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Niccioleta

Una strage/storia poco nota

 

Da un'idea di Andrea Camilleri
Traduzione orale Ascanio Celestini

Auditorium Parco della Musica - Roma
29 marzo 2014


È il 13 giugno del 1944 quando i reparti nazisti e fascisti invadono Niccioleta, in Toscana. Molti abitanti di questa frazione non si sono presentati ai posti di polizia fascisti e tedeschi di Massa Marittima a causa di un manifesto di Giorgio Almirante affisso in tutti i comuni della provincia di Grosseto: è questo il motivo per cui devono essere puniti.
Dietro il forno della dispensa, in un piccolo cortile, 6 minatori vengono fucilati, un settimo riesce invece a scappare nascondendosi nella boscaglia grazie a un attimo di distrazione del fascista di guardia. Dei 150 operai deportati a Castelnuovo di Val di Cecina, 77 minatori sono giustiziati sulla strada per Larderello, 21 mandati in Germania e gli altri vengono infine liberati.
Nato da una storia inedita donata da Andrea Camilleri per la magistrale interpretazione di Ascanio Celestini, Niccioleta - Una strage/storia poco nota è il racconto di un massacro dimenticato tra le molte rappresaglie della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Lo spettacolo è il terzo appuntamento di Inedito d’Autore, un progetto dedicato al Teatro di Narrazione promosso dall'Associazione Culturale 15 Lune in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma.


Lavoravano tutti, lavoravano tanto, lavoravano sempre i minatori della Maremma. Si chiamavano anche operai di miniera. Gente che se ne va sotto terra. Se ne va lì sotto a raccogliere argento e carbone, pirite e lignite.
All’inizio di agosto del 2012 vado a trovare Andrea Camilleri nella sua casa di Bagnolo di Santa Fiora in provincia di Grosseto. Ci sediamo sotto due castagni nel giardino. Si chiamava Angelo Mai il vecchio proprietario che gli ha venduto il terreno. Gliel’ha venduto e poi ci ha ripensato è andato a trovarlo con l’accetta e voleva portarsi via quei due grossi alberi. Diceva che gli aveva venduto la terra, ma non gli alberi che ci stavano sopra, ma Andrea riuscì a dissuaderlo e stanno ancora lì nel suo giardino a fare ombra. C’era anche un serpente in questo pezzo di terra alcuni anni fa. “Era un innocuo verdone” mi dice. Il nome col quale viene chiamato dipende dai posti. A Roma quel tipo di biscia l’ho sempre sentita chiamare “frustone”, in altri luoghi è chiamato “blacco” o “biacco”. “Alle sette del mattino attraversava qui e se ne andava” mi dice, “alle sette di sera riattraversava. Allora gli davamo il latte e lui beveva”. Lo chiamavano Don Gaetano a quel serpente e gli davano il latte come a un gattino.
Sotto ai castagni di Bagnolo salvati dall’ascia di Angelo Mai, però, Andrea Camilleri non mi vuole parlare della sua casa e di quando c’è venuto a stare per passare qualche settimana d’estate. Ma lui è uno straordinario narratore e prima di arrivare al centro della storia mi ci vuole accompagnare piano piano. E ancora per un po’ ci gira attorno. Mi racconta che in ogni paese c’è un cognome che lo caratterizza. Per esempio a Castel del Piano si chiamano tutti “Ginanneschi” dice “e tutti si chiamano Peppe di nome. Una volta venne uno a chiedere dei mietitori e partirono otto mietitori, otto Peppe Ginanneschi… racconto meraviglioso del sindaco di Castel del Piano, narratore meraviglioso. Otto Peppe Giganteschi e un asino che si chiamava Peppe”.
Così, piano piano, Andrea mi avvicina al suo racconto come quando fai un regalo a qualcuno e glielo porti in un pacco incartato e infiocchettato. Prima di capire cos’è devi togliere il fiocco e scartarlo. Il regalo di Andrea è una storia del paese di Niccioleta.
Ci stava la miniera a Niccioleta, ma non solo lì. C’erano miniere in molti paesi attorno. Le chiamano “colline metallifere” e coprono un territorio che interessa quattro province. Furono sfruttate soprattutto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 quando ai cognomi tutti uguali che riempivano questi paesi se ne aggiunsero altri che venivano dal Veneto e dalla Sicilia e dalla Sardegna. Venivano per lavorare Ernesto Balducci che era nato da quelle parti parla della “loro religione del lavoro e della famiglia, questa elementare religione del popolo che essi hanno vissuto fino a morirne”. E infatti è proprio di questo che Camilleri vuole parlarmi.
Stava finendo la guerra ai primi di giugno del 1944 da quelle parti e i tedeschi cominciavano ad andarsene, ma a Niccioleta i minatori temono che prima di partire facciano saltare in aria la miniera. Così prendono le poche armi che hanno, qualche pistola e qualche fucile da caccia e fanno i turni di guardia per difendere il proprio lavoro. Dura poco perché si accorgono che se davvero arrivassero i tedeschi sarebbero meglio armati e per gli operai di Niccioletà finirebbe male. E infatti i tedeschi arrivano, ma sono tedeschi solo il comandante e i sottufficiali. I militari erano tutti italiani con divise tedesche. Si tratta dei militari scappati dopo l’8 settembre che i tedeschi avevano arrestato e internato. A loro era stata data la possibilità di tornare in libertà vestendo la divisa repubblichina o tedesca. La maggior parte rifiuta, ma quelli che accettano sanno che verranno utilizzati per un lavoro di repressione nei confronti di partigiani e civili. Lo sanno e accettano. Proprio questo accadde a Niccioleta. Il 13 giugno vennero fucilate sei persone e il giorno successivo altre 77.

