano misto allo
spagnolo, concepita ad hoc per ricostruire l’atmosfera dell’epoca. Ma lo
ricordiamo anche per essere stato un militante antifascista armato da sempre del
potere salvifico della parola. Malgrado fosse afflitto da cecità e da gravi
condizioni fisiche negli ultimi anni, Camilleri non si abbandonò mai al
dolore. Dove non riuscivano ad arrivare i suoi occhi, c’erano le sue parole,
sempre giuste, calibrate, perfette lì dove si trovavano. Ci ha lasciati il 17
luglio del 2019, a Roma. Nicoletta Migliore
Anche questo giallo con
protagonista il commissario Montalbano mi ha catturato. Mi sto affezionando al
personaggio, rude e sensibile al tempo stesso, e a tutti i suoi collaboratori. L’indagine è molto
complicata e quello che si scoprirà è a dir poco agghiacciante. Il viso del
diavolo che appare in copertina, la rappresentazione del male in assoluto,
descrive bene la sensazione che mi ha colto alla soluzione del caso. Persone
insospettabili, per brama di potere e possesso di beni materiali, possono
compiere atti efferati e contro ogni principio di umanità. Un po’ di difficoltà
nella comprensione di alcuni termini in stretto dialetto siciliano ce l’ho
ancora, ma va già molto meglio. Sto procedendo in
ordine sparso nella lettura del commissario Montalbano, ma il prossimo che
leggerò sarà il primo della serie: “La forma dell’acqua”. Perché, adesso che
l’ho scoperto, un “Montalbano” ogni tanto è un alito di vento di mar
Mediterraneo che mi porta mistero, amore e riflessione.
Loretta Rainato
C’è qualcosa di peculiare nel
mondo della scrittura nera, che caratterizza la branca rispetto al resto della
letteratura italiana, ed è una specie di sindrome di Peter Pan che serpeggia tra
gli autori ogni volta che si ritrovano insieme. Non cambia niente
la solennità dell’occasione, la rilevanza del festival internazionale o
l’importanza del ricevimento al quale siamo invitati: metteteci insieme, e
avrete una classe di liceo in gita che non vede l’ora di fare scherzi e di
divertirsi. Tutto, purché nessuno si sogni di prendersi sul serio. Soprattutto,
a ben guardare noterete l’assenza di rivalità. Eppure scriviamo degli stessi
argomenti, delle stesse paure e delle stesse perversioni. Dovremmo essere in
aperta lotta fra di noi, anche perché le vendite e le classifiche ci ospitano
gentilmente nei piani alti e i grandi premi letterari e le riviste di raffinata
critica ci snobbano con livida evidenza. Allora per quale motivo non solo non ci
odiamo, ma siamo per la massima parte amici e ci rispettiamo o proviamo
addirittura affetto reciproco? Il motivo esiste,
ha un nome e cognome e io l’ho incontrato personalmente. Ho avuto anzi la
fortuna di essere suo amico, e di frequentare la sua casa. Una bella
sorpresa Una decina di anni
fa mi ritrovai a presentare un romanzo a Roma in occasione di un bellissimo
festival con due grandi scrittori, miei amici, e un famoso, malcapitato
giornalista che faceva da moderatore. Definisco malcapitato il giornalista
perché quei due criminali di Alessandro Robecchi e Antonio Manzini, col conforto
del sottoscritto (confesso, esibii il peggio di me nell’occasione), diedero
luogo a uno dei dibattiti più surreali e divertenti che io abbia mai avuto la
ventura di ascoltare. Un sacco di risate, il folto pubblico in visibilio e il
moderatore che ebbe l’intelligenza e la sensibilità di cedere presto le armi, e
di lasciarci fare e dire quello che ci veniva sul momento. Al termine
dell’incontro, alla fine della fila di spettatori che venivano a farsi dedicare
una copia, mi ritrovo due belle signore che mi fanno immeritati complimenti e mi
dicono che quando l’editore regala loro i miei romanzi c’è una simpatica gara a
chi li legge per prima. Io chiedo, conoscendo la scarsa abitudine degli editori
a questo tipo di elargizioni domiciliari gratuite: e come mai vi mandano i libri
a casa? E loro rispondono, come fosse la cosa più normale del mondo: sa, noi
siamo le figlie di Andrea Camilleri. Ora dovrei
spiegarvi l’effetto per un lettore appassionato e innamorato del corpus
integrale di un autore il trovarsi di fronte alle sue due figlie. Prima di tutto
scopri che in effetti l’uomo esiste realmente, in forma fisica, come spiegato
con chiarezza dalla epigonica presenza della sua progenie. Poi pensi che i tuoi
romanzi, assolutamente non all’altezza, arrivano in quella casa e magari
transitano per quelle mani. Infine, che quei due splendidi sorrisi rappresentano
un modo per mandare un deferente, umile saluto a quel Gigante. In via Asiago Colsi al volo
l’occasione, e mi sentii candidamente rispondere che sarebbe stato per loro un
piacere, e certamente anche per il papà, se fossi passato per casa a salutarlo. Glissiamo sulle
reazioni psicosomatiche (il vuoto allo stomaco, il tremore delle mani, il sudore
sulla fronte) che ebbi, con grande gusto di quei due disgraziati di Manzini e
Robecchi che, maledetti, erano già frequentatori abituali di casa Camilleri. A
me stava prendendo un colpo. Battei il ferro caldo e rimandai il Frecciarossa
che mi aspettava, per fiondarmi in via Asiago. Cominciò così il
mio rapporto di amicizia con Andrea. Lo so, dovrei
parlarvi della grandezza di un autore che è l’italiano che ha venduto più copie
nel mondo dopo un certo Dante Alighieri, che pure è partito con qualche anno di
vantaggio. Dovrei parlarvi di quello che per me, e spero non solo per me, è
nettamente il più grande narratore che ha operato in questo Paese negli ultimi
cinquant’anni. I gialli sui
comodini Dovrei ribadire
che è stato lui a portare il romanzo criminale italiano dalle edicole alle
librerie, e poi sui comodini, richiamando alla lettura centinaia di migliaia di
connazionali che avevano abbandonato questa pratica da decenni o che forse non
avevano mai letto nulla. Dovrei indicare in lui l’autore che ha inaugurato e
indicato la strada all’utilizzo, da parte della televisione generalista, della
letteratura contemporanea per produrre fiction di universale, amplissimo e
consolidato successo. L’ironia e gli
aneddoti Dovrei discutere
dell’importanza dell’impegno civile degli intellettuali, e di quanto manchi
l’autorevolezza della sua voce forte e tagliente anche se sempre pacata. Dovrei spiegare
che il suo modo di raccontare il territorio, seguito da tutti noi dopo di lui,
ha creato quel movimento per il quale, come vi dicevo, non c’è alcuna rivalità
perché ognuno ha il suo pezzo di Italia da descrivere, che non somiglia a nessun
altro. Ma se dicessi
tutto questo, poco apporterei di nuovo alla conoscenza che tutti avete di
Camilleri e di quello che, se vi viene voglia di approfondire, troverete in
centinaia di siti web. Quello che potrei invece dirvi è della persona che ho
incontrato, con cui ho parlato e mangiato, e che soprattutto ho avuto la grande
fortuna di ascoltare. Avrete capito che
ho conosciuto Andrea quando era già prossimo ai novant’anni. Nella maggioranza
dei casi sarebbe stato un grave limite, per l’annebbiamento che colpisce la
quasi totalità delle persone dopo una certa età. Nella fattispecie è stata
invece una immensa fortuna, perché alla sterminata cultura, all’enorme e
variegatissima aneddotica e all’ingente quantitativo di ricordi facevano
supporto un’intelligenza limpidissima e affilata, un’ironia così acuta e tutta
siciliana da aver bisogno di massima concentrazione per essere gustata fino in
fondo e una sensibilità e un’attenzione all’interlocutore come mai mi è capitato
di incontrare (e ho i miei anni anch’io, sia chiaro). Una vita da
argonauta Non parlava mai di
sé come scrittore, come autore, come operatore culturale. Non prendeva mai a
oggetto dei racconti la sua indiscutibile importanza, e il valore di quello che
aveva fatto, come sarebbe stato facile e come forse io, che ero un bulimico
fruitore delle sue storie, avrei preferito. Parlava di sé come
argonauta, come testimone. Come passeggero di una nave che aveva percorso molto
mare, e delle tante enormi persone che aveva incontrato. Simenon, Eduardo,
García Márquez avevano in quelle meravigliose storie elargite con immensa
generosità a tavola con Rosetta, Betta, Andreina, Mariolina, Guido, Arianna e
Paola pari rilevanza di compagni di scuola di Porto Empedocle, impresari
teatrali milanesi e improbabili presentatori di romanzi incontrati in giro per
il mondo. Era l’uomo dall’egocentrismo più decentrato che abbia mai conosciuto. Potrei dirvi di un
tono di voce calmo, arrotondato e sereno: il contrario dei racconti costruiti
con la variazione dei toni tesa a colpire gli ascoltatori. Eppure era
impossibile distogliere l’attenzione, impossibile distrarsi, impossibile
perdersi dietro alle immagini che pure evocava a decine. Si restava catturati,
in balia di quelle onde calme e oscure come il mare estivo di notte, di
quell’accento primordiale, di tutto quel passato che era identico al presente e
al futuro. Potrei dirvi di quella volta che mi spiegò che essere ciechi è una
fortuna, perché il ricordo delle cose è sempre più bello delle cose stesse; ma
che l’unica cosa di cui aveva nostalgia era la lettura, perché se accarezzare il
volto della moglie, delle figlie e dei nipoti aveva maggiore bellezza che
vederli, una pagina ascoltata non sarà mai come quella percorsa in autonomia. Potrei dirvi di
quando mi disse che da grande, lui che era un ragazzo, avrebbe voluto solo
sedersi sul bordo della fontana del suo paese e raccontare una storia, e poi
girare con la coppola per raccogliere il giusto prezzo, fumare l’ennesima
sigaretta, e poi raccontare un’altra storia. Che è quello che ogni raccontatore
di storie deve fare, né più né meno. Come faceva lui,
il più grande di tutti, non abbastanza celebrato, non abbastanza ricordato. Che
a me manca tanto, e ogni giorno di più.
Maurizio de Giovanni
Quando, nel 1979, Piero Guccione (1935-2018) decise di far ritorno da Roma, dove
era già divenuto un pittore di successo, nella nativa Scicli, in provincia di
Ragusa, Andrea Camilleri (1925-2019) non aveva ancora creato il personaggio del
Commissario Montalbano. Siciliani entrambi, Guccione e Camilleri, hanno
riportato le rispettive arti nello stesso quadrante dell’isola da cui
provenivano, quello Sud-orientale, rivolto, come diceva Pirandello, verso il
«mare africano». La solitudine che si avverte nelle indagini di Montalbano,
proiezione dello spirito del suo autore, ma anche la simbiosi con la natura e la
cucina locali, sono le stesse della luce dei paesaggi e delle marine di
Guccione, che un grande critico come Jean Clair ha giudicato il più
significativo e compiuto pittore italiano fra il XX e il XXI secolo.
