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Il carico da undici

Le carte di Andrea Camilleri



Autore Gianni Bonina
Prezzo E 15,90
Pagine p. 620
Data di pubblicazione 25 ottobre 2007
Editore Barbera
Collana Planet



Spesso accusato di “eccesso di successo”, Andrea Camilleri è un gigante della letteratura contemporanea. Ed è anche un fenomeno mediatico, oltre che letterario. Ma, mai prima d’ora, gli è stato dedicato un testo approfondito, completo, aggiornato come Il carico da undici, di Gianni Bonina, che uscirà per Barbera Editore il 25 ottobre, nella collana di varia Planet.
Il libro, che anche nella veste grafica si propone come un volume definitivo, un vero testo da biblioteca, si divide in tre parti. La prima è un vasto saggio critico, sintesi di anni di studio e recensioni grazie a cui Gianni Bonina, direttore di Stilos, siciliano come Camilleri, è divenuto, fra i critici italiani, il più profondo studioso delle opere camilleriane. La seconda parte contiene invece un’intervista di oltre 200 pagine, in cui Camilleri, ispirato e provocato dalle domande di Bonina, percorre un excursus autobiografico e critico sulla sua intera opera. Ma gli aspetti letterari diventano spesso l’occasione per incursioni nell’attualità, nella politica, nella storia: si parla di mafia, di questione meridionale, di sinistra, di discriminazioni politiche. E spesso emergono vivaci spunti di autoritratto, con dettagli autobiografici inediti. Di grande interesse sono anche le pagine dedicate ai romanzi in uscita nel 2007, Voi non sapete e Maruzza Musumeci, di cui Il carico da undici anticipa trama e dettagli. La terza parte del libro è un omaggio ai lettori e agli studiosi di Camilleri: vi si trovano le sinossi complete di tutti i 47 libri (comprese le due ultime uscite) dello scrittore empedoclino.
“Sa perché mi sto sottoponendo alla fatica di quest’intervista? Perché lei i miei libri, quando li ha recensiti, ho capito che li aveva letti da cima a fondo. E su qualcuno ha espresso anche molte riserve.” Così Andrea Camilleri a Gianni Bonina; e non deve essere stata una fatica di poco conto sostenere un’intervista lunga, complessa, articolata e profonda come quella concessa a Bonina. Lo scambio è avvenuto per e-mail, al telefono e di persona. Le domande, che quasi sempre partono dall’analisi di alcuni aspetti delle opere, o da dettagli del sistema e della tecnica di scrittura, finiscono per portare Camilleri su temi che hanno a che fare con i ricordi, la formazione culturale, le tante esperienze lavorative e artistiche, l’evoluzione della mafia e il suo rapporto col potere oggi. Non sempre l’intervista scorre tranquilla: spesso vi sono momenti di discussione accesa, talvolta di contrasto fra l’intervistato e l’intervistatore. Ma alla fine il risultato è un ritratto a tutto tondo, da cui emerge il profilo competo di Camilleri uomo, intellettuale e scrittore siciliano.
(Comunicato stampa dell'Editore, 20.10.2007)

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Il libro
Tutti i romanzi e i saggi del più amato scrittore italiano, spiegati dallo stesso Camilleri e commentati da un giornalista siciliano che ha seguito sin dall’inizio l’intera vicenda letteraria dell’autore agrigentino. Una lunga intervista nella quale lo scrittore parla non solo dei suoi libri ma anche della sua vita, della sua attività, del mondo che lo circonda e di quello che ha creato: i personaggi, le atmosfere, i contesti e le suggestioni che hanno fatto di Camilleri l’erede di Pirandello e Sciascia. La genesi di Salvo Montalbano, le sue inchieste in una Vigata metafora della Sicilia, i romanzi storici ambientati in un’isola continente che scrive la propria storia da sé, gli studi che di Camilleri hanno rivelato la vocazione analitica al saggio: in questo libro il risultato più avanzato e completo sul prorompente caso di un autore che, accusato di eccesso di successo, non finisce mai di reiterare il fenomeno. Un’accurata analisi dell’opera di Camilleri, compresi i romanzi in uscita nel 2007. Tutte le trame e le sinossi dei romanzi. Un saggio sulla figura dello scrittore e sull’opera in generale. Le recensioni di Gianni Bonina ai suoi libri. Una lunga intervista nella quale Camilleri ci svela i retroscena di ogni suo libro, parlandoci della sua opera, delle sue passioni e di tante altre curiosità inedite.

L'autore
Gianni Bonina, giornalista de La Sicilia, vive a Catania dove dirige Stilos. Ha pubblicato l’inchiesta giornalistica Il triangolo della morte (1992), il romanzo Busillis di natura eversiva (1997), la raccolta di racconti L’occhio sociale del basilisco (2001), il reportage L’isola che trema (2006). Per il teatro ha scritto Ragione sociale (premio Pirandello 2000) e ha curato e pubblicato l’inedito di Serafino Amabile Guastella Due mesi in Polisella (2000).