(Lo stralcio sopra riportato, in cui Ascanio Celestini racconta la genesi del testo, è stato pubblicato su Left del 23.4.2016 col titolo Resistenza ed etica del lavoro. La strage di Niccioleta)


Lavoravano tutti, lavoravano sempre, lavoravano tanto. Mangiavano e bevevano. Ad alcuni piaceva bere molto. Nei loro letti ci dormivano, quando potevano ci facevano anche l’amore. Facevano tante cose. Conoscevano i boschi per esempio. Conoscevano gli alberi nei boschi. Conoscevano il nome degli animali. Raccoglievano i frutti nei boschi, le castagne per esempio, quando arrivava l’autunno, ma anche i funghi quando era periodo di funghi. A molti piaceva andare a caccia. Ci andavano perché avevano incominciato da ragazzini, coi genitori, c’erano stati coi nonni e spesso avevano fucili vecchi di generazioni. Gli piaceva andare a caccia. E anche a pesca. Conoscevano i fiumi. E dei fiumi conoscevano i pesci che ci stavano dentro Gli piaceva girare per i boschi. Però andare a pesca o a caccia non era il primo dei loro pensieri, perché il primo pensiero per loro era lavorare.
Lavoravano tutti, lavoravano tanto, lavoravano sempre. E volevano lavorare. Qualcuno era stato in città, per motivi di lavoro. Qualcuno proveniva da un altro paese e per arrivare era passato dalla città e raccontava di come era fatta la città e alcuni pur non essendo mai andati in città sapevano che la città era più grande del paese. Lo sapevano, lo immaginavano, anche se non c’erano mai stati. Alcuni venivano da paesi molto lontani e di città ne avevano viste tante. Alcuni del paese erano andati in altri paesi e avevano visto altre città ed erano tornati indietro. Però il primo dei loro pensieri non era andare a visitare le città anche se avevano la curiosità di andarle a vedere però non era il primo dei loro pensieri perché loro pensavano soprattutto al lavoro, era quello che gli interessava.
Amavano i loro figli, amavano le loro donne, le loro compagne, le loro mogli, rispettavano i genitori. Quando i vecchi morivano, gli facevano il funerale, la messa funebre, poi col funerale si partiva dalla chiesa e si arrivava fino al camposanto, li mettevano sottoterra, gli portavano i fiori. Quando ricorreva l’anniversario della loro morte si alzavano, piangevano, andavano a trovarli al camposanto. Pregavano per loro, gli facevano la messa, perché tutti o quasi tutti andavano a messa. E molti ci credevano per davvero, molti pregavano e spesso, quando pregavano, pregavano per la salute dei figli, per la loro salute, pregavano per tante cose. Ma il primo dei loro pensieri era il lavoro e loro pregavano per il lavoro affinché non lo perdessero, né loro, né i loro figli. Ecco, il lavoro era la loro fede, era la religione del lavoro, il primo dei loro pensieri.
Cantavano pure. Cantavano «Oh bella, bella, bella, bella bella,/ il sole sotto il letto ti ci balla/ ci balla e ti ci fa la tarantella». Cantavano tanto, cantavano quando andavano al lavoro, cantavano quando tornavano dal lavoro. Cantavano alle feste, cantavano dell’amore. Alcune canzoni parlavano del vino, del cibo.
