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Ancora tre indagini per il commissario Montalbano



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 20,00
Pagine 574
Data di pubblicazione novembre 2009
Editore Sellerio
Collana Galleria n.8


Con una nota dell'Autore

Il secondo volume delle inchieste di Montalbano. Il metodo del commissario più celebre d’Italia si affina: annusare, raccogliere, intuire, collegare, simpatizzare e antipatizzare.

La voce del violino
Una giovane che vive in periferia, un artista appartato, un assassinio. A collegarli, un prezioso violino, scopre Montalbano, la cui vita privata si complica e la cui tranquillità vacilla perché c’è una decisione da prendere.

La gita a Tindari
Un triplice omicidio è avvenuto: un dongiovanni che vive al di sopra dei suoi mezzi e due anziani. Montalbano indaga tra i vecchietti. Indimenticabile e leggendaria la galleria dei pensionati in gita al santuario.

L’odore della notte
«Sì, a seconda dell’ora la notte cangia odore». Un caso anomalo, in cui il cadavere spunta in un secondo tempo e Montalbano si intrufola non essendo titolare dell’inchiesta: la scomparsa di un finanziere truffatore che sembra uscito dalle cronache. Mentre Augello si sposa e il commissario si sente vecchio.


Montalbano, strategia seriale
Nota di Andrea Camilleri

Assai prima ancora di cominciare a scrivere il quarto romanzo incentrato su una nuova indagine del commissario Montalbano, che poi sarà intitolato La voce del violino, mi resi conto che avrei dovuto affrontare, e in qualche modo cercare di risolvere, un grosso problema per me del tutto nuovo: quello della serialità. Ormai infatti dovevo rassegnarmi a prendere atto della situazione.
Il personaggio, che nelle mie intenzioni iniziali doveva apparire solo in due romanzi per poi scomparire del tutto e per sempre, era sfuggito definitivamente al mio controllo per volontà dei lettori e minacciava di avere una lunga e fortunata esistenza. Il rischio della serialità prolungata consiste, com’è facile capire, nella ripetitività. A questo rischio non è nemmeno sfuggito un maestro come Simenon, e lo si nota leggendo tutti i 75 romanzi incentrati sulla figura del commissario Maigret.
Occorreva quindi una strategia che consentisse al personaggio di poter continuare nel tempo evitando il più possibile le duplicazioni e le clonazioni. Mi convinsi allora che in primo luogo era assolutamente necessario che il protagonista avesse a sua disposizione molte più possibilità dialettiche di quante gliene avessi concesse nei primi tre romanzi. Ecco perché ne La voce del violino ho introdotto almeno tre grosse novità, operando una specie di rivoluzione che mi permetteva di ripartire quasi ex novo. La prima è l’andata in pensione del vecchio questore Burlando (non mi ero nemmeno accorto, lo confesso, di avergli dato lo stesso cognome tipicamente genovese di Livia) e la sua sostituzione col giovane questore Bonetti-Alderighi. Con il vecchio questore Montalbano andava fin troppo d’accordo, aveva con lui rapporti d’amicizia, andava a cena a casa sua. Con Bonetti-Alderighi la situazione cambia radicalmente. Il nuovo questore, che ha quarti di nobiltà, è un giovane, scattante bergamasco, arrivato con la ferma volontà di rinnovare, tagliare i rami secchi, rottamare. È fin troppo chiara la sua intenzione di rottamare anche Montalbano che considera un poliziotto all’antica, sorpassato. L’antipatia tra i due è reciproca e radicale.
La seconda novità è la sostituzione del pm Lo Bianco, che ha preso una lunga aspettativa per continuare le sue ricerche storico-genealogiche, col veneziano Nicolò Tommaseo.
Che ben presto si rivelerà essere un appassionato di delitti a sfondo sessuale. Sicché anche per lui varrà quanto Alessandro Manzoni scriveva per l’omonimo Nicolò Tommaseo, e cioè che aveva un piede in sacrestia e l’altro in un casino.
La terza novità è costituita dall’avvicendamento del capo della Scientifica, Jacomuzzi, col quale il commissario aveva sostanzialmente buoni rapporti, col fiorentino Vanni Arquà, cultore della tecnologia più avanzata in fatto d’indagini. In questo romanzo nasce tra i due un’insopportabilità reciproca destinata a durare. Cambia anche il capo di gabinetto e arriva il mellifluo dottor Lattes, soprannominato «Lattes e mieles», fermamente convinto che Montalbano sia sposato e padre di figli.
Infine resta da dire che è cambiato anche il capo della Mobile. Ma i capi della Mobile saranno destinati a rapidissime rotazioni. L’avvento quindi di un bergamasco, di un veneziano e di un fiorentino permetterà all’insofferente Montalbano di muoversi in un campo assai più vasto fatto di scontri dovuti anche a questioni di mentalità, di metodi, di pedissequa osservanza delle regole, di rispetto delle «improrogabili prerogative», come usa dire il pm Tommaseo.
Ne La gita a Tindari Montalbano ha cinquant’anni e comincia ad avere paura dell’invecchiamento.
Ora vorrei chiarire perché qui il commissario avverta così acutamente l’avanzare degli anni.
Più che un fatto fisico, si tratta di un disagio profondo, dovuto alla sensazione di non saper più fare fronte ai cambiamenti vertiginosi del nostro tempo, alle novità che si succedono quasi incastrandosi l’una nell’altra. L’annunzio del possibile matrimonio di Mimì Augello lo deprime fino alle lacrime. L’uccisione a freddo dei due vecchi coniugi gli rivela un grado di crudeltà che intuisce sempre più efferata, sino a risultargli intollerabile. Ma soprattutto egli prova un senso d’inadeguatezza di fronte alle nuove realtà criminali. Le sue indagini usavano basarsi principalmente sulla conoscenza del territorio e degli uomini che l’abitavano. Per questo non ha mai accettato una promozione che avrebbe comportato il trasferimento. Ma ora che il territorio non esiste più, perché orrendi reati come il traffico di organi si possono svolgere via Internet, tra criminali che nemmeno si conoscono di persona, egli avverte la paura di non essere più all’altezza della situazione.
Il territorio può dissolversi da un momento all’altro, mutandosi in uno spazio grande quanto il mondo stesso. È questa la sua angoscia. Ed è anche per questa ragione che nel romanzo ho introdotto una sorta di monologo interiore che meglio possa rendere i sentimenti più intimi di Montalbano.
L’odore della notte nasce da un proposito tutto letterario, una sorta di sfida a me stesso.
Quella di vedere se ero capace d’innestare un mio racconto dentro a un racconto di William Faulkner, il grande autore americano premio Nobel del quale si ritrovano spesso tracce nei miei scritti.
È uno di quegli autori che, con Pirandello, Joyce, Gogol’, Sterne, Sciascia, Savinio e naturalmente Simenon, tengo in uno scaffale a parte, a portata di mano.
Non so se ci sono riuscito, ma il gioco per me valeva la candela. In questo romanzo accade anche un episodio che aggrava l’angoscia di Montalbano per il cambiamento: l’abbattimento del centenario ulivo tra i cui rami egli andava spesso a rifugiarsi e a pensare. Vedendolo abbattuto dalla scure, perché ostacola la costruzione di un pretenzioso villino, il commissario ha la sensazione che «lo spazio della sua esistenza si fosse improvvisamente ristretto».
Quell’ulivo era non solo un luogo dell’anima, ma anche il luogo della memoria. E quando non c’è memoria, è inevitabile che lo spazio vitale di ogni uomo si restringa.

(Pubblicata su Il Messaggero, 24 novembre 2009)



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