Anteprima pubblicata su La Repubblica, 20.10.2007

Il mio primo romanzo

Ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo un primo d´aprile. Ma non so onestamente dire se sia stato per caso o per causa.
Quando mi decisi, dopo molte esitazioni, a mandare il dattiloscritto a Nicolò Gallo, che mi onorava della sua amicizia, egli per tre mesi non mi diede più notizie di sé. Allora gli scrissi due righe dicendogli che, piuttosto che perdere la sua amicizia, preferivo liberarlo dall´obbligo di darmi un giudizio sul romanzo. Mi telefonò due giorni dopo, invitandomi ad andarlo a trovare. Mi ricevette nel suo studio. Sopra il tavolo c´era il mio romanzo e, accanto, un mucchio di foglietti. Mi disse subito che gli era piaciuto e che l´avrebbe fatto pubblicare da Mondadori nella collana che dirigeva con Vittorio Sereni. Ma non prima di due anni. Nel frattempo, potevo rimetterci mano.
«E come?», gli domandai. «Con più coraggio» mi rispose.
Insomma, voleva che spingessi più a fondo il mio linguaggio. I foglietti contenevano i suoi suggerimenti. Me li consegnò. Io mi ripromisi di tenerne conto, ma dato che avevo tanto tempo davanti a me, preferii rimandare l´inizio della revisione. Poi Nicolò morì. E io persi, oltre il grande amico, anche l´unico contatto che avevo con la Mondadori. Così, quando Lalli mi domandò di stampare il libro in cambio della pubblicità televisiva (perché nel frattempo Il corso delle cose, sceneggiato da Dante Troisi e Antonio Saguera, col titolo La mano sugli occhi era in lavorazione in tv), io ebbi, non so perché, ritegno a rivederlo seguendo i consigli di Nicolò. La revisione l´ho fatta molti anni dopo, in occasione dell´uscita con la Sellerio. Dalla comparazione tra l´edizione Lalli e l´edizione Sellerio è possibile capire perfettamente quello che da me voleva Nicolò. Persuasore occulto, appunto.
Questo mio primo romanzo sicuramente è un embrione della serie Montalbano, ma qui il maresciallo Corbo è un personaggio secondario, perché non si tratta di un giallo classico.
All´epoca non mi passava neanche per l´anticamera del cervello che un poliziotto o un carabiniere che fosse sarebbe potuto diventare il protagonista di un mio romanzo.
Il mio primo romanzo terminava suppergiù con queste parole: «Qua da noi si muore solo di corna». Intendevo dire che spesso e volentieri i delitti per mafia, interesse, vendetta, venivano ricondotti, per la buona pace di tutti, a una questione di corna. «Cherchez la femme». E la trovavano, la femmina, anche se non c´era mai stata. Qui invece la situazione è rovesciata. È un banale adulterio ma lo tramutano, lo «cangiano», in un fatto politico.

Ricordi

Un giorno che avevo diciott´anni, dissi a mio padre che volevo il porto d´armi, non per andare a caccia, ma per tenere addosso una pistola. Mio padre non batté ciglio.
Eravamo in campagna e mi disse di andare a prendere lo Smith Wesson che lo zio teneva nel cassetto del comodino.
Tornai col revolver. Lui lo prese e mi fece tirare fuori l´asino dalla stalla. «Vieni qua». Mi diede il revolver e indicandomi l´asino che era a una trentina di passi da noi, mi disse: «Sparagli e ammazzalo». Io lo guardai sbalordito.
«E perché?». «Perché ti devi esercitare. Un´arma da fuoco è fatta per ammazzare, no? E chi se la porta appresso dev´essere capace d´ammazzare. Perciò, esercitati». Alzai il braccio, lo riabbassai. «Non sono capace». Mi guardò occhi negli occhi. «Allora non la portare mai, la pistola.
Perché se ce l´hai in tasca e la tiri fuori e non hai il coraggio di sparare, l´altro che hai davanti t´infila in bocca la tua stessa pistola e ti spara. Ricordati sempre che una pistola in tasca è una cattiva consigliera». Me ne sono ricordato. È l´episodio che conclude “Il corso delle cose”. Perciò Montalbano preferisce ragionare piuttosto che sparare.
***
Nel 1945 mio padre fu trasferito a Enna e mia madre e io lo seguimmo. A Enna scoprii una bella biblioteca comunale, diretta dall´avvocato Fontanazza, uomo colto e spiritoso. A Enna faceva un freddo cane, ma la biblioteca era ben riscaldata. Non la frequentava nessuno, quindi l´avvocato e io passavamo intere mattinate a parlare di letteratura. Un giorno l´avvocato mi disse che in due stanze chiuse a chiave c´erano i lasciti di Lanza e di Savarese. Non erano stati ancora catalogati. Mi diede le chiavi delle stanze. Immaginate quello che ci trovai dentro? Ci passai due anni in quella biblioteca, ci andavo la mattina e il pomeriggio. C´erano collezioni complete di Lacerba, Letteratura, altre riviste, Il Lunario e tanta, tanta corrispondenza. Per non dire dei libri. Ho potuto così colmare molte mie lacune.
***
Mio padre era ispettore del lavoro portuale per tutti i porti della costa meridionale della Sicilia. Poi, dopo l´arrivo degli Alleati, divenne direttore provinciale dell´Ast (Azienda siciliana trasporti). Quindi: per un lungo periodo ebbe a che fare con centinaia di scaricatori del porto, poi con decine di autisti, meccanici, trasportatori, ecc. Con loro sapeva evidentemente come comportarsi e tenga presente che era un uomo di straordinario coraggio. Molti tratti di Montalbano gli appartengono. Gentile lo ammirava appunto per il coraggio dimostrato in una certa occasione (e il bello è che quell´episodio mi venne riferito da Gentile, non da mio padre). L´altro venne apposta a trovare mio padre morente perché moltissimi anni prima papà gli aveva regalato i soldi per andare in Usa. Non sapeva però che sarebbe diventato un mafioso.
***
Arrivai a dare quasi tutti gli esami sotto la laurea. Ma c´era un´altra ragione che mi fece smettere, oltre al fatto che non volevo fare il professore, l´unica strada possibile. Succedeva che tutte le maggiori riviste letterarie italiane e i quotidiani nazionali mi pubblicavano. Io stavo a Porto Empedocle e pubblicavo poesie su Mercurio di Alba De Cespedes. Le mandavo e quella me le stampava. Ho pubblicato su Inventario, diretto da Eliot, dove in un numero apparve addirittura, con una mia poesia, un inedito di Dylan Thomas, allora vivente. Pubblicavo racconti di terza pagina tanto su L´Ora di Palermo quanto su L´Italia socialista di Roma.
Poi capitò che Ungaretti mi pubblicò le poesie nello Specchio di Mondadori (che allora era la più prestigiosa collana di poeti italiani) in un´Antologia dei poeti del Saint Vincent. E poi venne il premio "Libera stampa" a Lugano, con una giuria terribile: Gianfranco Contini, Giansiro Ferrata e via di questo passo. Nella rosa dei finalisti entrammo in dieci, tutti ventenni. I nomi vanno da Camilleri, che scompare per ricomparire molto più tardi, a Zanzotto, ma in mezzo ci sono Pasolini, Angelo Romanò, Padre Davide Maria Turoldo, Danilo Dolci.

