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La cattura

di Andrea Camilleri

liberamente ispirato a una novella di Luigi Pirandello




Ho già dichiarato altrove il mio piccolo furto da Luigi Pirandello per il nome di "Montelusa", nome antico del feudo di Girgenti. Ma da Pirandello e a Pirandello mi legano parecchie occasioni di incontro, oltre quelle reali, capitate nell'ormai lontana mia fanciullezza, quando vestito come un ammiraglio, me lo vidi spuntare alla porta della mia casa.
Questa volta l'occasione me l'hanno porta altri, in particolare il mio amico Turi Ferro, al quale mi legano esperienze passate in teatro e in televisione. Ora, il nostro incontro, avviene su due posizioni differenti, rispetto al passato: io autore, lui, al solito grande attore. È stata una gioia avere scritto per lui questa pièce pirandelliana. Ma è anche stata una nuova ennesima verifica sulla materia del mio conterraneo, che, quando ci si mette, sa rendere le cose difficili. Perché "La cattura", novella della raccolta "La Giara", di teatrale avrebbe offerto poco, se non avesse previsto la presenza, come dire, contemporanea del suo interprete principale. Voglio dire che questa "Cattura" è oltremodo pensata su Turi Ferro. Guarnotta sta a Turi Ferro, come forse Turi Ferro sta al teatro.
La sua grotta, quella scatola magica che lui ha saputo magistralmente riempire di forti emozioni, è stata allo stesso tempo prigione, ma anche luogo di nuova vita. Da lì egli, come Guarnotta con i suoi involontari carcerieri, ha saputo consegnare una visione liberatrice del modo di essere e di vivere il teatro.
Ma "La cattura" è anche, ovviamente, altro. La sua visione così disperata del senso dell'accadimento, la rende una delle novelle più belle della raccolta pirandelliana. In questo racconto c'è già un vago sapore di quello che, in altro modo e in altri termini, sarà l'atteggiamento di Pirandello nei confronti della morte, in opere come "All'uscita", ma più ancora nel clima del 'Mito' interrotto coi "Giganti". Il senso sublime di un trapasso, vissuto per un fatto involontario, in un purgatorio terreno, dove laicamente si consuma l'unica forma possibile di espiazione umana.
Andrea Camilleri



Debutto il 9 gennaio 2001, Teatro Verga, Catania - Teatro Stabile di Catania

Musiche di Massimiliano Pace
Costumi di Elena Mannini
Scene di Antonio Fiorentino
Regia di Giuseppe Dipasquale

Personaggi e interpreti:
Antonio Guarnotta Turi Ferro (poi Giulio Brogi)
Adele, sua moglie Ida Carrara
Becchino Gian Paolo Poddighe
Ciccio Lo Cascio, primo nipote della moglie Pietro Montandon
Cecè Lo Cascio, secondo nipote della moglie Daniele Gonciaruk
Notaio Galatioto Orazio Mannino
Manuzza Sergio Vespertino
Fillicò Rosario Minardi
Il mutàngolo Franz Cantalupo
Trisina, moglie di Fillicò di anni 24 Loredana Marino
Calicchio, figlio di Fillicò, di anni 8 Valerio Mascolino
Ciaramiddaro, medico cieco Giovanni Anzalone
Prima signora Marta Limoli
Seconda signora Raniela Ragonese
Terza signora Sara Emmolo
Primo signore Sergio Seminara
Secondo signore Vittorio Di Paola
Terzo signore Giovanni Ciranna

 
 


Il copione è stato pubblicato nel volume Teatro (Lombardi, 2003)


Rassegna stampa storica

80 anni  Turi Ferro
"Sono un mago moderno"

