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Galileo Galilei

Intervista impossibile

 


Il 6 giugno 2009, al Teatro Verdi di Pisa, nell'ambito delle manifestazioni per l'Anno Galileiano, è andata in scena l'Intervista impossibile a Galileo Galilei di Andrea Camilleri.
A dialogare con Camilleri, nelle vesti di Galileo, Roberto Scarpa.




Riportiamo la parte finale del testo dell'intervista, pubblicata su La Stampa il 7 giugno 2009

Lei poco fa ha detto che si tiene informato. Conosce Bertolt Brecht?

«No. Chi è?».

Un grande drammaturgo del ’900. Ha scritto un dramma su di lei, Vita di Galileo.

«Ne hanno dette e scritte tante sul mio conto che una più una meno... Sentiamo».

Brecht, sostanzialmente, non vuole giudicare la sua abiura.

(Ironico) «Gentile da parte sua».

Egli pensa che più che altro l’abiura sia dovuta allo scoramento di chi, avendo l’assoluta certezza d’avere rivoluzionato la concezione del mondo, viene trattato alla stregua di un truffatore o di un ciarlatano. Scrive testualmente Brecht: «Al fervore segue allora lo spossamento, alla speranza forse esagerata una disperazione forse altrettanto esagerata. E chi non cade in preda al torpore e all’indifferenza, finisce peggio». Ma le aggiungo che quando lo stesso Brecht discusse della sua abiura con gli scienziati che avevano appena fabbricato e fatto esplodere la prima bomba atomica - ha presente l’atomica?, a Los Alamos - essi all’unanimità si dichiararono d’accordo con lei. Sostenevano che, abiurando, lei si mise nella condizione di poter tranquillamente continuare i suoi studi e trasmetterli ai posteri. Mi rivela la sua verità sull’abiura?

«Potrei risponderti facilmente così: ho abiurato per le ragioni che hai appena dette, per un misto di ciò che ha scritto Brecht e di ciò che hanno sostenuto gli scienziati americani. Ti basta?».

Sinceramente no. Troppo facile.

«Tu l’hai letto il testo dell’abiura?».

Quello scritto da lei? Sì.

«Non l’ho scritto io. Me l’hanno scritto loro. Io ci ho messo la firma».

Non ebbe esitazioni all’atto di firmare?

«In quel momento non più. Tutto era già accaduto, tutto era già stato patito da me prima. Sapevo che il secondo processo non era come il primo. Bellarmino era morto. Ora andavo incontro a una seria condanna, andavo incontro al carcere. Passai notti insonni. Mi chiedevo: perché occorre in tutto ciò la mia acquiescenza? Possibile che non si possa divorarmi semplicemente, senza pretendere che io mi profonda in lodi per chi mi divora? E ancora: se è indispensabile la sottomissione, se si deve obbedire senza recriminazioni e senza ragionamenti, forse bisogna accettare perché nell’altro mondo di certo ci sarà una ricompensa per la mia docilità. E subito dopo: meglio non piegarsi, fissando il sole luminoso nel cielo, il sole che spande coi suoi raggi una forza immane, incalcolabile, per tutto l’universo. Meglio…».

Si fermi, professore.

«Perché?».

Perché ho scoperto il suo gioco. Lei, da qualche minuto, sta citando Dostoevskij. E, precisamente, L’idiota. Se vuole, posso continuare io fino al punto nel quale è detto che c’è un limite alla mortificazione dell’uomo, superato il quale quella stessa mortificazione si tramuta in un immenso godimento.

«Peccato, non ha funzionato. Mi era sembrata una buona idea. Ti facevo più ignorante».

Guardi, professore, facciamo così. Le prometto che se mi risponde con sincerità sul motivo che l’indusse a firmare l’abiura, non le farò altre domande.

«Parola d’onore?».

Parola d’onore.

«Vedi, quando mi trovai davanti ai giudici ero fermamente deciso a non abiurare. Mi stavano processando per avere pubblicato il Dialogo sopra i due massimi sistemi. Ma io l’avevo fatto stampare a Firenze dopo lunghe trattative e con tanto di loro imprimatur! Subito dopo però la Chiesa ordinò la sospensione delle vendite e mi comandò di presentarmi al Sant’Uffizio. Insomma, senza degnarsi di darmene una spiegazione si erano rimangiati l’imprimatur. Comunque avevo buone carte in mano per difendermi».

Perché non lo fece?

«Perché mi fecero leggere l’atto d’abiura».

Non capisco.

«Il rituale voleva che loro mi consegnassero l’atto d’abiura e che io lo leggessi ad alta voce. Prima dunque non avevo avuto modo di conoscerlo. Furono due righe a convincermi».

Quali?

(Le recita a memoria) «… ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonzierò a questo Santo Offizio, o vero all’Inquisitore, o Ordinario del luogo dove mi trovarò».

Ora ho capito perché ha citato Dostoevskij! È il piacere che si può provare nel raggiungere l’abiezione che l’ha fatta firmare!

«Non hai capito niente. Ho scoperto, ma solo in quel momento, che quegli uomini che si ergevano a miei giudici e che io temevo erano meno che feccia. Che non solo godevano del pentimento del peccatore, ma pretendevano che si trasformasse in delatore. E quindi mentire a loro, pensai, non poteva esser considerato né peccato né spergiuro. Io, davanti a loro, ero intangibile. Erano loro, con la loro bassezza, a farmi diventare irraggiungibile come il sole. Non c’erano, non esistevano. Oltretutto non li vedevo materialmente, non distinguevo i loro visi, cominciavo già a vederci poco. Quello che mi domandavano di fare non aveva alcun senso o valore. Firmai non per paura, per viltà, per obbedienza, per opportunismo, ma per un gesto di supremo orgoglio. Vidi chiaramente, mentre prendevo la penna in mano, il giorno in cui m’avrebbero umilmente domandato scusa. Firmai, ma un istante dopo me ne pentii».

Oddio, se ne pentì? Non ci capisco più nulla.

«Mi pentii non d’avere firmato, ma della ragione che m’aveva spinto a firmare. Mi pentii del mio peccato di smisurato orgoglio. E continuo a pentirmene. E adesso basta. Ho parlato troppo. Sei uomo di parola?».

Sì, ho capito. Tolgo subito il disturbo. Arrivederla, professore.

«Non vedo nessuna necessità di rivederci. Addio».




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