La Sicilia

Entrando a far parte dell´Italia, la Sicilia si promuove da regione di scambio a dignità di regione di una nazione, che è tanto. Il prezzo che però paga materialmente è altissimo.
È assai più alto di quello dei lombardi per esempio. Nel momento in cui si va alla scelta tra annessione e federazione il novanta per cento dei siciliani dice annessione. È questa la grande aspirazione, un´aspirazione che ci nobilita.
Moralmente dobbiamo molto all´Italia, e l´Italia deve molto a noi dal punto di vista economico. Questa è la contraddizione che si crea al momento dell´Unità. Noi non possiamo ringraziare l´Italia solo a motivo di come socialmente ed economicamente si sono poi messe le cose.
Verga, Capuana, De Roberto, perché nascono dopo l´Unità? Perché è in quel momento che si sentono siciliani e pongono dunque la questione meridionale.
Io dico che sono un italiano, perché prima ancora di essere siciliano appartengo a una nazione che si chiama Italia alla quale tengo molto; dopodiché dico che sono nato in Sicilia, senza precisare «però sono nato in Sicilia».
Sono un italiano nato in Sicilia.

La mafia

Il mafioso vero è quello che non appare. Quelli che invece appaiono sono al massimo legali rappresentanti del mafioso vero. Oppure sono i guardiani dell´orto il cui vero proprietario non appare mai.
Il mafioso d´una volta era detto "galantuomo". Credo che anche allora tutti sapevano chi era mafioso e chi no, solo che il comportamento esteriore del mafioso era da "galantuomo", cioè di chi rispetta la Legge, l´Autorità, la Famiglia, tutte con le maiuscole. Il mafioso voleva rappresentarsi come un uomo d´ordine. Cosa c´era dunque di tanto strano che frequentasse altri uomini d´ordine che rappresentavano le Istituzioni?
Cerchiamo allora di fare capire la cosa alla coscienza nazionale anche se la coscienza nazionale si guarderà bene dal farsi capire da me. Le differenze tra mafia antica e nuova non sono sottili. Quella antica aveva un codice d´onore, delirante quanto si vuole, criminale quanto si vuole, ma codice. Un vecchio mafioso, dovendo ammazzare a uno che passeggiava sottobraccio alla moglie, avrebbe detto alla donna, prima di sparare: «Signora, si scosti». La mafia nuova non avrebbe aperto bocca e avrebbe ammazzato tutti e due. È chiaro questo semplice esempio alla coscienza nazionale?
***
Io personalmente ho avuto come amico d´infanzia il figlio di un mafioso che poi prese il posto del padre. Da adulti, quando ci incontravamo, ci salutavamo con autentico affetto.

La politica

Anche se non amo parlarne, non venni assunto in Rai, dopo aver vinto un concorso pubblico, perché ero comunista. Ma è stato l´unico caso di discriminazione che mi è capitato.
Tre anni dopo però fu la Rai che mi chiamò per iniziare con me una certa collaborazione. Che durò trentacinque anni.
Ah, sì, ora che mi ricordo, subii una seconda discriminazione: non ottenni il permesso per potere entrare in una nostra fabbrica d´armi. Ma era il tempo della Guerra fredda. Ora che il mio partito è diventato un partito di potere, con tutte le inevitabili transazioni, m´interessa sempre di meno.
***
Mi è stato offerto, già anziano, di candidarmi al Senato in un collegio non facile, ma nemmeno difficilissimo. Prima che rispondessi di no, dalle telefonate che ricevetti da esponenti politici locali di altri partiti, capii che avrei potuto ottenere un buon consenso. Ma dissi di no lo stesso: non sono un uomo politico, sono un cittadino che partecipa, come tanti altri, alla vita politica del suo paese.