Trent’anni fa usciva
a Palermo, per la casa editrice Sellerio, il romanzo “La forma dell’acqua” di
Andrea Camilleri, il primo nel quale compare il commissario Salvo Montalbano,
uno dei personaggi - sia della letteratura che del piccolo schermo - più amati
degli ultimi decenni. I ventotto
romanzi che raccontano le avventure del poliziotto di Vigàta, cittadina
immaginaria della Sicilia che in realtà ricorda molto Porto Empedocle, hanno
appassionato milioni di lettori di tutte le età e poi, diventati serie
televisive, sono stati tra i prodotti televisivi più apprezzati dell’ultimo
trentennio, venduti e trasmessi poi in diverse nazioni. Il fenomeno letterario
creato dai libri di Camilleri è stato un caso senza precedenti, almeno in epoca
moderna nel nostro Paese, riuscendo anche a trasformarsi in un volano per il
turismo e per l’economia di un’intera zona della Sicilia. Da tutta Italia, e non
solo, in tanti hanno viaggiato in lungo e in largo per cercare i luoghi più
autentici raccontati dallo scrittore, capace non solo di regalare un ritratto
indimenticabile del protagonista, alle prese con le proprie contraddizioni e con
quelle del suo tempo, ma anche di trasformarsi nell’erede naturale dei grandi
autori siciliani del passato. Trent’anni
fa, dunque, prendeva forma quel microcosmo letterario intriso di fascino e
contraddizioni. “La forma dell’acqua” si configura come un giallo avvincente che
intreccia suspense, umorismo e riflessioni profonde sulla natura umana. La
trama, poi trasposta magistralmente sullo schermo da Luca Zingaretti, ruota
attorno all'omicidio di un uomo, Franco Mannino, trovato senza vita in una vasca
di acqua sorgiva. Le indagini del Commissario Montalbano lo conducono in un
labirinto di segreti e bugie, dove nulla è come sembra. I personaggi che ruotano
attorno alla vittima, dalla moglie al socio in affari, celano ombre e sospetti,
alimentando il mistero e la tensione narrativa. Ma è nella
descrizione di Vigàta e nell’affresco della Sicilia degli anni Novanta che
Camilleri fa centro, attirando su di sé prima la curiosità dei lettori più
attenti e poi un numero sempre più alto di appassionati. Dai vicoli pittoreschi
dei piccoli centri abbarbicati sulle colline, ai bar affollati da personaggi
eccentrici, con un richiamo costante alle tradizioni locali e usando con
sapienza il dialetto per aumentare l’autenticità e il realismo dell’opera. Ma il grande
segreto del successo del primo racconto sta nel suo protagonista assoluto, il
commissario Montalbano, un uomo complesso e affascinante. Ma se nell’immaginario
collettivo l’investigatore ha ormai il volto di Zingaretti, in realtà lo
scrittore – come rivelato poi in un’intervista – svelò che il suo personaggio,
per come l’aveva immaginato, era molto simile nei lineamenti al professor
Giuseppe Marci, all’epoca docente di Filologia Italiana e Letteratura Sarda
dell’Università di Cagliari. Così con “La
forma dell’acqua”, un giallo che è anche una storia di vita, di amicizia e di
amore, lo scrittore inizia a rivelare quel mondo di immagini evocative e
espressioni in dialetto siciliano che poi hanno regalato il successo ai 27
romanzi successivi. Il titolo assume un valore simbolico profondo: l'acqua,
elemento mutevole e inafferrabile, rappresenta la vita stessa, con le sue
sfumature e i suoi misteri. La sua forma, mutevole e imprevedibile, è come la
verità che Montalbano cerca di scoprire, sfidando le ombre del male e le insidie
della corruzione. Da quel primo
racconto, per 22 anni, Andrea Camilleri sfornò una lunga serie di romanzi sempre
attesissimi e accolti con entusiasmo: da "Il cane di terracotta" a "La voce del
violino", fino all’ultimo "Riccardino". Storie avvincenti, ma soprattutto un
viaggio introspettivo alla scoperta di una terra antica, ricca di fascino e di
mistero. Con un costante alla cultura letteraria dei padri nobili di quella
terra: da Pirandello a Sciascia, Verga e Tomasi di Lampedusa. Francesco Pinna
Arriva al Teatro Garibaldi di Modica lo spettacolo “La concessione del telefono”
di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale, adattamento teatrale del divertente
omonimo romanzo dello scrittore siciliano. Sabato 13 aprile alle ore 21.00 e
domenica 14 aprile alle ore 18.30, con la regia di Giuseppe Dipasquale, l’attore
Alessio Vassallo nel ruolo di Filippo Genuardi, lo stesso interprete
dell’adattamento televisivo, insieme a Cesare Biondolillo, Franz Cantalupo, Cocò
Gulotta, Paolo La Bruna, Alessandro Pennacchio, Ginevra Pisani, Alfonso
Postiglione, Viviana Lombardo, Alessandro Romano e Valerio Santi, porteranno sul
palco tutto l’umorismo di questa commedia degli equivoci ambientata alla fine
dell’Ottocento nel suggestivo paese di Vigàta, località immaginaria che fa da
sfondo anche alle tante avventure del celebre commissario Montalbano. Nella
pièce, da una richiesta apparentemente banale – l’attivazione di una linea
telefonica da parte del signor Genuardi – si sviluppa un’opera ricca di sorprese
e dai risvolti surreali che in un susseguirsi di vicissitudini tragicomiche
racconta vizi e virtù di una Sicilia che è allo stesso tempo metafora di un modo
di essere e di ragionare, logico e paradossale. “Il giuoco della metafora c’è,
ed è imponente – si legge nelle note di regia di Giuseppe Dipasquale – Nella
Vigàta di Andrea Camilleri, si consuma una vicenda morale di ingiustizia sociale
che pertiene alla incapacità cosmica dell’individuo, e aggiungeremmo dell’essere
isolani e siciliani, di procedere al pari con la propria, semplice, coscienza di
uomini”. Il testo de “La concessione del telefono” è tra i più divertenti dello
scrittore agrigentino: tra malintesi e imbrogli, faccende personali e
burocratiche, regala momenti di grande vivacità mostrando spaccati di una
umanità sempre attuale. Produzione Teatro Biondo Palermo. “Andrea Camilleri è
uno degli autori più amati – commenta il sovrintendente, Tonino Cannata – i suoi
testi appassionano, narrando episodi, luoghi e personaggi che si muovono tra
fantasia e realtà. Questo spettacolo, ambientato sempre nella “Vigata” resa
famosa dal fortunato personaggio di Montalbano, con la regia di Dipasquale, che
ha anche curato l’adattamento teatrale proprio con Camilleri, divertirà molto il
nostro affezionato pubblico”.
"La complicidad europeísta de Jaqueline me halagabra". Ebbene, e se vi dicessi che il
primo Montalbano di tutti i Montalbani comincia con questa frase ed è spagnolo? Tutto inizia da un personalissimo
disturbo post-traumatico da stress, causato dal troppo lavoro, per cui invento
al mio capo che un mio parente già morto sta per morire l’ennesima volta e mi
servono 4 giorni liberi per raggiungere il continente per dargli l’ultimo
saluto. Il biglietto per Barcellona
ovviamente è già staccato. Lo ammetto, soffro di aerofobia e
ogni volta che prendo l’aereo saluto tutti, cane compreso, come fosse l’ultima
volta che li vedrò. In più sono uno di quei siciliani
(e me ne vergogno) che basta che stacchi il culo dalla propria madre terra, sia
anche per un salto, necessita di portarsi dentro le budella l’ultimo pezzo di
sicilianità per alleviare la saudade da distacco. Pertanto mi fermo al mio bar
preferito e acquisto un’arancina a’ccarne bella fritta, che mangerò una
volta in volo, tanto ho letto su National Geographic che: "mangiare ad alta
quota, quando la pressione di ossigeno si riduce notevolmente, soprattutto sopra
i 4000 metri, rende più difficoltoso per l'organismo trasformare in energia tali
alimenti per questo si tende a consumarne minori quantità".
Questo si traduce nel mio cervello in “ne mangerò solo metà o a male cose mi
salirà la sonnolenza da intoppo digestivo e riuscirò a dormire durante lo
spostamento”. Ovviamente non succede, anche
perché la selezione casuale dei posti Ryanair decide di collocarmi al sedile
17E, tra l’ispettore Derrik e la signora Fletcher, due turisti tedeschi che
invece di starsi a casa a guardare il gioco dei Pakken, investono il loro tempo
viaggiando per tutto il globo terracqueo 365 giorni l’anno. È a quel punto che esco dallo
zaino un Montalbano di Camilleri, che, altra fobia, leggo esclusivamente in
viaggio per lo stesso motivo dell’arancina, della saudade e blablà. Questa volta è "Il cane di
terracotta", uno dei must assoluti. Vuoi il caso, vuoi il malo
chiffare, mi imbatto in una scena (più di una) in cui Salvo Montalbano,
notevolmente più scazzato di me, per ammazzare il tempo, legge, anche lui, un
romanzo di un certo Manuel Vàsquez Montalbàn. Montalbano che legge Montalbàn? Ecco, se c’è una cosa che adoro
del maestro Camilleri è questo suo continuo infilare citazioni dotte come
fossero cazzilli fritti ad un aperitivo alla Vucciria. La cosa ovviamente mi
incuriosisce provocandomi un’erezione intellettuale a 10.000 metri di altezza. Tra una pagina e l’altra siamo
quasi arrivati e mi sovviene alla mente un altro articolo secondo cui il 46%
degli incidenti aeri avviene in fase di atterraggio (devo darci un taglio con
National Geographic!). Mi riprometto che se mai dovessi
toccare terra, la prima cosa che farò è prendere informazioni a proposito di
tale Vàsquez Montalbàn, fra l’altro esaltato dallo stesso Camilleri che con
parole al miele lo definisce: “uno che sa scrivere bene i romanzi”. Detto fatto! Dopo chilometri e chilometri senza
meta, vuoi le papole ai piedi, vuoi il vermouth spagnolo nella suggestiva Placa
de Sant Just, che non poco mi ricorda uno dei tanti angoli di Cefelù, inizio la
mia ricerca. Il culo mi assiste: Vàsquez
Montalbàn, guarda caso, nato a Barcellona nel 1939, è stato uno scrittore,
saggista, giornalista, poeta e gastronomo, famoso soprattutto per i suoi romanzi
polizieschi e vincitore di numerosi e prestigiosi premi. Se il gioco dei puntini de "La
Settimana Enigmistica" mi ha insegnato qualcosa, è che collegandoli ne verrà
fuori un’immagine chiara e nitida (si fa per dire). Il doppio vermouth mi
suggerisce che se mi trovo nella città natale di Montalbàn, allora deve esserci
per forza qualcosa che parla di lui. Il vermouth dice un sacco di
minchiate ma questa volta ci ha azzeccato, perché il legame tra lui (Montalbàn,
non il vermouth) e Camilleri è più forte di quello che si possa pensare e
stupefacente. Intanto però il pititto che sta sbummichiàndo è atavico e
necessita di essere colmato. In Spagna ogni quattro vetrine,
due sono di Mango, due di tapas. Essendo che non mi appassiona tanto la frutta
esotica, abbraccio la seconda opzione e mi butto a capofitto da Anxoita (una
trattoria che tiene la parola “anciova” nel nome non può sbagliare). Pan con tomate (pane col pomodoro
stricato), sarde salate, olive, bruschette con alici, pomodoro secco e
pistacchi. È ufficiale, sono a casa e il duodeno e l’intestino crasso si mettono
addritta per la standing ovation. È proprio Bruno, il tutto fare,
tra un vermouth servito e l’altro, a raccontarmi che Vàsquez Montalbàn è famoso
soprattuto per il suo personaggio Pepe Carvalho, divenuto un vero e proprio
simbolo di Barcellona. Pepe, con un passato da militante
antifranchista, dopo aver lavorato quattro anni per la CIA decide di mettersi in
proprio e diventare un investigatore privato. Il suo ufficio è sulla famosa
Rambla e come assistente ha Biscuter, una sorta di storpio che vive nello
sgabuzzino in compagnia di un paio di fornelli ed è un mago della cucina: un po’
come Adelina, la “cammarera”, per il nostro Salvo Montalbano. L’esistenza di Pepe Carvalho, tra
un caso e un altro, si districa sul travagliato rapporto sentimentale con la
prostituta Charo e una vita fatta di eccessi tra alcol e cibo, come se non ci
fosse un domami. Le ricette del protagonista
vengono descritte così minuziosamente e sono così famose, che lo stesso Vàsquez
Montalbàn nel 1988 scriverà un libro intitolato: “le ricette di Pepe Carvalho”. E così come Montalbano nostro non
riesce fare a meno del ristorante Da Calogero, allo stesso modo anche Pepe non
riesce a campare senza il suo Casa Lepoldo, divenuto in Spagna un vero e proprio
luogo di pellegrinaggio, ancora oggi aperto. Solo questione di coincidenze?
Solo questione di puntini collegati male? Va bene, a questo punto della
storia non resta che dirvelo. In realtà quello che legò Andrea
Camilleri a Vasquez Montalbàn non fu solo una stima intellettuale o un
gradimento per la sua penna, ma fra i due si instaurò anche una profonda
amicizia, tant’è che quando lo spagnolo venne a mancare nel 2003 a causa di un
infarto, Camilleri espresse pubblicamente il suo immenso dispiacere. Fu proprio a Vasquez Montalbàn,
dopo aver letto il romanzo “Il Pianista”, che il maestro di Porto Empedocle
volle dedicare il suo personaggio principale chiamandolo proprio Montalbano. È lui stesso a dichiararlo: «Ho
battezzato il commissario Salvo Montalbano in onore di Manuel Vàzquez Montalbàn,
il mio caro amico di cui oggi piango la scomparsa». Non solo è storia nota tra
spagnoli, ma apprendo con estremo piacere che molti di loro conoscono anche il
nostro Salvo Montalbano. Vermouth, vermouth, vermouth, il
mio viaggio purtroppo è giunto alla fine. Mi chiamano al gate, ma sono
felice perché sono riuscito a procurarmi una copia di “Yo maté a Kennedy”, il
primo della serie di Pepe Carvalho, in lingua orinale, di cui, vuoi per il
capogiro, vuoi per il mio spagnolo camilleriano, leggerò forse quell’unica frase
che tutto inizia, tutto finisce: "La complicidad europeísta de Jaqueline me
halagabra…".
Gianluca Tantillo
Il salotto storico della città con i suoi palazzi nobiliari e dell’alta
borghesia sciclitana interamente restaurati, con le sue basole di pietra dura
che riflettono non comuni raggi di luce abbagliante, con le sue preziose chiese
barocche, farà da scenario in una delle prossime trasmissioni di divulgazione
scientifica curate da Alberto Angela che andranno in onda con la nuova stagione.
Il team dello studioso e la troupe della Rai sono attesi per domani e
dopodomani. Pubblicata all’albo pretorio del Comune l’ordinanza sindacale che
regolamenta la sosta dei mezzi della Rai in via Nazionale dalle12 di domani e
fino alla fine delle riprese previste per venerdì. Dopo Modica e Santa Croce
Camerina anche Scicli entra nel programma di Alberto Angela. Una tappa
importante per una città che s’è fatta conoscere negli ultimi decenni per la
bellezza del territorio e la preziosità delle sue bellezze artistiche ed
architettoniche. La
fiction del commissario Montalbano ha fatto il resto.
[…]
Pinella Drago
Andrea Camilleri,
conosciuto per la sua abilità nel mettere a punto delle trame
complesse, anche nell’occasione di Un
sabato, con gli amici ha deciso di esibire questa sua
capacità. Ma la modalità con cui ha scelto di farlo potrebbe sembrare un tantino
artificiosa e trasparente, quasi come se avesse sottovalutato le capacità
interpretative dei suoi lettori. Nell’ultima
parte del libro, l’autore si dedica a spiegare le motivazioni dietro ai
comportamenti dei personaggi, risalendo ai traumi
infantili che hanno subito. Queste ferite del passato, anche se
remote, sono presentate come scatenanti degli atteggiamenti che adottano da
adulti.
Giovani incapaci di provare amore I personaggi
del libro, incapaci
di provare amore e consumati da desideri
distorti, cresciuti privi di figure genitoriali di riferimento,
appaiono come se fossero intrappolati in un ciclo di autodistruzione e
desiderosi di causare dolore a coloro che li circondano. Andrea
Camilleri, attraverso la trama delle vite di questi giovani, intrecciate tra
loro da un comune passato
di sofferenze, non mira a dipingere un ritratto realistico di un
gruppo di amici moderno. Vuole invece evidenziare come le nostre azioni adulte
siano profondamente influenzate dai traumi e dalle esperienze vissute
nell’infanzia.