Oggi Turi Ferro, nato il 10 gennaio del 1921, diventa uno splendido e carismatico ottuagenario, e per onorare la sua taglia forte di artista militante depositario della grande tradizione c’è in programma, venerdì, il debutto ufficiale di uno spettacolo che il Teatro Stabile di Catania ha concepito appositamente per lui protagonista, La cattura di Andrea Camilleri, pièce liberamente ispirata alla novella di Pirandello (che Ferro già interpretò in altra chiave nel film "Tu ridi" dei fratelli Taviani). Al lavoro prendono parte anche la moglie Ida Carrara e Gian Paolo Poddighe, con messinscena di Giuseppe Dipasquale. L’amico e conterraneo siciliano Camilleri ha voluto rendere omaggio ai miti di Pirandello e alla modernità dell’attore riscrivendo la vicenda d’un sequestro di persona ad opera di balordi, accentuandovi la spietata ipocrisia dei famigliari del rapito.
L’allestimento omaggio al decano degli attori italiani nasce al Teatro Verga di Catania, sede anche della mostra antologica "Turi Ferro, magia del teatro" a cura di Enzo Zappulla e Sara Zappulla Muscarà (foto, costumi, copioni e la barca dei "Malavoglia"), e poi La cattura si replicherà quest’anno in Sicilia e Puglia.
«Spero tanto di non essere celebrato solo per la coincidenza coi sedici lustri. Non ho ancora avuto il tempo d’avere la mia età» si schermisce Turi Ferro «La testa funziona. Le gambe non sono da ottantenne. Noi gente del teatro abbiamo sempre da fare, sogniamo, deliriamo. Io vado ancora di persona a comprarmi le scarpe di scena. E ho avuto la fortuna di trovarmi in una terra formicolante di storie e di romanzi, sono cresciuto portato per mano da signori autori…».
Le fa piacere o è scomoda, per lei, la fama di massimo interprete pirandelliano?
«Non è che voglia sfuggire a un grembo naturale, quando dico che Pirandello è straordinariamente ingombrante, è un rifugio amatissimo che può divorarti l’anima. Forse è pericoloso, sentirsi specializzati. Quando, alle prese nel ’96 con una specie di Freud ne "Il visitatore" di Schmitt, m’hanno ribattezzato catanesetedesco, non nascondo d’essere stato molto soddisfatto. Mi riconosco un’incrollabile forza d’immedesimazione. Tutto è cominciato fin dai patimenti della gioventù, fuori da scuole, da accademie, da libri. Senza alcuna retorica, il mio chiodo fisso è stata la fatica, il battagliare a teatro, con una fantasia da artigiano più che da attore intellettuale. Nel senso che ho fatto sempre i conti coi miei gusti, con le mie fedeltà e con le mie tenace».
Niente rimpianti?
«No. Sono stato gratificato dal mestiere, dal pubblico, da compagni di lavoro, da oltre 40 anni di lealtà allo Stabile di Catania, e dalla famiglia. Mia moglie, Ida Carrara, ha perfino sacrificato un po’ della sua professione per me, sostenendomi, dandomi tranquillità. E mio figlio Guglielmo m’è stato già più volte accanto come regista. A pensarci bene, ho un po’ il rimpianto di non aver fatto mai l’"Enrico IV" di Pirandello, ma anni fa lo interpretava con saggezza e loicità Randone, il più grande attore italiano del ‘900, e allora…».
Insomma, a lei che compie energicamente 80 anni dovremmo piuttosto chiedere quali sono le prospettive?
«Non mi tiro indietro, ma le dico che intorno vedo poco chiaro. Avverto un disagio di cui non distinguo bene la fonte, le cause. Io ho vissuto non solo la mia vita ma, bene o male, la storia. E ora c’è in giro una scomparsa o un gonfiarsi simulato di valori. La mia esistenza, vede, è stato un oscillare regolarissimo di casa e teatro. Oggi ci sono persone "non giuste" e senza la dovuta gavetta che occupano palcoscenici importanti».
Quali consigli darebbe alle nuove generazioni di teatranti?
«Evitare la fretta. Osservare. Tener conto solo di una sincera vocazione. Impegnare la propria sensibilità. Ed esercitare la sana cattiveria, quando è necessario: artisticamente parlando, la cattiveria è un’asprezza che dà senso alle cose, è uno scrupolo, è una libertà. Io non vedo l’ora, circondato da giovanissimi, anche da bambini, di togliere le bende a un mio futuro "Enrico IV", raccontandone la favola seria. Intanto mi riconcilio con le generazioni catanesi (e non) degli spettatori di oggi. Perché solo quando s’alza il sipario c’è posto per i prodigi spontanei. Perché recitando Brancati, Verga, Sciascia o Pirandello, scrittori cui sta stretta la definizione di "siciliani", non sono più un rispettabile artista isolato e isolano, di razza, ma forse anche un Turi Ferro mago moderno. O no?».

Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica, 10.1.2001

"Muoio dialogando di aquiloni con un bimbo"
Come lo scrittore ha trasformato l’originale di Pirandello il testo teatrale

Andrea Camilleri e Turi Ferro si conoscono da una quarantina d’anni. Oltre che essersene già occupato teatralmente, Camilleri è stato anche regista di un ampio ritratto televisivo dell’attore, "Tutto di Turi Ferro". Ora l’autore ha riscritto di sana pianta un copione per l’artista ricavandolo dall’omonima novella di Pirandello La cattura. «E’ tra le più belle pagine letterarie di violenza, di vita senza sbocchi e di solitudine» commenta l’80enne interprete del lavoro «e Camilleri ha dilatato umanamente il tracciato della novella, con qualche parentesi ironica. Più che mai il mio personaggio, il vecchio possidente Antonio Guarnotta, ha i connotati di un poetico incompreso. La parabola vuole che i suoi sequestratori non abbiano la tempra per ammazzarlo, e qui c’è uno squarcio che mostra la sua seconda moglie non solo incline a rimproverargli il troppo lutto per un figlietto scomparso quanto avidamente decisa, mentre lui è recluso in grotta, a farne dichiarare la morte presunta». Camilleri ha allargato la storia, sviluppando il fronte contrapposto dei buoni e dei cattivi. E i poveri restano poveri. «Il vero inferno è quello che incombe sui rapitori da strapazzo» sostiene Turi Ferro «e l’unico conforto per il mio uomo recluso è un figlio piccolo degli imbranati aguzzini. Pirandello concede a questo anziano, maltrattato più dalla società che dai malfattori, di morire in grotta. Una bella idea di Camilleri mi fa spirare mentre sono assorto col ragazzo a dialogare di aquiloni, e il bambino mi chiede se posso volare anche più alto. C’è balordaggine non soltanto di ieri, e anche tanta grazia, in questa storia. E il teatro ha bisogno di storie».