Il commissario Montalbano

Dovevo per forza scegliere, dato che gli investigatori privati in Italia hanno campi limitati d´indagine, un investigatore istituzionale. O un poliziotto o un carabiniere. Scelsi un poliziotto perché mi sembrò potesse avere più libertà d´azione rispetto ai carabinieri i quali, essendo militari, devono obbedire a troppe rigide regole.
In sostanza, un poliziotto quando vuole capire le cose, le capisce; un carabiniere non ha scelta: non può voler capire o no. O capisce o non capisce.
La capacità investigativa di Montalbano è data dalla sua particolare forma mentis: un fatto qualsiasi, che forse non ha nulla a che vedere con l´indagine che si sta svolgendo, innesca fulminei rapporti e collegamenti, una sorta di reazione a catena che lo mette sulla strada giusta.
Un giorno mi portarono a casa una specie di grande quadro astratto, molto gradevole, fatto di puntini di vario colore. Non c´era una forma. Mi dissero di guardare fisso, mettendomi però a una certa distanza, i primi tre puntini che mi pareva potessero disegnare un triangolo. Mi misi a guardare e a un tratto tutto pigliò forma e m´apparvero la statua delle libertà e le due famose torri. Tutto si compose in un disegno perfetto. È il procedimento di Montalbano: dal dettaglio arrivare allo sguardo d´insieme.
***
Montalbano non è comunista, anche se un autorevole presidente della Commissione di vigilanza Rai ha dichiarato che «Montalbano trasuda comunismo». Montalbano, bene che vada, è quello che oggi si chiama un riformista.
L´ispettrice Anna afferma che Montalbano non è onesto, ma lo fa in un particolare e limitato contesto. Ora mi sento di poter affermare che tutti, come Montalbano, in certi particolari contesti, abbiamo rinunziato a un pochino (ma solo un pochino) della nostra onestà.
A me basta questo: che i lettori capiscano che Vigàta è teatro di forti presenze mafiose. Non intendo parlare di mafia - l´ho detto e lo ripeto - se non in forma marginale, nei miei romanzi. Farne i protagonisti di un romanzo anche scadente significa sempre e comunque nobilitarli. E io questo titolo non voglio concederglielo.
Il giudizio sul momento politico è una costante di Montalbano. Giudizio che naturalmente può non essere condiviso da una parte dei lettori. Uno di questi mi ha addirittura scritto che io non devo prestare le mie idee politiche a Montalbano perché il personaggio, ormai, appartiene a tutti. Ma quelle sono le idee di Montalbano, non le mie! Io non le condivido, le trovo troppo "centraliste"!
Ma volete mettere il rapimento di Abu Omar con i leggeri scarti alla legalità di Montalbano? Una cosa è il peccato mortale, almeno così ci è stato insegnato, e tutt´altra cosa è il peccato veniale.
La giustizia per Montalbano non è una fede nella quale si debba ciecamente credere. È un modo che l´uomo si è dato (e che nel corso dei secoli è andato via via cambiando) per regolare i rapporti fra esseri umani. La giustizia divina è tutt´altra cosa. Quindi Montalbano certe volte si discosta dal criterio comune di giustizia e capisce che lo sta facendo. Non si aspetta la folgore divina che l´incenerisca.
***
Una volta chiuso Montalbano, se sarà chiuso, non se ne parla neanche lontanamente di ricominciare una serie che abbia per protagonista un maresciallo che sia della Finanza, dei Carabinieri o della Forestale. Credo che la serie con Montalbano si chiuda e basta. E credo che si possa chiudere anche una serie che serie non è: quella dei romanzi storici e civili. Allora mi può chiedere: che farà dato che se non scrive non campa? Ci sono due strade: una porta a “Il medaglione”, che è un racconto d´occasione scritto per il calendario dei carabinieri e che Mondadori ha voluto pubblicare (e ci sono riusciti miracolosamente perché non riuscivo a capire come si potesse fare un volume da quell´esile raccontino), e un´altra arriva a “Il diavolo tentatore” uscito con Donzelli. Arrivato alla mia età, il verso di Palazzeschi, «Lasciatemi divertire», credo di volerlo fare mio e di scrivere cominciando a essere un po´ più libero per quel poco che riuscirò a scrivere.

© 2007 Lorenzo Barbera Editore Srl



Anteprima pubblicata su Liberazione, 25.10.2007

La questione meridionale

Entrando a far parte dell'Italia, la Sicilia si promuove da regione di scambio a dignità di regione di una nazione, che è tanto. Il prezzo che però paga materialmente è altissimo. E' assai più alto di quello dei lombardi per esempio. Nel momento in cui si va alla scelta tra annessione e federazione il novanta per cento dei siciliani dice annessione. E' questa la grande aspirazione, un'aspirazione che ci nobilita. Mentre moralmente dobbiamo molto all'Italia, l'Italia deve molto a noi dal punto di vista economico. Questa è la contraddizione che si crea al momento dell'Unità. Noi non possiamo ringraziare l'Italia solo a motivo di come socialmente ed economicamente si sono poi messe le cose. Paradossalmente sì. Verga, Capuana, De Roberto perché nascono dopo l'Unità? Perché è in quel momento che si sentono siciliani e pongono dunque la questione meridionale. La questione meridionale si pone non con i Borboni ma con l'Unità d'Italia. Ma tutta l'unificazione dell'Italia, non è stata voluta dall'alto?