Un messaggio profondo Questa opera
si propone di stimolare nei lettori una
riflessione sui loro primissimi ricordi, quelli che spesso
riemergono in momenti di condivisione, come quello descritto nel libro durante
una serata
tra amici. L’intento è quello di far comprendere che le radici
dei nostri comportamenti si trovano in quelle esperienze
passate. In ogni
episodio di cronaca in cui adolescenti si rendono protagonisti di gesti
terribili, è necessario indagare nelle loro storie personali per trovare le
cause. Andrea Camilleri, anche nei suoi famosi romanzi
gialli con protagonista il Commissario Montalbano, non manca mai
di inserire un messaggio
di denuncia sociale e un forte richiamo alla responsabilità. Questo libro
fa emergere con chiarezza come l’autore fosse profondamente turbato dalla realtà
che lo circondava, mostrando una forte preoccupazione per le generazioni
future, messe a rischio da un’infanzia segnata da violenze e
traumi. Il messaggio centrale del romanzo mette in evidenza l’importanza di un’eredità
culturale e morale sana per garantire un futuro migliore, al di
là del puro piacere letterario.
[…]
Las lecturas de Guillermo, 12.4.2024
«La guerra privada de Samuele y otras historias de Vigàta», de Andrea Camilleri
«Las historias de Vigàta no dejan de sorprender, todas surgen de sugerencias
literarias, huellas del pasado, crónicas, muchas de ellas se basan en la vida
real de Camilleri, atravesando la historia. Seis historias perfectas y completas
que casi constituyen una novela.»
Los seis relatos reunidos en este volumen son una nueva muestra de la capacidad
inagotable de Andrea Camilleri para ahondar, con su fino ingenio y su
imaginación desbordante, en los recovecos más absurdos del alma humana.
Concebidas a partir de evocaciones literarias y vestigios del pasado del autor,
estas historias perfectas y muy logradas suponen una magnífica oportunidad para
saborear la estrambótica realidad de la Italia de ayer y de hoy a través del
pequeño mundo de Vigàta.
El volumen incluye los cuentos inéditos La prueba y La guerra privada
de Samuele, conocido como Leli; mientras que los demás fueron publicados en
diferentes momentos:El
hombre es fuerte – El homenaje – La triple vida de Michele Sparacino y Las
cuatro Navidades de Tridicino aparecieron ocasionalmente en otros periódicos
y semanarios, incluidos los sectoriales. [Nota al final del libro]
Cuando muere un escritor de éxito y de lectura popular como Andrea Camilleri,
nos parece que no sólo se interrumpe una vida sino también un flujo narrativo de
historias. Por eso cuando recibo un ejemplar del libro de cuentos La guerra
privada de Samuele me dio mucha alegría poder retomar y disfrutar del flujo
narrativo del maestro, su voz de narrador, ronca y persuasiva, el gusto por la
ironía, el arte de armar relatos amplios yuxtaponiendo situaciones kafkianas y
fallos éticos y morales, así como apuntes de costumbres, de Italia o mejor
dicho, de Sicilia.
Al abrir las páginas de esta colección de cuentos, encontramos dos inéditos: La
prueba y La guerra privada de Samuele, conocido como Leli: el primero
es un divertimento clásico del autor, el otro es un cuento profundamente moral,
uno de los muchos mediante el cual, burlándose de la respetabilidad y de la
sociedad conformista, continúa enseñándonos, a través de sus antihéroes, De los
pensamiento no hay nadie más que pueda leer realmente sobre cada uno de ellos:
la máscara social y las intenciones (máscara y rostro) son en realidad dos cosas
diferentes, una lección que tomó prestada directamente de Luigi Pirandello. Con
este «juego» profundo y nunca distraído del ideal traicionado sólo
aparentemente, Camilleri resolvió muchas situaciones narrativas, todos los
aspectos de la capacidad de sus personajes, muchos de los cuales eran personas
normales o perseguidos por el destino, para vivir y afrontar «lo desconocido
como lo desconocido». La diversión hecha de juicios sumarios de la opinión
pública continúa con La triple vida de Michele Sparacino y la muy
divertida, sobre la mucha ‘fama’ que se puede adquirir en el mundo; y
luego la más dramática El hombre es fuerte, sin mencionar lo fuerte que
es la esposa que lo apoya de por vida, y Las cuatro Navidades de Tridicino,
un hermoso y poético cuento de hadas sobre vivir felizmente con los pequeños
mientras se ama verdaderamente la vida y a los demás. La colección es una
preciosa muestra de tipos camillerianos de gran éxito: la sonrisa se
alterna con la lágrima, el golpe dramático, la risa amarga ante una realidad
inefable.
El autor: Andrea Camilleri nació
en 1925 en Porto Empedocle, provincia de Agrigento, Sicilia, y murió en Roma en
2019. Durante cuarenta años fue guionista y director de teatro y televisión e
impartió clases en la Academia de Arte Dramático y en el Centro Experimental de
Cine. En 1994 creó el personaje de Salvo Montalbano, el entrañable comisario
siciliano protagonista de una serie que en la actualidad consta de treinta y
cuatro entregas. También publicó otras tantas novelas de tema histórico, y todas
sus obras ocupan habitualmente el primer puesto en las principales listas de
éxitos italianas. Andrea Camilleri, traducido a treinta y seis idiomas y con más
de treinta millones de ejemplares vendidos, es uno de los escritores más leídos
de Europa. En 2014 fue galardonado con el IX Premio Pepe Carvalho.
El libro: La guerra privada
de Samuele (título
original: La guerra privata di Samuele e altre storie di Vigàta, 2022) ha
sido publicado por Ediciones Salamandra en su Colección Salamandra Narrativa.
Traducción de Carlos Mayor Ortega. Encuadernado en rústica con solapas, tiene
240 páginas.
Como complemento pongo un vídeo en italiano titulado «La
guerra privata di Samuele e altre storie di Vigata». Letture di Alessandra
Mortelliti.
Teatro
Garibaldi - Modica, 13-14.4.2024
La concessione del telefono
Data Evento 13 Aprile ore 21 / 14 Aprile ore 18:30
di Andrea Camilleri
con Alessio Vassallo, Mimmo Mignemi, Carlotta Proietti, Paolo La Bruna, Cocò
Gulotta, Ginevra Pisani, Cesare Biondolillo, Alfonso Postiglione, Alessandro
Romano, Franz Cantalupo, Alessandro Pennacchio
regia Giuseppe Dipasquale
Il regista Dipasquale firma una nuova edizione del fortunato adattamento
teatrale dell’opera di Camilleri. Una commedia degli equivoci dai risvolti
surreali, ambientata sul finire dell’Ottocento a Vigàta, il paese immaginario in
cui lo scrittore agrigentino ha ambientato tutti i suoi romanzi, fino alle
avventure del commissario Montalbano. La semplice richiesta di attivazione di
una linea telefonica, avanzata dal signor Genuardi, innesca una catena di
equivoci e imbrogli che diventa metafora di una condizione esistenziale. La
concessione del telefono è, tra i romanzi di Camilleri, uno dei più divertenti,
una sorta di commedia degli equivoci ambientata in una terra, la Sicilia, che è
metafora di un modo di essere e di ragionare, arcaica e moderna nello stesso
tempo, comica e tragica, logica e paradossale.
Cosa indica la ridicola e allo stesso tempo legittima pretesa di un personaggio
come Pippo Genuardi, che vuole ottenere una linea telefonica per potersi meglio
organizzare con la sua amante? È la metafora di un crudele gioco dell’inutilità
umana e sociale o la pessimistica ipotesi di un atavico immobilismo del processo
storico di evoluzione dell’individuo e della società? Camilleri sembra non voler
dare risposte, ma allo stesso tempo, con gli strumenti ingegnosi della lingua e
del gioco letterario e teatrale, ci pone dinanzi a situazioni paradossali che
smascherano le ipocrisie, i pregiudizi e la cattiva coscienza di una comunità
molto simile a quella in cui viviamo.
In un nuovo
allestimento firmato da Giuseppe Di Pasquale, è tornato in scena ieri sera al
teatro Palacongressi di Agrigento “La concessione del telefono”,
l’originale testo teatrale scritto da Andrea Camilleri e dallo stesso Di
Pasquale. Una
commedia degli equivoci dai risvolti surreali, ambientata sul finire
dell’Ottocento a Vigàta, il paese immaginario in cui lo scrittore agrigentino ha
ambientato tutti i suoi romanzi, fino alle avventure del commissario Montalbano.
La semplice richiesta di attivazione di una linea telefonica avanzata dal signor
Genuardi innesca una catena di equivoci e imbrogli che diventa metafora di una
condizione esistenziale. In un
omaggio al grande maestro della letteratura siciliana, il palcoscenico si è
trasformato in un viaggio avvincente attraverso gli intrighi e i personaggi
indimenticabili creati dalla penna di Camilleri. Lo
spettacolo, perfettamente adattato per il palcoscenico, ha regalato agli
spettatori un’esperienza unica e coinvolgente. Anche
gli studenti del Don Michele Arena erano presenti, aggiungendo un tocco speciale
a questa bella serata. Con il
calare delle luci e l’apertura del sipario, gli studenti del Don Michele Arena
si sono lasciati trasportare dall’incanto dello spettacolo. Gli attori con la
loro maestria, hanno danno vita ai personaggi di Camilleri, trasportando il
pubblico in un viaggio emozionante attraverso le strade polverose e i vicoli
tortuosi della Sicilia di un tempo.
L’energia e l’entusiasmo degli studenti si sono fusi all’applauso del pubblico,
creando un’atmosfera di condivisione e partecipazione. “La
Concessione del Telefono” si conferma non solo un capolavoro della letteratura
contemporanea, ma anche un’opera capace di coinvolgere e ispirare il pubblico di
tutte le età.
Grazie alla partecipazione degli studenti, la serata si è trasformata in un
momento di condivisione e crescita culturale, testimoniando il potere dell’arte
e della cultura nella nostra società.
Giuseppe Puleo
Alcuni anni fa, Tullio
De Mauro e Andrea
Camilleri, poco prima di lasciarci, argomentarono
sullo stato di salute della nostra lingua italiana. Questo dialogo piacevole,
ironico e ricco di riferimenti autobiografici, è riportato nel volume La
lingua batte dove il dente duole. Camilleri e De Mauro – attraverso una
serie di riflessioni, aneddoti e memorie, in cui trovano posto Alessandro
Manzoni e Vittorio Gassman, Pier
PaoloPasolini e
il commissario Montalbano, Benigni e Pirandello –
ci raccontano come la lingua esprima chi siamo veramente. Per De Mauro
la cura delle nostre parole è un atto di resistenza democratica. È il mezzo che
ogni persona ha per non stare alla finestra. Tullio De Mauro afferma che il
«potere della parola» è quello di contribuire al pieno sviluppo dell'essere
umano. Per decenni criticò l'abitudine del sistema scolastico italiano a
concentrarsi troppo sull'aspetto normativo della lingua («Si
dice così e non si dice colà»), invece che esplorarne pienamente le
numerose potenzialità espressive. In un suo saggio del 1975 scrisse che la
scuola tradizionale ha concentrato i suoi sforzi a insegnare come si deve dire
una cosa. In realtà, serve «insegnare come si può dire una cosa, in quale fantastico
infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati nel
momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa. Possiamo dire
una cosa disegnando, cantando, mimandola, recitando, ammiccando, additando, e
con parole; possiamo dirla in inglese, in cinese, in turco, in francese, in
greco, in piemontese, in siciliano, in viterbese, romanesco, trasteverino, e in
italiano; possiamo dirla con una sintassi semplice, per giustapposizione di
proposizioni, o con una sintassi contorta e subordinante; con parole antiche o
nuove, nobili o plebee, usate o specialistiche; possiamo dirla come uno
scienziato o un poliziotto, un comiziante o un cronista, un gruppettaro o un
curato di campagna; possiamo gridarla, scriverla a caratteri cubitali o in
appunti frettolosi – possiamo dirla tacendo, purché abbiamo veramente voglia di
dirla e purché ce la lascino dire». I due autori
partono da una profonda, giusta, verità: in Italia abbiamo tante lingue. La
competenza linguistica si forma, in ognuno di noi, per aggiunta, non per
sostituzione. Non è necessario dimenticare una lingua per fare posto a un'altra
nel nostro cervello, come alcuni ritenevano fino a pochi decenni fa. Si pensi
alla profonda stigmatizzazione subita dal dialetto in Italia. Lo sforzo di molti
maestri e molte maestre – soprattutto durante il fascismo – era di eradicarlo
dai propri studenti, nella convinzione che una convivenza di lingue non fosse
possibile. E invece è vero – come sostiene con forza la linguista Vera
Gheno – l'esatto contrario: «non solo più lingue possono convivere pacificamente nello
stesso cervello, ma anzi, si notano veri e propri benefici cognitivi in chi ha
accesso a più patrimoni linguistici (per esempio, una maggiore plasticità
cerebrale, e di conseguenza una ritardata insorgenza dell'Alzheimer)». Il fascismo
credeva nella realizzazione dell'unità linguistica attraverso l'uso
dell'italiano, un tentativo che era già stato fatto agli albori dell'Unità
d'Italia. Ma il dialetto legato alle radici, anche comunali, della nostra storia
è stato davvero di difficile estirpazione. Malgrado il fascismo, la liberazione
e la democrazia, i dialetti hanno continuato a sopravvivere. A dar loro il colpo
mortale, secondo De Mauro, non è stata la politica ma la televisione, che ha
giocato un ruolo fondamentale nel diffondere l'uso dell'italiano: molte persone
impararono a leggere e scrivere l'italiano attraverso le mitiche lezioni del
maestro Manzi.