Cantavano pure le canzoni dei santi, certo. Qualcuno aveva qualche strumento musicale, però erano pochi quelli che ce li avevano, perché la voce è gratis, invece per lo strumento musicale bisogna spendere i soldi per comprarlo e bisogna avere anche il tempo per imparare a suonarlo. Ma spesso, anche quando cantavano pensavano al lavoro che era il primo e più importante dei loro pensieri.
Qualcuno sapeva leggere e scrivere, ma proprio uno ogni tanto. Molti però sapevano fare la propria firma, scrivere il proprio nome e avevano imparato quelle due, tre paroline scritte che gli servivano per il lavoro, per esempio per leggere la busta paga. Oppure la matematica, qualcuno sapeva di matematica, anzi, a dire la verità, un po’ di matematica la conoscevano tutti. Era la matematica che gli serviva e che avevano imparato per lavorare. Spesso era una questione di metri, di lunghezze. Dico, per esempio: metri di lunghezza di un carreggio, metri di profondità di una discenderia. Spesso le parole che usavano erano solamente loro, parole con cui solo loro si capivano. Tipo, per esempio, parlavano in questa maniera: dicevano carichino o fochino, salbanda, pistoletto, smarino, calcatoio e borraggio, giavinatura e bullonnaggio, smorza, brillamento e discaggio, mina barramina nettamina e canna da mina.
E anche quando usavano le parole che conoscono tutti, le usavano alla maniera loro. Se parlavano di «armatura», loro non pensavano a quella dei cavalieri medievali. Quando parlavano della «padrona» non si riferivano alla padrona di casa, alla padrona dell’osteria, non era una cosa che era fatta di carne ed ossa, non era una persona. (...) Poi c’erano altre parole come «la volata». Ecco, fare la volata! Per loro non aveva niente a che vedere col ciclista in fuga. E il «fronte»? Non c'entrava niente con la guerra mondiale.
Se gli avessi detto che lavoravi al «ribasso», loro non avrebbero pensato che tiravi sul prezzo. E non si riferivano neanche alle aziende che lavorano a ribasso per prendere le commesse. Se gli avessi detto che dal camino passava il fumo si sarebbero messi paura. Se poi tu, in maniera discreta, gli spiegavi che era normale, perché in fondo al camino ci sta il fuoco, gli avrebbe preso un accidente, avrebbero pensato a un tragedia, a una disgrazia. Perché le parole del loro lavoro le conoscevano solo loro. Perché erano le loro parole. Perché loro con quelle parole si capivano benissimo.
Seguivano il calcio, come quasi tutti seguivano il calcio. A quel tempo si seguiva meno. A quel tempo non c’era il campionato tutta la settimana, non c’erano tutti i giornali che parlavano di calcio, tutte le televisioni che parlavano di calcio, a quel tempo non c’era neanche la televisione. Però lo seguivano, magari alla radio che stava in oratorio o al circolo operaio. Però, se gli avessi chiesto come va la squadra, non avrebbero pensato al pallone. Avrebbero pensato subito alla squadra dei minatori.
«La squadra che fa i debiti/ la squadra che fa i debiti/ fa i debiti, fai debiti, non ti lasciar patir/ la squadra che fa i debiti/ noi siamo tutti qui».