Il dialetto

Questa faccenda del glossario (una novità che appare in “Filo di fumo”, ndr) mi alienò, per un certo periodo, l'amicizia di Stefano D'Arrigo. Avevo ceduto alle insistenze di Livio Garzanti mentre lui aveva saputo resistere a quelle di Vittorini. L'ho ristampato nell'edizione Sellerio perché mi divertiva, non certo perché lo ritenessi necessario. Nel frattempo il siciliano era diventato un dialetto comprensibile, anche grazie purtroppo all'orrendo dialetto parlato negli sceneggiati televisivi e nei film di quart'ordine. Annacquare il dialetto spiegandolo contestualmente in lingua, certe volte, moltissime, soprattutto agli inizi, mi è pesato troppo.

Montalbano

A Montalbano mancano, in “La forma dell'acqua”, (nel quale il personaggio compare per la prima volta, ndr) diverse sfumature del suo carattere parecchio complesso. Tra l'altro, ero rimasto non del tutto persuaso che il romanzo dovesse cominciare con un'alba vista con gli occhi degli altri e non con un'alba vista da Montalbano. Infatti, già in “Il cane di terracotta” l'alba è soggettiva, e lo sarà in tutti i romanzi della serie. La forma dell'acqua resterà unica eccezione. Fa differenza? Enorme. Perché da lì in poi ogni cosa è vista con gli occhi di Montalbano. E io, narratore, me ne posso stare a limarmi le unghie, come ha scritto Raffaele La Capria. [...] Dovevo per forza scegliere, dato che gli investigatori privati in Italia hanno campi limitati d'indagine, un investigatore istituzionale. O un poliziotto o un carabiniere. Scelsi un poliziotto perché mi sembrò potesse avere più libertà d'azione rispetto ai carabinieri i quali, essendo militari, devono obbedire a troppe rigide regole. In sostanza, un poliziotto, quando vuole capire le cose, le capisce; un carabiniere non ha scelta: non può voler capire o no. O capisce o non capisce.
[...] Un investigatore senza codici, giudici, Scientifica ecc, mi farebbe paura. Ma siamo così sicuri che Montalbano non tenga in nessun conto queste cose? E allora tutte le domande che fa a Pasquano, il medico legale? E al collega della Scientifica? Direi meglio che non ne fa una religione, e in questo senso è un eretico. Ma ce lo siamo scordati che Montalbano viene dal Sessantotto? Montalbano non è comunista, anche se un autorevole presidente della Commissione di vigilanza Rai ha dichiarato che «Montalbano trasuda comunismo». Montalbano, bene che vada, è quello che oggi si chiama un riformista. L'ispettrice Anna afferma che Montalbano non è onesto, ma lo fa in un particolare e limitato contesto. Ora mi sento di poter affermare che tutti, come Montalbano, in certi particolari contesti, abbiamo rinunziato a un pochino (ma solo un pochino) della nostra onestà. [...] La capacità investigativa di Montalbano è data dalla sua particolare forma mentis : un fatto qualsiasi, che forse non ha nulla a che vedere con l'indagine che sta svolgendo, innesca fulminei rapporti e collegamenti, una sorta di reazione a catena che lo mette sulla strada giusta.

La forma romanzo

Quando mi viene in mente un romanzo storico per prima cosa cerco, per linee generali, di organizzarne la fabula. E dopo mi fermo a lungo studiando tra me e me quale possa essere la struttura più giusta per quel racconto. Fino a quando non l'ho trovata non scrivo un rigo. Tra l'altro, non prendo mai appunti, faccio tutto a memoria. Per struttura intendo la forma. Epistolare? Dialogica? Tradizionale? Solo dialoghi senza però fare teatro vero e proprio? E l'autore? Interviene o no? Extradiegetico o no? Un misto di tutto questo? [...] Vede, io scrivo per la mia gioia di scrivere. Il giudizio è una cosa che mi interessa relativamente. Certo, fa piacere il giudizio positivo ma quello negativo non mi avvilisce. Ci si dimentica che io ho più che una quarantennale esperienza di teatro. Una volta la mattina compravo il giornale e trovavo la stroncatura e l'elogio insieme: questo mi ha reso un po' coriaceo. Non sono uno scrittore che dice «Oh Dio la critica», no. Ho troppi anni di regia alle spalle per non avere ricevuto stroncature ancora più severe di quelle che ricevo come scrittore, o elogi ancora più sperticati o seri. [...] Bisogna intendersi sul termine letteratura. Carlo Bo diceva valutando il mio lavoro che esiste letteratura di diversi livelli. Citando Simenon, diceva che scriveva gialli e che nessuno si sogna di negare che faceva letteratura. Sto rischiando di essere schiacciato da Montalbano, quando ho pure scritto per esempio “La mossa del cavallo”, che non è un libro di facile lettura. Allora rifacciamoci a Bo, il quale diceva che, nei riguardi della letteratura, l'atteggiamento di chi scrive non è lo stesso se è Graham Green, Simenon o Mauriac. Verissimo. Quindi io mi leggerei divertendomi come mi diverto con Maigret e mi leggerei con un'estrema attenzione se si trattasse del Testamento Donadieu. Quelli che sono i cattivi romanzi di letteratura uno semplicemente non li legge.

Mafia e istituzioni

Il mafioso d'una volta era detto «galantuomo». Credo che anche allora tutti sapevano chi era mafioso e chi no, solo che il comportamento esteriore del mafioso era da «galantuomo», cioè di chi rispetta la Legge, l'Autorità, la Famiglia, tutte con le maiuscole. Il mafioso voleva rappresentarsi come un uomo d'ordine. Cosa c'era dunque di tanto strano che frequentasse altri uomini d'ordine che rappresentavano le Istituzioni? Il diario di Franchetti, scritto durante il suo soggiorno in Sicilia con Sonnino per la nota inchiesta, riporta nomi e cognomi di alti funzionari dello Stato che con i mafiosi ci spartivano il pane.