Oltre all'età (entrambi erano quasi coetanei), Camilleri e De Mauro
condividevano la provenienza da famiglie borghesi e l'essere legati alla cultura
dialettale meridionale. Con qualche differenza: Camilleri – da bambino non
ancora scolarizzato – parlava un dialetto siciliano non molto stretto; i
genitori di De Mauro, laureati, usavano nella loro vita privata il dialetto
napoletano. De Mauro cita
un significativo brano di Luigi
Meneghello in Libera
nos a Malo: «Nell'epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le
ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono
le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi
hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a
catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C'è un nocciolo
indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del
dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa
stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se
in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un'altra lingua». Camilleri
ribatte che il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto
confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto
è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre
la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. E confida: «A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è
soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa
appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capita di usare parole
dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che
io volevo dire, e non trovo l'equivalente nella lingua italiana. Non è solo una
questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore. È una relazione molto
articolata.Non vivo
in Sicilia da
sessant'anni, non c'è nessun siciliano in famiglia, mia moglie è romana ma è
stata educata a Milano,
le mie figlie sono nate tutte a Roma,
nessuna di loro conosce il dialetto. Posso stare un anno, anche di più
senza parlare in dialetto. Allora, la mia testa seleziona le parole del dialetto
attraverso una formula di perdita e guadagno, tornano nella mia memoria parole
che – attenzione – sono le più lontane dall'italiano, ma incise profondamente in
me fin dalla nascita, mentre quelle venute dopo le dimentico». Oggi i
dialetti resistono, ma quasi dappertutto privati delle loro radici più antiche.
Secondo l'Istat oggi l'italiano è nella sostanza un bene comune. Oltre il 90%
degli italiani lo usa in modo esclusivo, lo sa parlare e lo padroneggia nei suoi
elementi essenziali. Se, tuttavia, spostiamo l'attenzione allo scritto, al
rapporto con l'informazione scritta e con la letteratura, le cose cambiano
notevolmente. Il suo buon uso – sostiene De Mauro – richiede «un ordito di base solido, che a me sembra dovrebbe
consistere in una larga adesione alla cultura intellettuale, artistica,
scientifica, buona informazione, teatro, musica, cinema, libri, amore o almeno
rispetto per il sapere critico, storico, scientifico. Ma è proprio qui che le
note si fanno dolenti. L'enorme crescita della scolarità formale in età
giovanile non si è accompagnata in età adulta alla larga adesione di cui
parlavo. Per troppa parte della popolazione l'italiano rischia di essere un
guscio fonico, povero dei contenuti necessari a vivere nel complicato mondo
contemporaneo». Ma Camilleri
si mostrò fiducioso. Consapevole che viviamo circondati da gente che parla altre
lingue, lingue diverse dalla nostra, lingue non europee, egli nutriva la
speranza che – visto che la lingua è sempre in movimento – «in una progressione lenta e costante, da questo meticciato
di lingue degli extracomunitari e dei migranti tutti, il guscio vuoto, come dici
tu, possa essere riempito da queste nuove parole che arrivano da fuori. Un po'
come succede con il tasso di natalità: noi italiani non facciamo più figli, ma
il tasso di natalità regge in virtù della presenza degli stranieri. Ecco, io
spero questo, che il guscio che si sta svuotando possa essere colmato,
arricchito e non sostituito, da parole nuove e diverse che diventeranno parole
nostre. Mi è capitato di leggere alcuni racconti scritti da extracomunitari e la
forza e l'energia del loro italiano, nonostante la povertà linguistica, sono
talmente dirompenti che l'italiano acquista un vigore nuovo, una nuova linfa che
ringiovanisce la parola».
Antonio Salvati
ANDREA CAMILLERI Nato a Porto
Empedocle nel 1925. fa i suoi studi ad Agrigento ed ha tempo di dedicarsi ad
attività teatrali con II gruppo “Poker d’Assi”. Poi si trasferisce a Roma dove
prima frequenta il centro di cinematografia e poi con Orazio Costa l’Accademia
di Arte Drammatica Silvio D’Amico. Poi va alla
RAI dirigendo centinaia di commedie radiofoniche. Per la TV ha diretto opero di
Gozzi, Palazzeschi, Calderon de La Barca, Peppino De Filippo, Beckett, Adamov,
Pirandello. Ha messo in
scena oltre cento spettacoli teatrali con prevalenza opere di Pirandello e del
teatro dell’assurdo. Sue poesie si trovano nell’antologia: I poeti scelti, a
cura di Bettelli, Nuovi Poeti, a cura di Fasoli. Arrivano nel
periodo ’75-’76 le famose Interviste Impossibili trasmesse dalla Rai e raccolte
in due volumi da Bompiani. Camilleri si incontra con Stesicoro e Federico di
Svezia. Come saggista
realizza un volume sui teatri stabili in Italia dal 1898 al 1918. Scrive i
seguenti romanzi: Il corso delle cose, Un filo di fumo, La strage dimenticata,
La stagione della Caccia, La bolla di componenda. La forma
dell’acqua Il birraio di Preston, Il cane di terracotta, Il gioco della mosca. È
stato finalista al “Premio Viareggio”, ha vinto il Premio Vittorini, il “Premio
Telamone e il “Premio Pirandello nel cuore. Ha
partecipato a diverse edizioni della Settimana Pirandelliana’’ con le sue opere
dirigendo il Piccolo Pirandelliano “ed il “Gruppo L’Officina”. INTERVISTA Camilleri
e la sua giovinezza tra Porto Empedocle ed Agrigento Si sognava
l’evasione, naturalmente, io sono uno che prende concretamente atto delle cose,
prendo atto che prima ero un giovane e ora un uomo anziano, voglio dire che
trovo sempre una precisa ragione a quello che capita nella vita. Provo però
una certa rabbia se penso alle condizioni di vita che c’erano in Sicilia, negli
anni ‘43 – ‘45. Io sono stato costretto ad andarmene per potere trovare un certo
tipo di comunicazione e un ambiente congeniale. Oggi invece
in Sicilia si ci può stare, anzi si deve. Cosa
sognavamo? Ma prima, chi erano i miei amici? Futuri uomini di cultura come
Ciccio Burgio, Gaspare Giudice, Dante Bernini. E poi nel dopoguerra, Lauretta,
Gaglio… Devo dire che
le nostre speranze di allora mi appaiono oggi saggiamente calibrate a quello che
pensavamo sarebbe stato il nostro avvenire Ecco sognando sognando
si facevano le piccole compagnie teatrali. Siamo nell’immediato dopoguerra, e
creata una compagnia, un gruppo col nome “Poker d’Assi”, che oggi chiameremmo
amatoriale o dilettante. A che servì allora fare un gruppo teatrale? Non nasce nel
dopoguerra, ma prima, verso il ‘41, ai tempi della G.I.L., (Gioventù Italiana
del Littorio). Ogni sabato pomeriggio c’era l’adunata e bisognava fare le
esercitazioni paramilitari. A noi non
andava e così barattammo col Federale le esercitazioni col lavoro. Il lavoro
consisteva nell’organizzare spettacoli e nell’andare ad imparare composizioni
nella tipografia dell’avv. Macaluso. Composizione
che imparammo bene, tanto d fare un giornale per le scuole medie superiori, si
chiamava “L’asino”, ne uscirono sei numeri che conservo gelosamente. Redattori
erano Ugo La Rosa, Dante Bernini, Gaspare Giudice, io, Luigino Giglia che poi
prese la strada della politica. Con alcuni di
questo gruppo cominciammo a fare teatro e nel ‘42 a Firenze, risultammo secondi
dopo un gruppo capeggiato da un giovane triestino che si chiamava Strehler. L’attività
continuò anche nel dopoguerra, si aggregò un giovane scenografo, l’architetto
Cuffaro, e con Ugo La Rosa facemmo una compagnia che si chiamava “Poker d’assi”,
la quale faceva rivista e teatro leggero. Ma anche a
Poto Empedocle c’era una compagnia che recitava commedie di Vittorio Calvino o
di Grand Guignol. Qui c’erano Fofò Gaglio, Pepè Fiorentino, Paolo Rizzo…
Recitavano nell’immortale teatro Mezzano. C’è poi la partenza per
Roma. Un siciliano di allora trapiantato a Roma che vive queste esperienze nel
mondò dell’arte e della cultura, quali impressioni? Dunque, io
avevo scritto una commedia che si chiamava “Giudizio a mezzanotte” e avevo visto
che c’era un concorso nazionale a Firenze per giovani autori. La scrissi,
la spedii e vinsi il primo premio. Feci un
viaggio mostruoso, non avevamo i soldi perché io andassi a Firenze e allora mio
zio si vendette un quintale di ceci o di fave, non ricordo bene, e con questi
soldi potei affrontare la cultura fiorentina e nazionale. Presidente
della giuria era Silvio D’Amico. L’anno dopo D’Amico mi scrisse una lettera:
“Caro amico, dopo l’interruzione della guerra vorrei radunare i giovani, ecc.…
le mando il bando per il concorso per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica”. Io che
cercavo appunto tutte le occasioni per filare, aiutato dai genitori pur essendo
figlio unico, feci il concorso e risultai il primo. Ebbi la borsa
di studio e cosi divenni l’unico allievo regista perchè da due anni non
ammettevano nessuno in Accademia. Docente di
regia era Orazio Costa, e quindi avevo questo grande regista tutto per me in un
aula enorme e deserta, perché eravamo noi due, tutte le mattine, dalle 8.00 a
mezzogiorno, che Dio sulla terra. È stato il
mio maestro, ma sarebbe troppo lungo da spiegare, perché lo considero un
maestro, un maestro di una lettura diversa dalla lettura letteraria che io
allora facevo, un maestro di teatro, di lettura in senso proprio di teatro. Ho imparato
molto da lui, ma non ho mai condiviso totalmente le sue idee di teatro. L’idea di
teatro come chiesa, io sono un laico, non l’ho mai accettata, per me la chiesa è
una cosa, il teatro è tutta un’altra cosa. Io sono un
allievo infedele di Orazio Costa, però va a merito della sua intelligenza, nel
momento in cui dovette lasciare l’insegnamento, dopo 30 anni di regia
All’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, di avere designato me come suo
successore, ed io ho preso il suo posto e l’occupo da 23 anni. E poi abbiamo la RAI.
Come si faceva il lavoro dei radiodrammi come uscì fuori e come riuscivate a
creare queste atmosfere? Ma diciamo
che qui il discorso è un pochino complesso. Io ho fatto
1.300 regie radiofoniche di lavori che continuano a trasmettere, ora stanno
ritrasmettendo I tre Moschettieri. Il radiodramma non è la riproduzione della
realtà. I tedeschi
avevano fatto un premio radiofonico che era di un sadismo mostruoso. In questo
premio la giuria era composta da ciechi di guerra, cioè di gente che aveva visto
la realtà e non la poteva più vedere, quindi allora il radiodramma era la
riproduzione stimolante di alcuni effetti sonori della realtà, per potere
ricreare una realtà. Ma non è solo
questo il radiodramma, anzi andando avanti nel tempo con l’istituzione di
Fonologia e di altre cose…, io per
esempio, ho vinto il “Premio Italia Sperimentale” con un lavoro di Nanni
Balestrini, dove vi era una sola voce, di Laura Betti nel caso specifico, che
diventava 25 voci diverse, con un lavoro continuo di alterazioni di frequenze e
altre diavolerie. Era una sorta di sinfonia vocale. Addirittura
mi chiesero di andarlo a fare in Ungheria questo stesso tipo di ricerca sonora.
Quindi voglio dire, il campo del radiodramma è vastissimo. È chiaro,
quando era una cosa di mistero o di killer o di thriller, mettevi la porta che
strideva e avevo ottenuto l’effetto che volevo, ma non c’era solo quello. La tua impressione in
questi armi vissuti in RAI, una RAI che in fondo è uno specchio molto importante
della società italiana. La RAI è lo
specchio fedele dell’Italia. E
impressionante come sia speculare alla situazione italiana. Se voi
leggete sui giornali tutto quello che succede alla RAI allargate il campo e
andate indietro con la telecamera e scoprite di più il panorama e quindi finite
che da Viale Mazzini vi trovate “dalle Alpi al Libeo”, come diceva il poeta. Io me ne nono
andato dalla RAI per me sopravvenuti limiti di età. Avevo 65 anni e 30 di
servizio, me ne sono andato contento di andarmene. Questo è
tristissimo, per uno che ha lavorato 30 anni in una Azienda, essere contento di
andarsene. E non ci ho più messo piede. Sono tornato
negli studi, ora recentemente, perché chiamato come me stesso, come A.
Camilleri, per la riduzione radiofonica de “Il Birraio di Preston”. Cercherò di
essere rapidissimo. Io nel 1957 avevo fatto la regia di un’opera lirica al
Donizetti di Bergamo. Tornai a Roma e mia moglie mi disse: “Ha telefonato Lupo”.
