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Il sonaglio



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 12,00
Pagine 195
Data di pubblicazione 12 marzo 2009
Editore Sellerio
Collana La memoria n.777
e-book € 8,49 (formato epub, protezione acs4)


Dopo Maruzza Musumeci e Il casellante, il terzo libro della "Trilogia delle metamorfosi": la trilogia di romanzi fantastici con cui Camilleri si dimostra il cronista, il favolista e il mitografo della comunità vigatese.

«Il meglio di me risiede in questa trilogia fantastica» - Andrea Camilleri

Sicilia, primi anni del 1900. Una epidemia svuota le miniere di zolfo e c’è bisogno di manodopera fresca. Vengono ingaggiati i carusi della provincia di Montelusa, allettando i genitori con il “soccorso morto”, una somma a fondo perduto in cambio del figlio.
Ma il padre di Giurlà, tredicenne di Vigàta, non ci sta, sa che chi estrae zolfo si consuma sottoterra e preferisce mandare il figlio a pascolare capre nei feudi di un nobile dall’altro lato della Sicilia.
A Giurlà la vita della mànnara piace, gli odori e i colori della campagna, ma anche la capanna col focolare in pietra, il lago, profondo e taciturno, la solitudine, le capre. Ce ne è una in particolare che non lo lascia mai: è Beba.
Nel trascorrere delle stagioni Giurlà il pastorello si fa uomo e sempre più ama stare da solo tra le montagne. Le sere alla mungitura le donne cantano e raccontano storie; ce ne è una soprattutto che conosce storie dell’antichità, quando gli dei potevano trasformarsi in alberi o animali. Giove che si muta in cigno per amore di Leda, Pasifae presa da passione per il toro con cui concepisce il Minotauro.
Storie di metamorfosi e miti che colpiscono Giurlà che guarda a Beba con occhi nuovi. Soprattutto dopo che il caso avrà messo sulla sua strada Anita, la giovane marchesa di Santa Brigida che ama sostare sulle rive del lago.
Gli eventi precipitano e qualcosa succede in fondo al lago.

«Questo romanzo conclude un ciclo iniziato con Maruzza Musumeci e Il casellante. Sono tre storie che raccontano tre metamorfosi più o meno riuscite. Nei tempi antichi le metamorfosi venivano più facili a dirsi e a farsi»
Andrea Camilleri


La legge suprema delle cose è il mutamento. Nell’antichità lo diceva il poeta Lucrezio: che poneva il mondo a caso, ma negando il mistero di natura e le metamorfosi degli dèi. Eppure il fantastico chiama attorno a sé l’orizzonte tutto della vita normale. È una coestensione della realtà. E autentica se stesso, verificando il pensabile sul visibile. Lo scrittore Tommaso Landolfi, esperto in piedicapre, raccontò una volta di una capra mannara. E ne diede sufficiente testimonianza: «La fanciulla portava le sue appendici caprine come le sirene la loro coda; non ci si rimette di coscienza con questa immagine, né si nuoce alla precisione, giacché non si dà chi, volendo, non abbia visto una sirena». Sui versi tradotti di Lucrezio, Giurlà impara a farsi amico un paesaggio di pascoli e stazzi che prima non gli teneva compagnia; e impara ad accordare la selvatichezza con la felicità e il piacere. L’adolescente Giurlà è un mandriano di capre. Proviene dalla costa. È un ottimo nuotatore, e ha rischiato di diventare un altro Cola Pesce. Ha sfiorato pure il pericolo della deportazione nelle terre calve: poteva diventare un caruso, un nuovo (pirandelliano) Ciàula negli antri infernali e nelle tenebre di una zolfara. Come guardiano di armenti, sugli altopiani, poteva toccargli in sorte (verghianamente) il destino di solitudine di Jeli il pastore. Giurlà approda invece in una prateria. Si immerge e galleggia nell’erba, o nelle acque sciapide di un lago, ora. Sente l’allarme dei sensi. E cerca calore nel pelliccione di una capra, tra una musata e una sgroppata. La capra, Beba, è solitaria: ostinata e fedele; oltre che di permalosa gelosia. Sa battere gli zoccoli, al momento opportuno, e imporsi, dopo i lagni di un belare querulo e dolente. Beba è ferina e misteriosamente umana. Sa amare e farsi amare. Giurlà è, a sua volta, un amante che non sopporta la distanza; e neppure l’attesa. La favola della capra-donna è di nuda tenerezza; assai diversa dalla cronaca pelosa della continuata violenza, che «armàli» più grossi dei becchi consumano intanto su una innocente «pupa» fatta di carne. Beba è diversamente innocente, pur nella sua selvaggia rustichezza. E trova umano riscatto nella complementare Anita: la marchesina, che ha un suo amabile segreto femminile, un mirabile attributo; la moglie di Giurlà, alla fine, con sonaglio al collo e zoccolo caprino. Nelle masserie, una narratrice, continua a raccontare storie di metamorfosi. Ragguaglia su Giove, che si fece cigno per Leda; e su Pasifae, che si fece montare da un toro.
Salvatore Silvano Nigro