L'Italia democristiana

Anche se non amo parlarne, non venni assunto in Rai, dopo aver vinto un concorso pubblico, perché ero comunista. Ma è stato l'unico caso di discriminazione che mi è capitato. Tre anni dopo però fu la Rai che mi chiamò per iniziare con me una certa collaborazione. Che durò trentacinque anni. Ah, sì, ora che mi ricordo, subii una seconda discriminazione: non ottenni il permesso per poter entrare in una nostra fabbrica d'armi. Ma era il tempo della Guerra fredda. Ora che il mio partito è diventato un partito di potere, con tutte le inevitabili transazioni, m'interessa sempre di meno.



Camilleri: come nasce una nuova lingua

Intervista di Gianni Bonina pubblicata su Rai Letteratura il 26.10.2011 e riproposta in seguito più volte ma sicuramente, a giudicare dai contenuti, risalente a prima di settembre 2004, con integrazioni successive. Brani dell'intervista sono stati poi pubblicati sul libro.

L’accipe è un gioco che consiste nell’evitare di dire parole in dialetto. Chi ne pronuncia una prende l’accipe e fa penitenza. Su come nascono i libri di Camilleri neppure lui ha le idee chiare se ha detto che forse è stato l’accipe a portarlo a scrivere un personalissimo italiano dialettato. Che ha molte analogie con la parlata siculo-americana, fatta di termini desueti e di proposizioni miste.
Avendo amato e frequentato Jerre Mangione, non può darsi che certe suggestioni siano venute a Camilleri da lui?
Può darsi. Ma devo dire che onestamente un certo interesse per il dialetto l’ho sempre avuto. Cominciamo da questo punto se vogliamo trovare le mie radici. Io avevo una nonna, Elvira, che mi leggeva non solo Alice nel paese delle meraviglie ma mi recitava anche a memoria, io appena un bambino, le poesie dell’abate Meli. E ricordo che mi piaceva molto sentire il suono del dialetto, per cui stavo lunghe ore ad ascoltarla. A casa mia del resto si parlava esclusivamente il dialetto e solo dopo molto tempo si è cominciato a parlare anche italiano. Sa che cosa mi faceva scialare? Qua, sotto casa, c’era una volta – sto parlando di quando potevo avere sei annuzzi – una sorta di magazzino. Ora c’è un negozio di tessuti. Là dentro facevano l’opera dei pupi con tanto di cartellone fora con le scene. Era un teatrino vero e proprio, con le panche e tutto quanto. Mi piaceva molto la storpiatura che facevano dell’italiano, cioè il tentativo che facevano di parlare in italiano. Cercano uno. “Andiamo a lo castello così lo potiamo trovare”. Non era una presa in giro di quei poveracci che si sforzavano di trovare la parola italiana, ma mi divertiva quello che veniva fuori da quei tentativi. Un giorno, diventato più grandicello, mi capitò tra le mani un libro straordinario di poesie. Non so dove è andato a finire. Era un libro stampato a New York negli anni Trenta e conteneva poesie d’amore scritte in quella lingua strepitosa che era l’italo-siculo-americano. Versi come “Tengo uno storo abascio città” mi rivelavano una lingua stupenda. Poi, tempo ancora dopo, lessi un romanzo di cui non ricordo l’autore, Stella, La Stella, che fu pubblicato da Garzanti: una storia deliziosa scritta in italiano ma con vocaboli della Bassa Padana. Lì fu che ebbi la prima intuizione che si poteva scrivere in quel modo. Io, naturalmente col mio dialetto...
Mangione?
Mangione scriveva in un bellissimo americano e quando parlava usava quella lingua siciliana desueta che nemmeno io riprendo più.
Ma allora La mossa del cavallo, con il recupero di idioletti infantili e giocato com’è sul significato di una parola sufficiente a imbastire un imbroglio, è frutto di questo terreno di coltura?
Io ci ho giocato eccome con le parole. Da piccolo passavo gran parte dell’anno in campagna, che poi era a due chilometri dal paese. E lì c’era un mezzadro, Minicu, col quale trascorrevo giornate intere ad ascoltare. Minicu mi raccontava le storie dei contadini e io lo pagavo con le sigarette Milit di mio padre. Con una di queste storie ho terminato per esempio l’intervento che ho fatto per la laurea honoris causa della IULM. L’uomo con due teste che parlano due lingue diverse che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro, ma che torna normale quando parlano la stessa lingua.
Insomma lei ha ripreso il mestiere dei demopsicologi ottocenteschi che andavano alla ricerca di tradizioni popolari, leggende e “parità”. Del resto anche Verga e Pirandello chiedevano da fuori ai loro corrispondenti in Sicilia di spedire loro proverbi e modi di dire siciliani...
Il mio corrispondente si chiamava Peppe Fiorentino, al quale ogni tanto facevo leggere i miei manoscritti. Lo chiamavo e gli dicevo: “Peppi, quando siamo in questa situazione come si dice?”
Quando lei fa leggere a Sciascia La strage dimenticata lui l’avverte che il dialetto non si usa in un saggio come in un romanzo e lei alleggerisce la parte saggistica. Anni dopo terrà ben conto della raccomandazione di Sciascia scrivendo Biografia del figlio cambiato...