Io credevo si trattasse di Alberto Lupo. Telefonai ad
Alberto, buon’anima, e mi disse che non aveva chiamato lui, allora che Lupo era
non lo so. Due giorni dopo mia moglie mi dice che ha ritelefonato Lupo. – “Ma per
l’amor del cielo fatti dire chi è” – le dissi. Finalmente riuscii a capire che
era il direttore del Terzo programma radiofonico, Cesare Lupo, che mi chiamò:
“La voglio vedere”. Andai da lui
e mi disse: “Senta, ho la responsabile della prosa teatrale, che era
importantissima, di alto livello, che è andata in trattamento di maternità, mi
hanno fatto il suo nome come persona in grado di sostituirla, perché lei ha
collaborato alla Enciclopedia dello Spettacolo e ha scritto sul teatro. Sappia una
cosa: che chi mette piede qua dentro non esce più”. Io in quel
tempo insegnavo al Centro Sperimentale di cinematografia, insegnavo direzione
dell’attore, avevo a che fare con allievi che sarebbero diventati importanti
come Marco Cocchio o Liliana Cavani, e non avevo tutto questo tempo da dedicare
alla RAI. Allora mi
fece un contratto a mezza giornata. Sono entrato
così, perché il mio nome venne segnalato come persona competente da Orazio Costa
e Giulio Pacuvio, altro regista, uno cattolico e uno comunista, venni segnalato
come persona adatta per quel posto. Lì ho conosciuto degli altri funzionari
della RAI. Quando questi
funzionari sono passati alla seconda rete televisiva, che allora veniva
inaugurata, mi portarono con loro. Mario Motta e Fabio Borrelli, il fratello
maggiore dell’altro noto Borrelli di Milano. Così si
entrava, così si lavorava. Cioè a dire,
se uno valeva, allora lo prendevano, senza stare a guardare la tessera. Ho visto, in
30 anni, arrivare il peggio della politicizzazione, il peggio del
consociativismo, il peggio della politica, degli imbecilli che invadevano. Io non sono
mai stato dirigente, tre volte mi hanno fatto la proposta, ho sempre rifiutato,
ho preferito sempre fare il mio mestiere di regista e ideatore di programmi. Io non so
quando finirà il male della politica, perché la politica è giusto che ci sia, ma
il male della politica no, allora forse la RAI può essere rivissuta da qualche
generazione futura assai meglio di quanto non l’abbia vissuta io, perché l’ho
vissuta nella sua nascita, grandezza e decadenza. Quanto ha influito la
professione con la narrativa? Io avevo
cominciato come poeta. Avevo pubblicato nello “Specchio” di Mondadori con
prefazione di Ungaretti in una antologia di giovanissimi e meno giovani. Avevo 19 anni
e mi dissi: “Se io faccio il concorso all’Accademia d’Arte
drammatica mi trasferisco a Roma e quindi potrò dedicarmi soltanto alla
letteratura”. Invece il
teatro mi contagiò. Già c’era stato questo inizio di contagio. Il teatro
assorbe, se fatto sul serio, non hai altre vie d’uscita, infatti non ho più
scritto. Avevo anche
pubblicato due racconti, e quando cercavo di scrivere in prosa mi mancava il
respiro, seralmente, riuscivo a scrivere due tre pagine e se interrompevo e poi
dovevo riprendere il tono era diverso, non riuscivo a legare, avevo il respiro
corto, non ce la facevo, le cose non combaciavano, c’erano degli scalini da
pagina a pagina. L’esperienza
teatrale ha fatto sì che io riuscissi a capire che cosa è un personaggio, a
vederlo vivo davanti a me e farlo diventare vivo attraverso un attore. Questa è la
prima cosa, cioè capire il tutto tondo di un personaggio e poi tentare
naturalmente di restituirlo sulla pagina. Un altro è il
taglio narrativo che mi proviene più dalla televisione e dal cinema, cioè la
struttura a sequenze brevi della narrazione. Devo dire che
avevo paura a scrivere un romanzo. Avevo paura.
Il primo romanzo è nato in una situazione brutta per me. Mio padre
moriva nella clinica Gemelli di Roma e io negli ultimi tre mesi non mi sono
mosso la notte dalla sua stanza. Non riuscivo a dormire e ho cominciato a
ricordarmi delle cose sue e il modo di parlare misto di dialetto e lingua che
noi avevamo nella nostra casa abitualmente. E così è nato
“Il corso delle cose”. Qualcuno lo
ha definito, e più di qualcuno, uno stile. C’è chi parla e lo fa in maniera
molto chiara, la casa editrice Sellerio, di gialli veri e propri, gialli della
memoria. Altri parlano invece di romanzi di evasione. Ma l’autore che ne
pensa, qual è la Sua indicazione sulle cose che scrive? Chi dice che
io sono uno scrittore di evasione, sbaglia. Io non ho nulla in contrario
all’evasione, sono un mangiatore di libri così detti di evasione, sia chiaro. Ma sbagliano
perché credo che i miei libri non lascino un sapore di allegria dopo che uno ha
finito di leggerli. Quello che
per i vini si chiama il retrogusto, non credo che il retrogusto dei miei libri
sia dolce. Non bisogna
lasciarsi ingannare dall’ironia o anche dalla risata che viene fuori da alcune
situazioni, c’è modo e modo di raccontare le situazioni tragiche o drammatiche. Si possono
raccontare sorridendoci sopra, ciò non toglie che le situazioni restino
drammatiche. Quindi non
credo di essere né uno scrittore impegnato, né uno scrittore d’evasione. Mi interessa
molto la ricerca della mia comunicazione che èil linguaggio, ognuno si crea il
suo proprio linguaggio. Non si può essere narratori usando un linguaggio
notarile, a meno che non lo si faccia bella apposta. Questa è la mia lingua. La mia lingua
è quella che io parlavo a casa di mio padre con mia madre, con i miei zii, metà
siciliano metà italiano. Però attenzione, che Vitaliano era una lingua
minacciosa. Quando io
facevo discolerie, malacunnutterie, mia madre passava all’italiano, ed era la
cosa preoccupante, perché diceva: “Andrea”, – finivo di essere Nenè, “Andrea
attento, le prendi!”. Quando si
parlava in italiano la situazione era ad alto rischio. Quindi per me l’italiano
è una lingua ad alto rischio. Ognuno ne
tragga le conseguenze che vuole. Il linguaggio,
l’argomento della narrazione, questo legame forte, intenso con la terra, un
legame che più si è lontani più diventa forte? Il legante è
sempre stato forte. Inutile stare a ripetere cose banali, le radici sono le
radici. E più invecchi, più passano gli anni e ti rendi conto che la verità sta
in quelle radici e che il resto è sovrastruttura, superfetazione. Allora ti
accorgi che queste radici l’hai trascurate e vai a vedere disperatamente quali
sono, quali sono morte, quali sono ancora da salvare, tutto qua. La scrttura,
credo per chiunque, non occorre essere Proust, è solo uno spaventoso esercizio
della memoria, che noi perdiamo e proviamo. Siamo l’unico
animale al mondo che incespica due volte sullo stesso sasso, mentre altri
animali una volta che ci sono incespicati su quel sasso non incespicano più. Noi
incespichiamo perché c’è questa intermittenza della memoria che è propria della
poesia, della scrittura e del creare. Il rapporto tra
Camilleri e il mondo letterario italiano e il rapporto tra Camilleri e
Pirandello. Il rapporto
tra Camilleri, che sarei io, e… È bello ogni
tanto parlare in terza persona, abituato con gli attori che parlano spesso di
sé. Una volta stavo facendo una trasmissione che si chiamava “Tutto di Turi
Ferro”. Una trasmissione televisiva che poi fu fatta vedere anche qui. Turi Ferro
non era contento dei testi che scriveva Ghigo De Chiara e che lui doveva
ripetere e allora mi fece chiamare. Lo raggiunsi in camerino. Mi disse: “Senti,
fratello mio, tu devi capire che il Signor Ferro non è abituato…”. Finalmente
presi il coraggio a due mani e ho cominciato a mettere in scena Pirandello,
anche troppo, perché ho fatto poi 45 regie di Pirandello, tra teatro,
televisione e radio. Che cosa è Pirandello? Pirandello è noi. Nel “Gioco
della mosca” io ricordo che avevo, non posso dire una vecchia cameriera perché
era tutto, mi aveva visto nascere, crescere, si chiamava Gna Ciccina e aveva una
figlia. Questa figlia
si maritò e suo marito ammazzò uno e andò a finire in galera. Quando il marito
uscì di galera seppe che la moglie si era data un poco da fare. Tutti si
aspettavano il delitto di onore e invece non avvenne. Lui divenne
l’amante della moglie e quando io gli dissi: “Ma insomma…”, lui mi disse: “Iu da
finestra trasu’”. Ed entrava
dalla finestra, andava a trovare la moglie ed entrava dalla finestra. Mi diceva:
“Vautri, chiddi cchiu granni di tia trasinu da porta e sunnu mariti, iu
l’amanti”. Se lo andavamo a raccontare a Pirandello ci avrebbe scritto una
novella. Quando dico
che il sofisma, lo spaccare il capello in quattro, un certo senso di sé, un
certo volere apparire in un certo modo, dico che il succo di Pirandello siamo
noi. In un
convegno su Pirandello a Cuneo, mi sono morto dalle risate quando un Professore
tentava di interpretare i nomi della Nuova colonia che sono, che so, Burrania,
Bacchi Bacchi, e tentava una spiegazione esoterica. Beh, lasciamo
perdere. Io a Pirandello devo tutto, devo anche il gusto della scrittura, devo
il coraggio di scrivere in questo modo. Perché
Pirandello ha detto quando un siciliano e un fiorentino si incontrano decidono
una comune lingua, l’italiano, ma in realtà, uno pensa in fiorentino e l’altro
pensa in siciliano”. Ma io mi sono
posto la domanda e quando parlo con me stesso? Io ho scritto come se parlassi
con me stesso. Che significato ha per
Andrea Camilleri una frase che spesso ricorre in campo letterario “impegno
civile”. Enzo ha posto
la domanda nei termini giusti, cioè a dire ha parlato di impegno civile che è
assai diverso dall’engagement e altre cose come si pensava negli anni del dopo
guerra. L’impegno
civile a mio avviso non è un impegno politico, ma un aprire le nostre
responsabilità verso gli altri. Che cos’è
questa responsabilità verso gli altri? Secondo me la risposta è valida nella sua
semplicità. Fare bene il proprio mestiere, non ingannare nessuno, (sembra un
decalogo), non rubare, non rubare la fiducia degli altri, meritarla. E sopra
tutto, quando devi dire come la pensi, non tirarti indietro, dilla. Leonardo non
ha fatto altro che questo, che dire con pacatezza, con l’esercizio della ragione
e non della passione quello che pensava su certi fatti. È una
grandissima lezione perché c’è anche dentro la tolleranza, cioè la tolleranza
del fatto che tu la possa pensare esattamente al contrario di come la sto
pensando io. Vale a dire la più grande lezione dell’illuminismo Allora io
scrivo come ritengo che debba scrivere. Non credo di
sapere fare diversamente. Il mio impegno attraverso i miei libri è di dimostrare
una realtà della Sicilia che non sempre si arresta, come avviene dinanzi alle
codificazioni facili. Noi abbiano
II Birraio di Preston che è autentico, io non me le invento le cose, di tutti i
libri che ho scritto non mi sono inventato un rigo, io ho sempre colorito o
colorato una situazione. Vi hanno
letto l’inizio, bene, de La stagione della caccia. Come nasce? Io mi sono
divorato l’inchiesta non la Franchetti – Sonnino, ma quella precedente,
ministeriale, del 1875, sulle condizioni socio-economiche della Sicilia. Me la sono
studiata proprio domanda e risposta, domanda e risposta. Almeno quattro libri
sono nati da quell’inchiesta. La stagione della caccia nasce da due battute. Il senatore
Cusa, presidente della commissione, domanda ad un sindaco di un piccolo paese
della provincia di Caltanissetta (1875): “Signor sindaco, recentemente nel suo
paese ci sono stati fatti di sangue?”. E il sindaco
risponde: “No, fatta eccezione per un farmacista che per amore ha ammazzato
sette persone”. Se non si è
siciliani, non si può capire la risposta del sindaco, ma è bastata questa
battuta a farmi nascere l’idea del libro. Nel libro è
un prefetto (e bisognerà farlo poi il consuntivo dei bei prefetti che lo stato
unitario ci mandò da queste parti. Cominciò Luigi Pirandello nei I vecchi e i
giovani a farlo un pochino) che impose un’opera lirica Il Birraio di Preston. Finì a
schifio a Caltanissetta per l’inaugurazione del teatro. Non me la
invento la realtà, la modifico come ognuno deve ed è libero di fare ma queste
cose sono tutte cose assolutamente successe. Il mondo dello zolfo
coinvolge Pirandello, Sciascia ed altri autori locali (per tutti Alessio Di
Giovanni); anche Camilleri con Un filo di Fumo ne avverte il fascino? Ma nello
zolfo in un modo o nell’altro ci siamo vissuti. Io ho a Porto Empedocle un
documento che ho fatto vedere a Nino Borsellino e ad altri cultori
Pirandelliani. È un abbasso di zolfi, cioè a dire lo zolfo della miniera veniva
mandato ai magazzinieri. Questi lo
custodivano e lo commerciavano in conto terzi. Di questo zolfo poi se ne
prelevava una certa quantità di cantara e chi prelevava firmava. Io ho un
abbasso di zolfi ma ne ho più di uno, ne ho una decina. In essi Portolano (si
chiamava Portolano e non Portulano come scrivono nelle biografie) cioè a dire il
padre della moglie di Pirandello è il magazziniere, da questo preleva Stefano
Pirandello padre di Luigi, ma ancora il matrimonio dei figli non è in vista, da
questo preleva anche Vincenzo Fragapane cioè mio nonno materno, da questo
preleva pure Giuseppe Camilleri, cioè mio nonno paterno. In un unico foglio di
carta ci sono due matrimoni di zolfo. Ora i
matrimoni certe volte riuscivano bene, certe volte riuscivano appunto di zolfo. Il mondo
dello zolfo era spietato. Il solo lavoro degli spalloni portuali, d’estate, con
le ceste di vimini o di saggina o di quello che erano, con l’acqua fino alla
cintola, il sudore, l’acqua ecc… lo ha descritto Pirandello assai meglio di me. Io non mi
sono rifatto a Pirandello, mi sono rifatto al Sindaco del mio paese, il Prof.