A Montelusa scinnero, annaro alla stazioni e pigliaro ’u treno per Castrogiovanni. Mai Giurlà era stato supra a un treno. Maria quanto corriva! E che battarìa che faciva! E tutto ’nzemmula, dal finistrino ch’era mezzo aperto, vitti il mari luntano. Si susì di scatto, s’affacciò.
E ristò a taliarlo ’nfatato. Ma come? Il mari che quanno ci natava dintra gli pariva ’nfinito ora era addivintato ’na striscia che si cunfunniva con l’orizzonti e via via si faciva sempri cchiù stritta, sempri cchiù sottili? Ma com’era possibbili? E mentri se lo spiava, sentiva che il cori gli si era mittuto a corriri chiossà del treno.
Po’ la campagna scancillò il mari. Allura si riassittò.
«Che fai, chiangi?» gli spiò Zuda.
«No, mi trasì nell’occhi qualichi graneddro di carbone» arrispunnì.
Era vero. Ma era macari ’na mezza farfantaria. Pirchì aviva accomenzato a chiangiri prima.
Arrivaro alla stazioni di Castrogiovanni che il soli sinni stava calanno. A Zuda era vinuto a pigliarla con un carretto sò figlio per portarisilla in una campagna dei paraggi.
Fora dalla stazioni, don Sisino detti la truscia a Giurlà.
«Portatilla tu».
«Ma ’u paìsi unn’è?».
«Isa l’occhi».
Giurlà isò l’occhi, ma dovitti isare macari la testa per vidirlo, a ’u paìsi, ’n cima ’n cima a ’na muntagna tanto àvuta che faciva spavento. Si sintì moriri il cori.
«Dovemo acchianare fino a là supra?».
«Non t’apprioccupari, la mè casa è a mezza costa».
Doppo un quarto d’ura che caminava, si sintì stanco.
Non era per il piso della truscia, non era per la strata tutta in acchianata, era l’aria che gli dava stanchizza. Era un’aria che mai aviva respirato, asciutta, frisca, liggera. E dissapita. A liccarisi le labbra, non si sintiva ’nfatti quella punta di salato che c’era nell’aria di mari. Ed era un’aria che faciva smorcare un pititto granni, si sentiva affamato come se erano jorni che non mangiava.
Po’, come ’u Signuruzzo vosi, arrivaro. La casa di don Sisino era a un piano, pulita e in ordini. La mogliere di don Sisino era ’na cinquantina sicca sicca che pariva ’na sarda salata. Si chiamava Assunta e parlava sempri. Mentri conzava la tavola, contò a Giurlà che aviva quattro figli, dù mascoli e dù fìmmine, tutti maritati, e che aviva macari quattro niputi.
«’N conclusioni» si lamentiò «a malgrado di ’sta bella famiglia, io minni staio sula pirchì ognuno de’ mè figli havi la sò casa e Sisino sinni parti la matina all’arba e torna la notti».
Non aviva mai mangiato pasta col suco di porcu e gli piacì assà. E non parlamo della sasizza! Alla fini, don Sisino dissi:
«Ora ’nni annamo a corcare pirchì dumani a matino dovemo arrisbigliaricci presto».
«Ma le crape non stanno ccà?» spiò Giurlà.
«Ma quanno mai!».
Giurlà si zittì. Ma indove le tinivano ’ste crape? Aviva ’n’autra cosa da diri, ma s’affruntava a dirla, però non è che potiva tinirisilla a longo.
Doppo tanticchia s’addecisi e parlò con una voci accussì vascia che Assunta non l’accapì.
«Devo fari i mè bisogni».
«Eh?».
«Devo fari i mè bisogni».
«Nesci fora e falli. Hai tutta la campagna a disposizioni».
Appena che fu fora dalla porta, un addrizzuni di friddo lo fici trimari tutto.
C’era scuro fitto. Non potiva certo farla davanti alla casa, perciò tastianno con la mano muro muro, firriò fino a darrè e si vinni ad attrovare ’n mezzo all’erba. Allura si calò i cazùna e s’acculò. E ora? Come faciva a puliziarisi? Era bituato a farla a mari, ci pinsava l’acqua. Ma ccà? Siccome che era un picciotto sperto, sempri tastianno con le mano attrovò ’na para di petre firrigne, lisce lisce. Si puliziò con quelle. Tornò ’n casa. Gli avivano priparato ’na speci di sacco chino di paglia con una coperta supra.
Non si spogliò. Faciva troppo friddo. Ma a malgrado della granni stanchizza, non arrinisciva a chiuiri occhio. Era come se gli ammancava qualichi cosa. Chi cosa? Il runfuliare di sò patre? La respirata liggera liggera di so matre? O le paroli stramme di Maria che spisso parlava in sonno? E tutto ’nzemmula accapì: gli ammancava la rumorata del mari che era come ’na canzuna che a picca a picca lo faciva addrummisciri. Allura si ’nfilò ’na mano tra la cammisa e il petto e cavò fora le dù conchiglie che si era portato appresso. Se le misi sutta al naso e le sciaurò. Sì, mantinivano ancora aduri di mari. E accussì, finalmenti, arriniscì a pigliari sonno.
(Brano pubblicato da Il Messaggero, 12.3.2009)