In Biografia del figlio cambiato mi pare evidente che la presenza del dialetto via via viene meno con l’età di Pirandello fino ad arrivare a un italiano permanente. L’idea era infatti di mitizzare attraverso il dialetto l’infanzia di Pirandello e dunque l’uso che ne faccio è estremamente strumentale. Quanto alla raccomandazione di Sciascia, alleggerii molto il testo di dialetto, certo. La prima versione di La strage dimenticata, che dovrebbe trovarsi ancora alla Sellerio (perché io butto tutto: non c’è traccia del lavoro che faccio, nemmeno le bozze corrette), si intitolava “Digressioni per una doppia strage”. Poi prese un titolo più narrativo. Vede, il mio problema si poneva nei modi di un aut aut: o scrivevo in quel modo o niente.
Sciascia in realtà arrivava ad ammettere il “dialetto borghese”, quell’ibrido, diceva, di lingua e dialetto che con qualche arrotondamento diventa lingua.
E’ la stessa opinione che aveva Pirandello. Ma attenzione. Quando scrive, in quell’articolo intitolato "il teatro siciliano", col punto interrogativo, che solo il linguaggio borghese può essere in dialetto in quanto oggetto del dialogo stesso, io poi dico sissignore, ma poi scrive Liolà.
Pirandello diceva in un saggio su “La vita nuova” che non esiste una lingua nazionale e che ovunque si parla il provinciale. E semmai la lingua italiana esiste solo nell’opera scritta.
Nell’opera scritta ma anche nelle scuole. In questa polemica furibonda lui arriva a dire che è un errore pacchiano sostenere che Dante si è inventato l’italiano.
Sciascia ammette che Liolà riesce meglio in dialetto che in italiano, ma è perché conosciamo la versione in lingua che apprezziamo quella in dialetto. Insomma sia Sciascia che Pirandello non erano entusiasti del dialetto. E sia l’uno che l’altro sono suoi conterranei e suoi padri putativi: padri che l’hanno però contrariata.
E’ vero, ma torno a ripetere che ci sono spazi di necessità nei quali non posso muovermi per mia natura. Sono anche disposto ad alleggerire un saggio, ma nei romanzi storici non ce la faccio. Diverso è il caso dei libri di Montalbano che non hanno, se ci fa attenzione, la stessa carica dialettale dei romanzi storici – anche perché mi sono messo dalla parte dei lettori di romanzi gialli che devono soprattutto fare i conti con l’enigma della scrittura.
Tutto chiaro. Resta il fatto che lei è il solo a usare al massimo il dialetto. D’Arrigo si è fermato molto prima. Ci sarà qualche scaturigine particolare.
Vediamo. In realtà io venivo da un’esperienza che mi dava una certa fiducia. Ho avuto ragione a insistere e fidarmi della mia intuizione. E’ una cosa difficile a spiegarsi a parole perché si tratta di un’intuizione appunto. Ho cominciato a scrivere in italiano, veda i miei racconti e le mie poesie giovanili. A un certo momento, via via che vedevo aprirsi una certa strada, parlo di esperimenti di scrittura, mi sono trovato supportato dall’esperienza teatrale. Successe che nel 1950, a gennaio, venne a Roma una compagnia israeliana. Ohel, che significa la tenda. Recitava non in yddish ma in israeliano e fece tre testi il primo dei quali era “Sotto le mura di Gerusalemme”. Non si capiva nulla. Ma una cosa mi affascinò: il suono delle parole. Ascoltando lentamente capivi qualcosa. Notai nel testo degli accorgimenti per cui chiesi al regista come mai la recitazione era costruita in modo che l’ultima sillaba di una frase pronunciata da un attore fosse musicalmente legata alla prima dell’attore successivo. Mi disse: “Perché è liturgico. Stiamo ricostruendo questa lingua da una liturgia”. Ebbi un’illuminazione: guarda! Volendo si può! Gliene racconto un’altra. Sono stato presidente di giuria al Cairo dove c’erano 66 Paesi e decine di lingue. Io e il critico della Repubblica assistemmo a una rappresentazione teatrale e dopo un quarto d’ora non avevamo capito ancora niente. Finché all’improvviso capimmo. Era “Amleto”. Come lo capimmo non lo so, ma lo capimmo. E tenga presente che Ofelia aveva la barba.
Su questo gioco di lingue Pirandello cucì le tre espressioni del Ciclope, ricorda?
Pensò un Ciclope che parlava tre lingue. Una è il linguaggio di Minicu, del massaro. Prenda la parola “gramusceddru”: se uno non è un contadino non la conosce. E’ il vitellino appena nato, che trema sulle gambe e casca. L’altra lingua del Ciclope è quella di Catarella ed è parlata da Ulisse che usò un linguaggio più ricercato. La terza è la lingua del mafioso, tutta per cenni, accenni e sottintesi.
E di queste nuances lei ha tenuto fortemente conto dunque.
Soprattutto nel barare, cioè nel portare una parlata da un livello a un altro. Sa che ci si può commuovere su una parola persa e ritrovata? E’ capitato a me per Pirandello. Mia nonna Elvira mi chiamava “Pizzichiturro”, un termine adoperato solo da lei. “Chi nipoti pizzichiturro chi aiu”. Quando stavo scrivendo Biografia del figlio cambiato mi capitò di trovare qui sotto in cartoleria un libro con una cinquantina di lettere inedite di Pirandello alla sorella. Una di queste cominciava così: “Cara sorella pizzichiturra”. E a mia mi spuntarono i lacrimi. La parola si era persa nell’età di Pirandello e di mia nonna ed è morta lì.