Marullo di Porto Empedocle che sulla ferocia dello zolfo ha scritto pagine
bellissime, poetiche, disperate, alle quali io mi sono immediatamente
agganciato. Perché poi
non c’era solo il mondo di quelli che lavoravano nello zolfo, c’era il mondo di
quelli che si rovinavano con lo zolfo. Con le
miniere che si allagavano, con il consorzio straniero che mise proprio in
camicia tutti quelli che erano i nostri produttori di zolfo. Quando mio
nonno realizzò a Porto Empedocle la prima raffineria di zolfo, il governo
italiano, su pressione dei deputati catanesi abbassò il costo del trasporto
ferroviario tra Caltanissetta e Catania. Veniva
insomma a costare di più portarlo da Caltanissetta a Porto Empedocle che
portarlo a Catania. Ci fu una sollevazione popolare mostruosa, incendi,
devastazioni. Passata presto nel dimenticatoio. Camilleri scrive La
strage dimenticata sull’eccidio di 114 detenuti nella Torre Carlo V di Porto
Empedocle. Non solo lo colpisce la morte, ma il silenzio sulle morti. Oggi ci
sono ancora le stragi della memoria? Perché
appunto avviene la strage della memoria. Avviene una strage come quella della
Torre di Carlo V, dove in una notte si fanno fuori 114 persone. Certo, per
ammazzare 114 persone in una sola notte, oltre che una fatica del diavolo,
presumo sia stato determinato da un fatto di necessità. Nessuno uccide 114
persone per niente, può succedere per dare un esempio, o per tenere ferme delle
possibilità di rivolta come il caso della Torre di Carlo V che era un carcere
borbonico. Quindi nel
‘48 il comandante del carcere doveva difendersi dagli insorti esterni temendo
un’insurrezione all’interno della torre, militarescamente, come pure poi
militari agiscono spesso e volentieri, eliminò il problema interno. A me quello
che ha dato fastidio, è che nel mio paese nessuno se ne ricordasse più, perché
gli uccisi non erano persone da considerare, erano galeotti. Infatti
quando andai a vedere gli atti di morte, mi agghiacciò leggere: X.Y., nato a
Misilmeri il 22 ecc.ecc., professione “servo di pena”. Erano ergastolani, erano
servi di pena. E sapete qual era la cosa più terribile? Che il novantanove per
cento di questi ergastolani assassinati, erano lì per delitti contro la
proprietà. Perché non lo
facciamo tornare l’ergastolo per i delitti contro la proprietà comune dei
cittadini italiani? fonte
Incontri con l’autore, a cura di Stefano Milioto, Agrigento, 1996
Elio Di Bella
è un gioco tinto,
quello dei ricordi, nel quale finisci sempre col perdere…
“Riccardino” è molto più di un semplice romanzo poliziesco; è un commosso addio
a un’icona letteraria e un omaggio vibrante alla maestria narrativa di Andrea
Camilleri. Questo volume, pubblicato postumo nel 2020 da Sellerio, rappresenta
l’ultimo capitolo della celebre saga di Salvo Montalbano, il tenace commissario
di Vigata. Il libro
inizia con una chiamata misteriosa alle prime luci dell’alba, che trascina
Montalbano in un vortice di eventi apparentemente casuali, ma intrinsecamente
legati alla sua stessa esistenza. La morte di Riccardino, l’uomo che lo ha
chiamato scambiandolo per un amico (per errore o volutamente?) prima del tragico
evento, scatena un’indagine che mette in luce non solo la complessità del
crimine, ma anche il tormento interiore del commissario protagonista. Ciò che rende
“Riccardino” un’opera straordinaria è la sua capacità di superare i confini del
genere. Camilleri introduce un elemento sorprendente: l’ingresso della
televisione nella trama, con l’alter ego di Montalbano, l’attore che lo
interpreta sullo schermo, nella forma di oracolo di Delfi. “Cosa
farebbe l’attore per risolvere l’inghippo?”, si chiede spesso il Montalbano
letterario. Questa inaspettata sovrapposizione tra realtà e finzione
aggiunge un livello di profondità psicologica al personaggio principale, che si
ritrova coinvolto in una sorta di continuo confronto identitario. Inoltre,
l’autore stesso appare nel libro, un gesto audace e metaletterario che
sottolinea l’interconnessione tra scrittore, personaggio e lettore. È un’idea
sorprendente che conferisce al romanzo una dimensione ulteriore, trasformandolo
in un’esperienza letteraria unica e coinvolgente. L’edizione di
Sellerio include sia la stesura del 2005 che quella del 2016 (l’autore non
pensava di vivere così a lungo, scrive Camilleri nella breve prefazione). Nella
seconda redazione il Vigatese, lingua inventata e altro personaggio fondamentale
della saga di Salvo Montalbano, prende piede, permettendo ai lettori di cogliere
la sottile evoluzione stilistica dello scrittore nel corso degli anni. Il finale di
“Riccardino” è aperto a molteplici interpretazioni, come un enigma che invita il
lettore a riflettere sulla natura stessa della narrazione. Camilleri dimostra
ancora una volta la sua abilità nel tessere trame intricate e nel creare
personaggi indimenticabili.
Ci sono varie voci sul finale, su cosa succederà a Montalbano. Non ve ne
smentirò neanche una, perché dare un finale giusto alla saga di Vigata non era
facile ma vi assicuro che Andrea Camilleri ci è riuscito alla perfezione.
“Riccardino” è certamente un testamento d’amore di Camilleri ai suoi lettori e
al suo celebre detective. È un romanzo che va letto con la stessa passione e
devozione che Montalbano riserva alle sue indagini. Una lettura avvincente e
commovente che conferma il talento immortale di uno dei più grandi maestri del
giallo contemporaneo.
Camilla Tettoni
Giornate siciliane per la troupe del noto programma di Rai 1 “Ulisse, il piacere
della scoperta”. La trasmissione condotta da Alberto Angela dedicherà una
puntata a Camilleri e ad alcuni luoghi iconici resi celebri dalla serie del
Commissario Montalbano. Questa mattina, le telecamere della Rai erano a
Marzamemi per una serie di riprese tra balata e piazza Regina Margherita. Grande
curiosità nel borgo marinaro dove è subito partita la “caccia” all’amato Alberto
Angela. C’era invece, nei giorni scorsi, alle riprese tra Modica e Scicli.
Nel 2022, Alberto Angela dedicò una puntata di un altro suo fortunato programma
– Meraviglie – a Siracusa.
Giuseppe Schifitto
È stata presentata questa mattina, nel foyer del teatro comunale
Niccolò Piccinni, la stagione teatrale e di danza 2024-25 Altri Mondi,
organizzata dal Comune di Bari - Assessorato alle Culture in collaborazione con
il Teatro Pubblico Pugliese. […] Dieci sono gli spettacoli in abbonamento per quattro giorni, dal
giovedì alla domenica, dieci in fuori abbonamento, più otto titoli a scelta (4
teatrali / 4 di danza), eventi speciali, due segmenti drammaturgici, […] i cento
anni dalla nascita di Andrea Camilleri, […]. […] TEATRO […] Compagnia
Malalingua con Un
sabato con gli amici, di Andrea Camilleri, riadattamento e allestimento
scenico di Marco Grossi (15 e 16 marzo in prima nazionale).
[…]
L’idea di portare per la prima volta in teatro il commissario più famoso della
narrativa contemporanea italiana è nata in seguito allo straordinario successo
che hanno ottenuto gli audiolibri, recentemente pubblicati dalla Storytel, che
Venturiello stesso ha avuto il privilegio di interpretare.
La lingua di Camilleri, carica di musicalità, arriva nella sua interezza a
chiunque, la parola diventa immagine ammaliante e la trama inchioda e non
consente distrazione alcuna.
Un reading per la prima indagine del famoso commissario nella quale nascono
tutti i personaggi dei successivi numerosi romanzi che hanno conquistato
l’interesse di milioni di lettori
Crónica Económica,
19.4.2024
La masacre olvidada Andrea Camilleri Destino (2024) 97 págs. T.o.: La strage dimenticata Traducción: Juan Carlos Gentile Vitale
La masacre olvidada, un nuevo-viejo Camilleri
Novela histórica, donde el Camilleri que se dio a conocer con sus inolvidables
novelas policiacas, se emplea en otros de los géneros que le apasionaron, la
historia de Sicilia.
Esta novela, publicada en
Italia en 1984, entra dentro de la preocupación de su autor de que no se borren
de la memoria sucesos, que aunque pequeños relativamente, no forman parte de las
historias universales.
La acción transcurre en Porto Empedocle, localidad siciliana, en 1848 y trata de
describir objetivamente la revolución contra los Borbones y que según los
historiadores forma parte de un universo de pequeñas revoluciones y
sublevaciones populares que se fueron sucediendo en los países mediterráneos.
Camilleri se va a centrar en dos matanzas de inocentes sublevados en Porto
Empedocle, la más numerosa, 114 hombres y en Pantelleria donde murieron 15. La
muerte de presos en el castillo de Girgenti (Agrigento) por miedo a que se
sublevaran, fue algo terrible por las condiciones en las que se los dejó morir.
Camilleri, se sirve para construir sus relatos de dos fuentes, la abuela materna
y los documentos que investigó a fondo, dando origen a un relato muy ameno, en
el que no faltan los momentos de humor socarrón del escritor que hacen de su
lectura un momento agradable de solaz y descanso.
Cinecittà News, 19.4.2024
Tutti pazzi per ‘Hollywood Party’
Il mondo del cinema festeggia i primi 30 anni dello storico programma di Radio 3
Rai. Ospiti e sorprese della doppia puntata in diretta dalla Sala A di via
Asiago
Liliana
Cavani, Paolo Sorrentino, Alice Rohrwacher, Enrico Vanzina, Pilar Fogliati, Riccardo Milani, Anna Foglietta, Italo Moscati, Vanessa Scalera, Vincenzo Mollica, Paolo Del Brocco, Nicola Giuliano, Francesco De Gregori, David Grieco,
Roberto Anile e il direttore di Rai Radio 3 Andrea Montanari. Nonostante il traffico della capitale in tilt per la pioggia
e la partita di coppa, gli ospiti che eroicamente riescono ad arrivare nella
storica Sala A di via Asiago per festeggiare il compleanno di Hollywood
Party sono davvero tantissimi. Ma le vere star sono loro: tutti i conduttori che da trent’anni danno vita a “la più grande trasmissione
della radio dai tempi di Marconi”.
[…] Poi l’ospite
tra gli ospiti, da un altro universo: Andrea Camilleri,
intervistato per il Tg1 dal geniale Vincenzo Mollica, riesce
a regalare ancora oggi ai presenti e a chi è in ascolto momenti di palpabile
emozione.
[…]
Niscemi – S’intitola
“Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni” il romanzo di Arianna
Mortelliti presentato al Museo civico di Niscemi dall’Inner Wheel presieduto da
Carmelina Pepi e dalla Fidapa rappresentata da Lucia Spata. La scrittura
‘di famiglia’ l’ha contagiata e con risultati ragguardevoli: non a caso Arianna
Mortelliti è la nipote del maestro Andrea Camilleri, l’orgoglio nazionale della
letteratura contemporanea nato in Sicilia. A fare gli onori di
casa l’assessore alla cultura del Comune di Niscemi Marianna Avila, il sindaco
Massimiliano Conti ed il direttore del Museo Civico Franco Mongelli. Il protagonista della
storia del libro è Arturo Baldi che, a seguito d un incidente casalingo, è
finito in stato vegetativo e di semi incoscienza durante il quale ripercorre la
sua infanzia insieme al fratello Dado. Un romanzo che si costruisce a poco a
poco tra realtà, ricordi e sogno diventando sempre più incalzante e avvincente. Un romanzo dalla
scrittura e dalla trama davvero originale, in cui l’autrice concede al
novantacinquenne Arturo, caduto in coma profondo, la possibilità di sentire i
suoi cari mentre si alternano giorno dopo giorno al suo capezzale. E gli
parlano, tanto, di tutto ciò che avrebbero voluto dirgli, proprio come se lui
potesse ascoltarli.
Mescolando i ricordi di Arturo, sollecitati dalle conversazioni che in una sorta
di limbo intrattiene con il fratello Dado, e le confessioni a cui si
abbandonano, nel dolore e nella speranza, l’amata moglie, le figlie e le nipoti,
Arianna Mortelliti dà forma a questa famiglia da cui emergeranno lontani segreti
e recondite verità, che nel presente aiuteranno – tanto chi è destinato a
restare quanto chi se ne andrà – a fare pace con la propria vita e a guardare
oltre.
Un cartellone
ricco di commedie e spettacoli travolgenti, che hanno riscosso uno straordinario
successo a livello nazionale, ma che dà spazio anche ai musical, tra magia e
illusione, e al flamenco. E’ questo il mix vincente che caratterizza la prossima
stagione del Teatro Al Massimo. […] Non
mancherà un omaggio al grande scrittore siciliano Andrea Camilleri con il
romanzo “Il birraio di Preston”, il melodramma giocoso che vedrà protagonisti
Eduardo Siravo, Federica De Benedictis e Mimmo Mignemi.
[…]
CO.AS.IT.,
23.4.2024
Food as a Political Weapon in Inspector Montalbano Crime Series. For the
launch of the book Mediterranean Crime Fiction: Transcultural Narratives in
and around the “Great Sea”, Presented
by CO.AS.IT. and Barbara Pezzotti present
Date: Tuesday 23 April 2024
Time: 6:30-8pm.
Location: CO.AS.IT. 199 Faraday Street, Carlton. Free
Event.
Booking required –
click here to book Food as a
Political Weapon in Inspector Montalbano Crime Series.
A talk by Dr Barbara Pezzotti.
Food, and especially its consumption, is an important part of Andrea Camilleri’s
crime novels featuring Inspector Montalbano. A few scholars have analysed the
representation of food in Camilleri’s novels, highlighting its function as a
symbol of Montalbano’s visceral connection with his motherland and a statement
“about a postmodern, consumer-driven society”. Barbara’s talk enters this lively
debate, arguing that the importance of food in the Inspector Montalbano series
is a reaction to the rhetoric of the Northern League, the secessionist political
party that rose to power in the 1990s with the infamous Prime Minister Silvio
Berlusconi, and that has recently regained power in Italy. Not only does the
traditional food tasted and consumed by Montalbano characterise the protagonist,
add precise regional flavours to the plot, and facilitate social and political
commentary, but it becomes a veritable ‘militant’ weapon. This speech derives
from Barbara’s research into Mediterranean crime fiction that culminated in the
publication of Mediterranean
Crime Fiction: Transcultural Narratives in and around the “Great Sea” (Cambridge
University Press, 2023).
La collana Quaderni
camilleriani (fondata nel 2016, reperibile all’indirizzo https://www.camillerindex.it/quaderni-camilleriani/)
ha pubblicato il suo ventunesimo volume, curato da Giuseppe Marci e Paolo Lusci:
è intitolato La cululùchira e altri temi di Vigàta (https://www.camillerindex.it/quaderni-camilleriani/quaderni-camilleriani-21/) e
propone i contributi di Teresa Agovino, Simona Demontis, Maria Antonietta
Epifani, Lorenzo Lozzi Gallo, Paolo Lusci, Giuseppe Marci e Alberto Sebastiani. Il volume affronta
aspetti ancora poco studiati dell’opera camilleriana: la scabrosa tematica del malamuri,
la musica che risuona nel Birraio di Preston, le problematiche relative
alle traduzioni in svedese e in tedesco, gli adattamenti a fumetti di alcune
avventure del commissario Montalbano, l’intrigante storia della parola cululùchira.