La sira calò di colpo. E Giurlà era stanco assà. L’ariata della muntagna lo faceva stari come doppo quella vota che aviva avuto la fevri àvuta e non arrinisciva a susirisi dal letto tanto si sintiva allaccaruto e privo di forza. Addecise di mangiarisi pani e salami e po’ pani e aulive. Si tagliò il pani, pigliò l’altra robba e annò a mangiarisilla fora, con le spalli appuiate al palo. Lo stillato ccà era diverso dello stillato che si vidiva dalla pilaja.
Sò patre glielo aviva ’nsignato a taliare il celo. Le stiddre sbrilluccicavano cchiù luminose e s’addistinguivano meglio l’una dall’autra. Il carro, con le sò rote e il manico, pariva addisignato col gessetto supra a ’na lavagna. Le crape durmivano e c’era un silenzio che faciva scanto. Meno mali che ogni tanto un cani luntano abbaiava e col sò abbaio tiniva compagnia. Forsi che era Piru? Po’ si sintì pigliato di friddo e sinni trasì nella capanna. Addrumò la lampa che faciva ’na bona luci. Dato che quella era la prima notti che passava sulo, stappò la buttiglia di vinu e sinni vippi tanticchia. Ma non gli viniva sonno. Aviva il cori che gli battiva cchiù lesto del solito. Allura pigliò ’na pelli di crapa, se la misi supra alle spalli e niscì novamenti fora. Nello scuro, s’avvicinò allo stazzo. Qualichi cosa, un armàlo grosso come un gatto che non accapì che era, gli passò ’n mezzo alle gamme. E che potiva essiri? E se lo muzzicava? No, la meglio era tornarisinni dintra alla capanna. Si voltò e in quel momento sintì, leggio leggio:
«Bee…».
Pirchì quella sula crapa era vigliante mentre tutte l’autre durmivano? Mentri si faciva la dimanna, si detti l’unica risposta possibbili. Ma doviva controllari, pirchì non ci cridiva. Annò nella capanna, pigliò il lumi, niscì novamenti fora. Ci aviva ’nzirtato! Era la stissa crapa che aviva durmuto con lui la notti avanti. Sinni stava vicina alla trasuta e lo taliava, ora muta.
Era chiaro che voliva nesciri e starisinni con lui. Ma non potiva! Come faciva la crapa a non capirlo? Se la faciva nesciri, macari le sò compagne avrebbiro voluto fari l’istisso! Le voltò le spalli. «Bee bee…» fici la crapa lamentiusa.
Bih, che camurria! Quella era capace di starisinni tutta la notti a chiangiri.
Raprì adascio adascio, la crapa niscì fora di cursa e scomparse. Giurlà non la vitti cchiù. Matre santa, voi vidiri che sinni era scappata? Pigliò a corriri circannola, ma vicino al palo non c’era e non si vidiva manco nelle vicinanze. Quella va a sapiri indove era ghiuta a finiri! E che gli avrebbi contato a Damianu? Sinni tornò nella capanna. E dintra c’era lei che si stava mangianno un pezzo di pani.
«Fora di ccà!».
La crapa non si cataminò. Allura l’affirrò per un corno, la portò fora, l’attaccò al palo con la corda. Si spogliò, si corcò, astutò il lumi. Ma ancora il sonno non gli calava. Stava ’ncuponato sutta alla coperta e via via che il calori aumintava, Giurlà sintiva che la coperta e il pagliuni mannavano un aduri strammo. Po’ accapì: era il sciauro della pelli di Rosa che ci era stata corcata nuda mentri ficcava con Damianu. Si portò un pezzo di coperta alle nasche e lo sciaurò a longo. Maria, quant’era bono quell’aduri di fìmmina! E con quell’aduri s’addrummiscì. Cchiù tardo, ’n mezzo al sonno, sintì qualichi cosa allato a lui. Tastiò con la mano e ’ncontrò pilo càvudo di crapa. Si vidi che la vestia era arrinisciuta a libbirarsi. Ma non aviva gana di susirisi e portarla fora epperciò la lassò stari indove era.