(Lo stralcio sopra riportato è stato pubblicato su l'Unità del 6.7.2014, col titolo Il canto dei minatori, in occasione della replica portata in scena a Cassino per il Festival del Teatro civile CassinoOFF)



Video-intervista ad Ascanio Celestini a cura di Farncesca De Sanctis (l'Unità, 6.7.2014)


Nel comporre il suo intervento, la sua traduzione orale di un’idea fornitagli da Andrea Camilleri, Ascanio Celestini ha lavorato di suo su Niccioleta. Una strage/storia poco nota, e a proposito dell’eccidio messo a punto da reparti nazisti e fascisti il 13 giugno del 1944 nella località toscana richiamata dal titolo, una condanna a morte comminata contro minatori trovati in possesso di armi solo per la difesa del proprio posto di lavoro, le miniere, Celestini ha (ri)costruito un percorso, un monitoraggio, una mappa dell’orrore che comminò la morte di un’ottantina di maestranze del sottosuolo. Nella sua esposizione di stasera, c’è posto per dichiarazioni di padre Balducci, per i contenuti del libro “I minatori della Maremma” di Bianciardi e Cassola, per una lettera a una madre, e per la conversazione avuta con lo stesso Camilleri.
(La Repubblica (ed. di Roma), 29.3.2014)


Celestinianamente, il lavoro

Si è conclusa "celestinianamente" la rassegna "Inedito d'autore" all'Auditorium Parco della Musica di Roma. Le tre serate hanno visto succedersi sul palco della sala Sinopoli tre fra i più importanti rappresentanti del teatro di narrazione italiano: Marco Paolini, Marco Baliani e Ascanio Celestini.
Le storie, selezionate da Andrea Camilleri e "donate" ai tre narratori, sebbene molto diverse tra loro, avevano lo scopo di far conoscere al pubblico vicende poco note della storia dell'Italia e degli italiani.
Con "Niccioleta", Ascanio Celestini continua la sua instancabile ricerca sul lavoro e sulla Resistenza. La storia che Andrea Camilleri ha scelto per lui parla dell'eccidio nazista di Niccioleta, piccolo paese minerario nel Grossetano.
Il 13 giugno del '44, i 150 minatori che lavoravano alla miniera del paese vennero deportati (e 77 poi fucilati) per aver difeso con le armi la loro miniera dal rischio di attentati nazisti, nei giorni concitati della guerra partigiana.
E' una vicenda poco nota, forse perché meno legata di altre alla Resistenza vera e propria; infatti, dice Celestini, i lavoratori protagonisti, della strage non lottavano in nome della liberazione dell'Italia dall'invasore fascista, ma per preservare la loro miniera e quindi il loro diritto di continuare a lavorare.
Celestini inserisce nello spettacolo brevi estratti audio in cui è lo stesso Camilleri ha raccontare stralci della storia con ironia e calore.
E lo spettacolo è "celestiniano" non solo nella sostanza, ma anche nella forma, nella cura del linguaggio, nel privilegiare l'atto di narrare che è di per se stesso garante della memoria del passato.
Come sempre solo sul palco, senza intrusi scenografici, salmodiando vecchi canti operai, con un leggìo (che quasi non usa, per fortuna!), l'imbonitore Celestini racconta dell'importanza della lotta per il diritto al lavoro, ieri come oggi, soprattutto oggi, in un'epoca in cui il lavoro appare sempre più come un'entità aleatoria ed evanescente.

Antonio Careddu, La Voce, 9.4.2014



Il testo e la registrazione audio dello spettacolo sono stati pubblicati in un libro+cd edito da Skira, a cura di Annalisa Gariglio.





Last modified Sunday, April, 24, 2016