A corredo, due note dedicate una ad Angelo Maria Ripellino che con Camilleri
ebbe un’importante consuetudine, e l’altra al romanzo La condizione umana di
André Malraux, la cui lettura impresse una svolta decisiva nella vita dello
Scrittore.
La prima volta ci siamo
incontrate a Napoli, sul set di “Mina Settembre”. Avevo di fronte la direttrice
di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati, e, da grandissima appassionata di
serie, avrei voluto chiederle tutto: novità, produzioni, sequel... Ma non c’era
tempo. Le mie curiosità (e credo anche le vostre), però, sono state presto
soddisfatte con questa lunga, piacevolissima e generosa chiacchierata.
Partirei da “Il commissario Montalbano”: non tutti i libri della saga di Andrea
Camilleri sono stati trasformati in episodi tv. Si faranno?
«Stiamo ragionando col produttore (la Palomar,
ndr) se girare un ultimo capitolo. Bisogna valutare tante cose e, tra
queste, gli impegni degli attori. Io ci conto».
[…]
Silvia Perazzino
Anticipazioni per il Grande Teatroin TVdi Antonio
Petitodel 27 aprile alle 16.20 su Rai 5:
“Francesca da Rimini: tragedia a vapore” con Aldo e Carlo Giuffrè – Per il
Grande Teatro di Antonio Petito in TV Rai
Cultura propone oggi sabato 27 aprile alle 16.25 su Rai 5 la commedia “Francesca
da Rimini: tragedia a vapore” tratta dall’opera di Silvio Pellico nella
rilettura umoristica del Petito scritta nel 1857, proposta nella versione
trasmessa dalla Rai nel gennaio 1980. Regia di
Andrea Camilleri ed interpretazione dei fratelli Aldo e Carlo Giuffrè. Attraverso il gioco tutto
particolare della satira e della parodia, Petito scrive la farsa prendendo
spunto dalla nota tragedia omonima di Silvio Pellico, con la regia e la
interpretazione di Aldo e Carlo Giuffrè e la regia televisiva di Andrea
Camilleri.
«Montalbano è ancora un “pischelletto”:
la serie è solo al primo tempo». Carlo Degli Esposti, produttore e fondatore di
Palomar, non ha alcuna intenzione di far calare il sipario sulla fiction Rai che
da 25 anni incolla oltre un miliardo di spettatori allo schermo. Se la Sicilia è
un set a cielo aperto e una delle mete più battute dal cineturismo, il merito è
anche suo. “Il commissario Montalbano”, “Màkari”, “Vanina” sono alcuni dei
titoli della casa di produzione romana ambientati nell’Isola. «È difficile
ambientare la Sicilia da qualche altra parte - spiega Degli Esposti - mentre
nell’Isola si possono girare anche storie non siciliane». Ha in mente una nuova
storia da girare in Sicilia? «Quella di Salvatore
Giuliano. Sto scrivendo, girerò nei prossimi anni». E poi? «Ci saranno altre stagioni di
Màkari e di Vanina. E Montalbano è un titolo giovane». Anche se Camilleri non c’è
più? «Non so esattamente come, ma
di certo Montalbano avrà degli sviluppi. Farò anche qualcosa per il centenario
della nascita di Camilleri: sto vedendo altri titoli». Montalbano senza la
Sicilia cosa sarebbe? «Non potrebbe esistere senza
Ragusa. Coma “Màkari” senza il Trapanese e “Vanina” senza Catania». Lei, però, anni fa
minacciò di girare Montalbano in Puglia, se non le fossero arrivati i
finanziamenti regionali. «Una balla. Ma diede subito i
suoi effetti. Crocetta, allora presidente della Regione, mi rispose subito al
telefono, dopo mesi di silenzio». Ci spiega che sta
accadendo in Rai? Dal caso Fazio a quello di Scurati, il sospetto per molti è
che si sia trasformata in un megafono del governo Meloni. «Auguro alla Rai di essere
libera quanto più possibile dai laccioli. A chi la dirige, di scegliere persone
intelligenti, versatili ed entusiaste che vogliano rischiare: per prendere
decisioni intelligenti bisogna osare. È essenziale perché, dopo la pandemia,
questo è l’anno in cui si riassesta tutto il mercato dell’audiovisivo nel mondo
e in Italia». Decisioni intelligenti
prese rischiando. Mi dica le sue. «La vita è fatta di scontri e
di occasioni e i rari momenti in cui ho fatto delle riflessioni intelligenti li
devo a Elvira Sellerio. Le racconto com’è nato Montalbano». La ascolto. «Mi ero appena dimesso dalla
guida di Cinecittà, contrario alla sua privatizzazione. Partii per una vacanza
di decompressione di dieci giorni sui Nebrodi. Quando ero lì, pensai: “Sei in
Sicilia e non vai a trovare la tua grande amica Elvira Sellerio?”. Cambiai il
volo di ritorno da Catania a Palermo e la raggiunsi in macchina. Fu lei a
intuire per prima il potenziale televisivo di Montalbano». Perché? Che le disse? «“Ho questi due libri di uno
scrittore siciliano che sta a Roma, secondo me possono diventare una fiction
stupenda. Leggili e quando arrivi a Roma incontralo”. E così feci». La conquistarono subito i
gialli di Camilleri? «Da bolognese fu una fatica
terribile entrare nel siciliano letterario di Camilleri, ma non ebbi alcun
dubbio e andai a trovarlo». Come andò l’incontro? «Ci accordammo per un’opzione
di soli tre mesi: non potevo bloccare i diritti per più tempo perché non avevo
una lira. La Palomar, appena nata, era ancora piccolina. Quando mancavano due
mesi e mezzo risollecitai Sergio Silva, il padre” de “La piovra” all’epoca
direttore di Rai Cinemafiction, a cui avevo già consegnato i due libri. Non
avevano convinto i lettori a cui li aveva sottoposti: pensavano che farne una
fiction sarebbe stata un’operazione pericolosa, in quanto complicati». Come lo convinse allora? «Gli consegnai altre due
copie: però doveva leggerli lui assolutamente. Era un venerdì e il lunedì
mattina alle 8,15 mi chiamò: “I miei lettori non hanno capito un cazzo, questi
libri sono bellissimi. Quando posso venire?”. Lo raggiunsi io: alle 9 ero da lui
e alle 11 era già pronta una lettera che dava il via alla saga di Montalbano. La
conservai e anni dopo, quando Silva andò via dalla Rai, la incorniciai e gliela
regalai. La tiene ancora appesa vicino alla sua scrivania. Devo tutto
all’intelligenza della famiglia Sellerio e alla lungimiranza di Sergio Silva». Si aspettava un successo
del genere? «È la dimostrazione che un
prodotto ben fatto è longevo, se non immortale». Un altro superpotere di
Montalbano: “il pellegrinaggio” dei turisti nei luoghi della fiction. «Per il primo Montalbano
facevamo base in un albergo che era l’ultimo del lungomare di Marina di Ragusa.
Ora è a metà del lungomare: la ricezione turistica è più che raddoppiata.
Montalbano è stato venduto in più di 60 paesi». Anche “Màkari” ha fatto
centro, diventando una calamita per spettatori e turisti. «La serie è stata una
scommessa della pandemia. Il perfetto antidoto contro la sindrome della
depressione della domenica sera: quando ti rendi conto che hai tutta la
settimana davanti e non ti sei riposato abbastanza, l’ideale è una fiction
lieve. Con Màkari possiamo sbagliare solo noi, la serie è amatissima dal
pubblico». Camilleri per “Montalbano”,
Malvaldi, sempre Sellerio, per “I delitti del BarLume”, Savatteri per “Màkari”,
Cassar Scalia per “Vanina”. Non è un caso che dietro queste grandi serie tv che
ha prodotto ci sia sempre un libro. «Sono un buon lettore ed è
bello questo circolo virtuoso: il successo letterario contribuisce a quello
televisivo e viceversa». Cosa manca alla Sicilia
per fare il salto di qualità e trasformarsi in un’industria cinematografica? «Mancano teatri di posa e
piscine cinematografiche per gli effetti speciali, come quelle di Malta. È lì
che abbiamo girato gran parte del Conte di Montecristo per le scene con
le navi. In Sicilia servono anche stabilità nelle risorse e intelligenza
politica. Per il resto sono stati fatti tanti passi in avanti dal primo
Montalbano e le location non mancano: nell’Isola, con “Cefalonia” ho anche
ricreato un’ambientazione greca». Finirà per stancare la
Sicilia “da cartolina” vista in tv?
«Bisogna stare attenti all’overdose da location: l’effetto visto e rivisto non
va bene. Le produzioni andrebbero aiutate a trovare luoghi diversi e meno
battuti. Vorrei girare nelle zone più interne della Sicilia e sui Nebrodi».
Irene Carmina
Sicilian Post,
28.4.2024
Sicilitudine
“Biografia del figlio cambiato”: Camilleri racconta il giovane Pirandello
Dal celebre episodio della (non) nascita della Contrada Caos ai rapporti tesi
con il padre, fino alle storie raccontate in casa dalla balia Maria Stella che
finiranno per dare vita ad alcune novelle. La vita dell’autore dei Sei
personaggi somiglia essa stessa ad una grande rappresentazione teatrale. Così,
nel 2000, il creatore di Montalbano ne fece una peculiare ricostruzione, che
meglio ci aiuta a comprendere la genesi di alcune grandi riflessioni
pirandelliane sull’identità e sull’assurdità dell’agire umano
Istituire un
rapporto diretto tra la poetica di un letterato e il suo vissuto socio-familiare
è un’operazione spesso destinata a rimanere infruttuosa. Troppe varianti, troppe
asimmetrie, troppi fattori emotivi e lontani dalla linearità finiscono per
intercorrere in quel fascinoso e delicato passaggio che è la trasposizione in
scrittura di un’emozione. Qualcuno, addirittura, a riprova estremizzata di tale
concetto, ha persino sostenuto che le opere letterarie andrebbero studiate per
ciò che sono, attraverso il volto che di sé offrono al lettore, senza mai
sconfinare nella tentazione di ricostruirne la genesi storica. Sarà. Una cosa,
tuttavia, è certa: non dar conto a quella tentazione è tutt’altro che semplice.
Perché esiste, in ogni scritto, una sorta di intercapedine della memoria, dove
vita e finzione si stringono apertamente la mano, scambiandosi persino le
fattezze. Così la realtà dell’esperienza si tramuta in un artefatto di parole, e
viceversa. Di casi illustri, poi, di questa necessaria contaminazione tra
vissuto e non vissuto si potrebbe riempire una lista potenzialmente infinita. Si
può ignorare, ad esempio, il trauma dell’esilio e dell’invasione straniera
approcciandoci alla poesia di Ugo Foscolo? Si può tralasciare, immergendoci nei
suoi straordinari romanzi che come nessun altro sanno scandagliare le profondità
dell’animo umano, di considerare quanto decisiva fu per Fëdor Dostoevskij
l’esperienza da condannato a morte graziato proprio qualche istante prima
dell’esecuzione sul patibolo? E ancora: quale Hemingway leggeremmo senza il suo
doloroso coinvolgimento nei due conflitti mondiali? È un tema, quello del
riflesso del reale nell’immaginario, che naturalmente coinvolge anche i grandi
scrittori isolani. Pirandello su tutti. Di lui, per di più, si è occupato uno
“studioso” d’eccezione, vale a dire Andrea Camilleri. A lui si deve infatti Biografia
del figlio cambiato (1° edizione Rizzoli, 2000), una peculiare ricostruzione
delle dinamiche familiari entro cui si snodò l’esistenza dell’autore dei Sei
personaggi. Un contributo prezioso, che fuor da ogni pretesa di esattezza – come
lo stesso Camilleri tiene a sottolineare fin dall’esordio della sua fatica –
ripercorrendo a più riprese i passi compiuti dal giovane Luigi, riesce tuttavia
a gettare luce su alcuni degli aneddoti e degli eventi-chiave che più
contribuirono a rendere Pirandello un osservatore implacabile delle assurdità
umane. In cima a questa
sfilza di dissonanti vicissitudini non poteva che esserci il luogo di nascita
dello scrittore. O, piuttosto, come lo definisce Camilleri tingendo il suo
scrivere con il pensiero pirandelliano, un non-luogo. Quella contrada, del
resto, divenuta celebre per il suo nome – Caos – da un giorno all’altro, per
decreto di Ferdinando II, si era ritrovata a fungere da linea di spartizione tra
Girgenti e il neonato comune di Porto Empedocle. Ad essere, essa stessa, né
carne né pesce. Frastagliata, ricoperta di terreni boschivi, divisa a metà tra
due comuni. Esistente nella sua inesistenza. Dotata solo di quel nome
altisonante. Anch’esso, tra l’altro, nato dal nulla: «La linea di confine tra i
due comuni, lungo la litoranea, venne fissata all’altezza della foce di un fiume
da tempo immemorabile essiccato che tagliava in due una contrada, chiamata ora
“’u Càvusu ora “’u Càusu”. Ora, in dialetto siciliano, tanto càvusu quanto càusu
significano la stessa cosa: pantaloni. E veramente un paio di pantaloni doveva
parere quel pezzo d’altopiano taliàto da chi vi giungeva per via di mare,
spaccato com’era in due proprio dal quel greto asciutto, arido, pietroso che ci
stava in mezzo. E dunque, di questo Càvusu, una metà apparteneva al nuovo Comune
di Porto Empedocle e l’altra metà al comune di Girgenti. Un bel giorno, a
qualche impiegato dell’ufficio anagrafe, parse che non era cosa scrivere sul
registro delle nascite che qualche figlio di viddrani era nato dentro a un paio
di pantaloni e cangiò quel volgare “Càusu” in “Caos”. E da allora la contrada si
chiamò così». A più riprese – è
noto – Pirandello amò definirsi figlio del Caos. Ma quel paradosso, quella
incomprensibilità così radicata nel suo sentire, non fu certo il risultato
soltanto di quel singolo, e singolare, episodio. Fu soprattutto il burrascoso
rapporto col padre Stefano a suscitare in lui un certo malessere di fondo.