(r. d. g.), La Repubblica, 10.1.2001

Camilleri e Pirandello per il grande Turi Ferro

Il più bel regalo a Turi Ferro per il suo ottantesimo compleanno l'ha fatto Andrea Camilleri fabbricandogli un nuovo Pirandello su misura, ispirato a una novella adocchiata da tempo dall'attore, non a caso era già tra i materiali usati dai Taviani per la sua interpretazione nel film Tu ridi. Ma Ferro vive da sempre per il teatro e trovandosi riaperte dopo un grave malinteso le porte dello Stabile di Catania, che gli deve molto del suo prestigio, ecco l'occasione per rientrare nell'universo del suo autore preferito, con il linguaggio rimesso a nuovo in una novità assoluta. La cattura esalta con un po' di bizzarria una solitudine: quella del vecchio Guarnotta, sempre vestito a lutto non sapendo darsi pace per aver perduto ancora ragazzo l'unico figlio, e solito appartarsi sulla sua asina in un selvaggio ritiro naturale. Lì, un giorno, viene rapito da tre sequestratori in erba di cui riconosce l'identità sotto i bavagli, e gettato in una grotta; ma il ricatto non potrà riuscire se non liberandolo, perché è il solo a poter toccare i suoi beni. Anzi spiega ai tre giovanotti, coscienti di aver sbagliato, che potrebbero liberarlo e affrontare la denuncia solo se scegliessero la malavita, mentre "per tornare sulla buona via" gli toccherebbe farlo sparire uccidendolo: e questo eccesso logico che rovescia la logica rivela un po' di Pirandello nel personaggio, in cui lo stesso Ferro sembra riconoscersi per la sua adesione sconvolgente. I ragazzi decidono nell'adattamento di finirlo, e non solo per un effetto scenico, ma non ce la fanno. E si rassegnano a tenerlo lì in un "ergastolo" all'addiaccio, al quale il vecchio sulle prime si ribella, pur intuendo di realizzare per costrizione una scelta sognata, fuori dal mondo ma dentro la natura, tra persone elementari che ne assorbono le lezioni. Per ribadire il contrasto Camilleri, di cui è nota la propensione al giallo, gli inventa il controcanto della società civile, mostrandoci le trame della moglie subornata da due avidi nipoti, che tramite un becchino e un cadavere rubato si appropriano dell'eredità, arrivando al grottesco di un falso funerale. Intanto nella grotta platonica si sviluppa il mito. Il Guarnotta fattosi patriarca, curato dalle mogli dei balordi, trova un amico in uno dei loro bambini, realizzando il suo sogno di paternità frustrata e rivalutando la vita attraverso quell'espiazione purgatoriale. Morirà appagato come chi ha trovato un senso, mentre il bimbo impara a far volare l'aquilone e ci regala pure una morale: «Solo quando non si è più padroni di niente, si può essere padroni di tutto». Camilleri si concede un surplus finale alla melassa, ma la teatralizzazione dell'asciutto racconto è assai efficace e trova fluidità nella regia di Giuseppe Dipasquale, anche grazie alla felice soluzione scenica di Antonio Fiorentino per cui il simbolico antro coi cambi di luce si idealizza dando trasparenza ai contorni rupestri, mentre in una sua striscia alta si stampano le sequenze ironicamente truci dell'altra realtà, dove Ida Carrara si toglie con classe la maschera di moglie sottomessa, accanto a Pietro Montandon, Daniele Gonciaruk, al superbo becchino di Gian Paolo Poddighe, mentre dall'altra parte si nota l'immediatezza di Sergio Vespertino, Rosario Minardi, Loredana Marino e il piccolo Valerio Mascolino. Ma a catturare era la grandezza di Turi Ferro, tutto istinto e verità, quasi al limite di un'improvvisazione che una pausa converte in illuminazione metaforica, vero maestro, celebrato prima da una mostra fotografica e dopo da un trionfo con festa sul palcoscenico animata dal presidente del teatro Pippo Baudo con emozionate parole del protagonista, torta con candeline, champagne di 43 anni e molte lacrime.

Franco Quadri, La Repubblica, 14.1.2001

 




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