L’arrisbigliò il naso vagnato di Piru supra alla sò facci. Addrumò il lumi pirchì ancora faciva scuro. La crapa non c’era cchiù. E di subito gli tornò a menti d’aviri fatto un sogno che gli era piaciuto assà assà, ma che non arriniscì ad arricordarisi di che trattava, nenti. Susennosi, notò che supra al pagliuni c’era ’na grossa macchia scurosa. La toccò, era umidizza.
Possibbili che si era pisciato come un picciliddro? Capace di sì, sò patre gli aviva ditto che c’erano acque che avivano la spicialità di fari pisciari all’omo. Forsi l’acqua del rusceddro aviva ’sta particolarità. Si vistì sintennosi disaggiato di non potirisi lavari. A Vigàta, la prima cosa che faciva la matina susennosi era quella di annarisi a ghittari a mari e sulo doppo si vistiva. Tutto ’nzemmula pinsò che nella capanna c’era un otri.
Lo pigliò, lo raprì, lo sciaurò. Non sapiva di nenti, meglio accussì. ’Na vota chino d’acqua, l’otri gli sarebbi abbastato per lavarisi matina e sira minimo per tri jorni. Se lo portò appresso ’nzemmula al sacchiteddro di tila del mangiare e la borraccia. Le crape già facivano burdellu che volivano nesciri e si erano ammassate davanti alla trasuta della staccionata.
Appena che raprì e le vestie niscero, arrivò di cursa la crapa che aviva durmuto nella capanna e trasì ’n mezzo alle sò cumpagne. Doppo ’na mezzorata di camino, Giurlà arrivò alla cascateddra. Lassò che le crape continuassiro ad acchianare e principiò a spogliarisi. Il cani Piru, che si era firmato allato a lui, quanno accapì la ’ntinzioni che aviva, sinni ghì appresso alle crape a fari il doviri sò di guardiano. Sinni stetti sutta alla cascateddra puliziannosi bono, po’ s’arrivistì e ripigliò ad acchianare.
Aviva fatto ’na decina di passi quanno vitti a ’na crapa solitaria supra al sintero che lo taliava viniri. L’arriconobbe: era la solita crapa che voliva stari con lui. Era chiaro che non vidennolo era tornata narrè curiosa di capacitarisi di quello che lui stava facenno. Non lo sapiva che c’erano crape che s’affezzionavano come cani, Damianu non glielo aviva ditto, chista aviva addirittura arrinunziato ad annare a mangiare per aspittarlo.
«Bee…» fici la crapa.
«Ccà sugno» fici lui in risposta.
Rassirinata, la crapa si voltò e tornò ad acchianare longo il sintero.
(Brano pubblicato da La Stampa, 12.3.2009)

Una frase estratta da questo romanzo è stata concessa dall’Autore per l’iniziativa Territori

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Last modified Tuesday, October, 02, 2012