Malessere nei confronti della sua autorità, a volte percepita come gretta e
asfissiante, incapace di comprendere i nascenti slanci del suo giovanile
ingegno. Malessere nei confronti della sua ipocrisia, quando scoprì, all’età di
quattordici anni, che la felice facciata del connubio matrimoniale celava in
realtà tradimenti e vite parallele. Da una di queste, spesa ad amoreggiare con
una cugina, il padre di Pirandello aveva visto nascere persino un figlio, che
Luigi finirà per detestare con acrimonia per tutta la vita. Sempre di più, fa
notare Camilleri nella sua appassionata ricostruzione, nella mente dello
scrittore – nella quale rimbombavano anche le infauste predizioni dei paesani,
che gli attribuivano una connaturata vicinanza al male per il solo fatto di
essere nato prematuro, al settimo mese di gravidanza – si faceva largo l’idea di
un’estraneità totale al mondo che lo aveva bizzarramente accolto. Sempre più, in
quella visionaria sensibilità, si facevano largo le storie narrate dalla balia
Maria Stella, a cui Pirandello tornerà a più riprese per prendere ispirazione
per alcune sue novelle. Tra queste, non a caso, ce n’era una che più di ogni
altra l’aveva impressionato: la storia del figlio cambiato. Una vicenda classica
del repertorio popolare, che fra varianti folkloristiche, fra streghe e
principi, racconta sostanzialmente della ricerca disperata messa in atto da una
madre che ha visto il proprio legittimo figlio scambiato in culla. E Luigi, che
in quella famiglia si sentiva tutto fuorché compreso, ha la sensazione che
quella storia parli di lui. Che le sue intuizioni sull’insensatezza dell’agire
umano, sull’incomunicabilità e sull’impossibile compiutezza del concetto di
identità, abbiano l’aspetto di una amara scoperta. «Appena in età di ragione,
Luigino comincia ad avere dei dubbi sulla sua appartenenza. Cosa ha da spartire
lui, compassato, tutt’altro che discolo, incline al raccoglimento, con grandi
occhi attenti tra i riccioli castani che scendono sino ai lati del viso con
quell’omaccione ululante, iroso, impulsivo, che tanto fa piangere la mamma?».
Altrove Camilleri scriverà: «Tra loro, perciò, non correva né la manifestazione
di un sentimento né la possibilità di un rapporto ragionato».
Dallo sgretolamento dell’identità alla poetica delle maschere il passo è breve.
Così come dalla compressione alla follia. O forse, in fondo, il passo non è così
breve. Forse la storia di quel bambino nato in un luogo mai esistito non è che
la storia di altri bambini. La storia di bambini divenuti ragazzi in famiglie
non idilliache, certo, ma comunque famiglie. Forse, anch’essa divenuta, col
tempo, una commedia da teatro della vita. La storia di uno scrittore che versa
il proprio inchiostro su quello di un altro scrittore. In un cerchio infinito
tra essere e non-essere. Tra vita e parole che le somigliano. Joshua Nicolosi
«Se davvero Shakespeare fosse
siciliano? Ci piacerebbe, per spirito di patria, poterlo credere, ma la storia,
si sa, non la si fa coi se»! Da questa suggestione, prende avvio lo spettacolo Troppu
trafficu ppi nenti di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale (che cura anche
regia e scene). Lo spettacolo, prodotto dal Teatro della Città – Centro di
Produzione Teatrale, sarà in scena al Teatro Brancati di Catania da giovedì 2
maggio (debutto ore 21) fino al 10 maggio. Un’occasione imperdibile per vedere
la pièce che, dalla sua prima rappresentazione nel 2000, è stata accolta con
grande successo in Italia e all’estero. In scena, in questa nuova edizione, un
nutrito cast formato da – in ordine di apparizione – Angelo Tosto, Ramona
Polizzi, Lucia Portale, Anita Indigeno, Lorenza Denaro, Filippo Brazzaventre,
Ruben Rigillo, Daniele Bruno, Cosimo Coltraro, Luciano Fioretto, Alex Caramma,
Vincenzo Volo, Valerio Santi, Rosario Valenti, Pietro Casano. I costumi sono di
Dora Argento e Angela Gallaro Goracci. «Michele Agnolo o
Michelangelo Florio (Scrollalanza dal lato materno), di origine quacquera, visse
parte della sua vita, sfuggendo alle persecuzioni religiose, nelle isole Eolie,
a Messina, a Venezia, a Verona, a Stratford e a Londra», introduce così il
lavoro l’autore e regista Giuseppe Dipasquale. «E fu autore di molte tragedie e
commedie ambientate nei luoghi suddetti, che dimostrava di ben conoscere, così
come dimostrava di ben conoscere la lingua italiana ed il teatro italiano,
nonché di avere una buona dimestichezza con la scena italiana. Alcune sue opere
rinvenute sembrano essere la versione originaria di altre ben note opere
attribuite a Shakespeare, come Troppu trafficu pì nnenti, scritta in messinese,
che potrebbe essere l’originale di Troppo rumore per nulla di Shakespeare,
apparsa 50 anni dopo».
Una bella suggestione, senza dubbio. Da cui è nata l’idea
di un Troppo rumore per nulla in salsa siciliana. «Immaginiamo, quindi –
continua -, una Messina in mezzo al Mediterraneo così come Shakespeare se la
poteva immaginare: esotica, viva, crocevia di magheggi, che avrebbero fatto di
una festa nuziale il complicato intreccio per una giostra degli intrighi.
Immaginiamola seguendo con le orecchie la parlata di quei personaggi che nel
vivo di un dialetto carico di umori e ambiguità, dipana le trame di una vicenda
originariamente semplice, ma dai risvolti complicatissimi. Immaginiamo che tutto
ciò sia il frutto di un carattere tipicamente mediterraneo, se non propriamente
siciliano ed ecco che potremo anche credere, anche solo per una volta, che
William Shakespeare, di Stratford- on Avon , sia potuto essere quel tale Michele
Angelo Florio Crollalanza partito in fuga da Messina. Poiché non c’è nulla di
meravigliosamente siciliano che il potere complicare, da un dato semplice, una
vicenda fino a farla diventare surreale». «Questo Troppu
trafficu ppi nenti – conclude Dipasquale – è il modello eterno di un carattere
terribilmente semplice, come quello siciliano, che ama complicarsi l’esistenza
in un continuo arrovugliarsi su se stesso. Merito particolare di questa
creazione, la lingua siciliana illustre ricostruita nelle sue scaturigini più
nobili, con qualche spazio per la modernità del proverbiare e scelte fonetiche
che appaiono insolite oggi, ma che dovevano essere consuete in corti dove il
latino era la lingua diplomatica. Solennità di portamento e dizione rotonda per
tutti tranne nei riquadri burleschi che il Bardo inframmetteva anche nelle più
cupe storie per stemperarne l’amaro. Allora (nell’episodio della ronda notturna)
si sprigiona l’umor faceto di tre guardie dai modi levantini, dal linguaggio
misto di assonanze orientali e di comiche caricature espressive. Per il resto è
teatro di parola, in cui espressioni arcaiche danno lo spessore di una cultura
antica di secoli ai più ignota, di avere esitato a montare la macchina degli
inganni che poi non vengono neanche mostrati».
Non a caso, il regista ha proposto come centrale a fine primo atto la scena del
balcone, che l’originale riserva a un veloce racconto pur essendo il perno di
tutto, falciando invece tra i frondosi dialoghi che talora fanno sfuggire i
caratteri.
Scegliere non è facile ma le definizioni aiutano: se
parliamo di fiction escludiamo
i primi vent’anni della tv italiana (niente sceneggiati) e consideriamo solo la
produzione nazionale (niente telefilm né serie statunitensi). […]
L’erede dello sceneggiato: Il
Commissario Montalbano (Rai
2-Rai 1, 1999-) Trasmessa da Rai 2 nel 1999 e da Rai 1 a partire dalla quarta stagione, Il
Commissario Montalbano è l’adattamento televisivo dei romanzi di
Andrea Camilleri. Due o quattro episodi autoconclusi per ciascuna stagione, dove
il protagonista (Luca Zingaretti) risolve casi ambientati nell’immaginaria
cittadina siciliana di Vigata con l’aiuto di un microcosmo di personaggi
ricorrenti adorati dal pubblico. Gli ascolti si mantengono altissimi anche nelle
repliche dei singoli episodi trasmesse nel corso degli anni. L’aderenza al
linguaggio letterario, l’equilibrio tra comico e tragico, il ritmo blando della
narrazione, l’attenzione alle relazioni rivisitano alcuni stilemi classici, e
molto amati, dello sceneggiato.
[…]
Daniela Cardini
[…] Un balzo nel tempo ed
eccoci al ricordo di Andrea Camilleri, il quale, attentissimo nello scegliere
per i suoi personaggi siciliani cognomi altrettanto siculi (e spesso esclusivi
della provincia di Agrigento), quando si muoveva fuori della sua isola non era
più così impeccabile. Nel Cane di terracotta, una delle più celebrate
avventure del commissario Montalbano (1996), cava dal cilindro un certo agente Balassone che
«malgrado il cognome piemontese, parlava milanese». Solo che quel nome di
famiglia è decisamente abruzzese, con epicentro Sulmona e Pettorano sul Gizio,
nell’Aquilano. Illustre precedente nei Promessi sposi: a far arrestare
Renzo, dopo la rivolta del pane a Milano, è un tale Ambrogio Fusella, che
dal racconto non si direbbe abruzzese come inconfondibilmente lo è il suo
cognome. […] Certo, questi grandi
della letteratura non disponevano degli elenchi degli abbonati telefonici o di
altri documenti utili. E forse se pure li avessero avuti non li avrebbero
consultati. E i casi sono tanti: in Cuore, il calabrese Coraci,
che giunge in classe ad anno scolastico avanzato, pur se ben connotato come
reggino porta un nome di famiglia esclusivamente sardo. Perfino il teatro di
Eduardo ha più cognomi siciliani, pugliesi e romani che napoletani (a cominciare
da Marturano, siciliano e pugliese, mentre Cupiello è
d’invenzione). E per tornare su Camilleri, la famiglia Carlesimo, con un
nome di battesimo Turiddruzzu che non lascia dubbi sulla sicilianità, ha
un cognome in realtà ciociaro. Catarella è invece del tutto inventato [Errore:
il cognome Catarella esiste realmente, NdCFC] e per questo con diritto di
cittadinanza in una fiction.
[…]
Enzo Caffarelli
Faceva crescere le
storie Andrea Camilleri, abile tessitore di regie, costruttore di stilemi, un
maestro ora manzoniano e sciasciano nel penetrare le crepe della storia
consultando archivi e documenti per i suoi romanzi storico-sociali, ora
volterriano nell’osservare, anche con la cifra dell’ironia, la realtà, i fatti
della quotidianità che a partire da un dettaglio restituiscono verità di degrado
morale, derive di cinismo e corruzione, di avidità insaziabile (soldi, sesso e
potere) nei compromessi abituali degli esseri umani. Spunti che sarebbero
diventati romanzi, sceneggiati televisivi – fiction come si dice oggi, epopea
del commissario Montalbano compresa – , spettacoli teatrali. Un destino, quello
di raccontare, sin da quando, ragazzo, scriveva poesie di carattere sociale (era
un lettore di Majakovskij); sin da quando, adulto, curava gli sceneggiati in
bianco e nero della vecchia tv, come certi straordinari Maigret con Gino Cervi,
e si appassionava ai caratteri dei personaggi.
Aveva fatto molte cose nella sua vita Andrea Camilleri, e sicuramente il regista
per gran parte del suo tempo terreno, poi con il suo Montalbano era divenuto il
“caso Camilleri”, tuttavia nel suo inesauribile scrigno narrativo non c’erano
solo Vigàta e gli stilemi di una lingua inventata, ma altri romanzi scritti in
un italiano terso e di forte tensione narrativa.
Come quello di «Un sabato, con gli amici», pubblicato per la prima volta da
Mondadori nel 2009 e ora ristampato da Sellerio con una bella postfazione di
Nicola Lagioia. «Non è un giallo – scrive Salvatore Silvano Nigro nel risvolto
di copertina – anche se l’ingombro di un cadavere non manca con gli
interrogativi che pone, in margine a un finto quanto torbido tentativo di
ricatto». Ma non c’è “solo” un cadavere, c’è molto altro, dispiegato sin dal
titolo (di forte valenza allusiva è la virgola dopo «sabato»), dialogo dopo
dialogo, scena dopo scena: abusi, sesso malato, intrighi, guasti che finiscono
per appestare i personaggi.
Al centro della trama c’è una rimpatriata tra amici, un sabato, topos cui ha
attinto spesso il cinema: si conoscono sin da bambini, sono stati compagni di
scuola, e nonostante i traumi infantili che più o meno hanno toccato tutti, e
che non sono riusciti ad elaborare, sono diventati adulti apparentemente ben
inseriti nelle professioni e in una vita sociale di elevato tenore. Ma ci sono
segreti, doppie vite, cinici conformismi, che in quel sabato riaffiorano
drammaticamente: tutto innescato dall’improvviso ritorno di un amico di cui
avevano perso le tracce. Un «teatro della crudeltà – scrive Lagioia – costruito
da Camilleri in modo chirurgico e spietato» intorno a questi ragazzi divenuti
“mostri” come per un’orribile mutazione, tra volgarità, cinismo, malevolenze,
invidia, e «uno sfrenato individualismo, insieme a doppiogiochismo e ricatti».
Metafora amara per dire del popolo italiano, suggerisce Lagioia, da parte di
chi, come Camilleri, dopo il disastro del fascismo, da lui vissuto, aveva
sperato «nella possibilità che gli italiani (da sudditi, sottoposti,
conquistati, obbligati a saltare nei cerchi infuocati) diventassero un popolo
libero, affrancato».
Patrizia Danzè