Vittorini non scrisse una sola parola in dialetto; Sciascia usava il dialetto solo per gli epiteti, le massime e le citazioni; Brancati si preoccupava di tradurre subito un’espressione siciliana. Lei lascia il lettore solo a sbrogliarsela con termini che, come “gana” o “tambasiare”, non trova nemmeno nel vocabolario siciliano. E’ stata una prova di presunzione e di orgoglio la sua?
Di disperata presunzione diciamo. Quando per dieci anni nessuno mi ha pubblicato Il corso delle cose ero dispiaciuto ma mi rendevo conto che aveva ragione l’editore a dire “Ma come scrive questo?” E però sapevo anche che quella scrittura era un po’ un mio limite e un po’ la mia fortuna, ma non avevo una via di mezzo.
Però mise un glossario in Un filo di fumo. Ciò che non volle D’Arrigo. Chi aveva ragione, lei o lui?
D’Arrigo.
Pirandello diceva che il dialetto di Girgenti è uno strumento perfetto di espressione letteraria. Lei è d’accordo?
E’ quello che più di tutti si avvicina all’italiano. Condivido pienamente la sua opinione e infatti uso l’agrigentino.
Che non è in realtà il siciliano. E’ una particolarità.
E’ vero, tanto che Pirandello quando scriveva per il teatro si serviva del siciliano e non del girgentano perché sapeva che Musco, Rosina, Anselmi e gli altri attori non erano agrigentini: 99 per cento catanesi e uno per cento palermitani. E quando mi vengono a raccontare della zuffa con Musco io dico nossignore: non ci credo che sia nata per le gag di Musco e le libertà che si prendeva rispetto al copione. Uno come Pirandello vuole che non capisse? Non gli piacque la deformazione della parlata in catanese rispetto a quella che aveva scritto in agrigentino.
Sciascia diceva che in Liolà Pirandello non apriva ma chiudeva il dialetto. E spiegava perché: perché scritto in stato di ebbrezza, in pochi giorni, calandosi interamente in quella che chiamò commedia-villeggiatura, commedia-campagna. Ma lei è autore di lunga stesura.
Bisogna vedere. Io posso scrivere un racconto di Montalbano riprendendolo dopo sei giorni d’interruzione, ma Il re di Girgenti non l’ho mai potuto scrivere se non rileggendo tutto quello che avevo scritto prima.
Lei legge a voce alta il testo che scrive per fare alzare i personaggi in piedi. Solo Montalbano le rimase nel primo romanzo, La forma dell’acqua, con un piede in aria, che mise a terra solo nel secondo romanzo, Il cane di terracotta.
Anche prima, in teatro, leggevo sempre a voce alta. Ma questo non ha a che fare con la mia pronuncia dialettale.
Una volta lei ha detto che le piace leggere i documenti storici ma poi si lascia prendere dalla lettura e ci trova presenze gogoliane al punto da farsi vincere dalla “voglia di sgorbio”.
Lei mi dirà che è prova di scarsa fiducia nella storia. Può darsi. Per uno che come me ha certe convinzioni politiche non è segno di felicità dire una cosa simile. Ma in Il birraio di Preston c’è l’ultimo capitolo che è la storia come la si legge.
Già, solo che è tutta falsa o perlomeno ci sono forti sospetti.
La verità sa qual è? Che io scrivere saggi-verità non lo so fare.
Tanto che quando Sciascia le disse di scriverla lei La stagione della caccia ne fece un romanzo mentre lui ne avrebbe fatto un saggio. Anche Biografia è un racconto che parte come saggio. E infine c’è La bolla di componenda: lei vuole fare un saggio, ma poi decide di fare un esempio e finisce per scrivere un romanzo.
Sì, lo ammetto. Non sono mai riuscito a stare nei termini del saggio. Dopo un po’ mi sento stretto.
Eppure lei non parte mai da un dato inventato. Ha sempre bisogno di uno spunto di cronaca, di un punto di verità.
Sempre. Anche i romanzi di Montalbano che sembrano inventati partono da fatti di cronaca. E nell’ultimo, Il giro di boa, lo dico apertamente che la vicenda è ispirata a due inchieste giornalistiche. Anche nel primo, La forma dell’acqua, la trama parte da un fatto accaduto, il ritrovamento a Viterbo di un povero deputato morto in casa dell’amante. Io l’ho preso e l’ho fatto trovare tra i canaloni con i pantaloni abbassati.
Lei dice che non si occupa di mafia ma proprio “la forma dell’acqua” non è una bella metafora della mafia? Del resto, non credo per caso, Luparello viene trovato cadavere tra i canali di irrigazione che sono allegoria delle diramazioni dei comitati d’affari.
“La forma dell’acqua” è un’espressione pronunciata davvero da un bambino. Ma della mafia mi sono in realtà occupato nei romanzi storici, pur se di una mafia particolare.
C’è un libro sul quale lavora da anni e riguarda un martire fascista di Caltanissetta, Gigino Gattuso. Perché è rimasto per strada?
Per un motivo strano. Più che i fatti a me interessano due cose: il linguaggio (in La scomparsa di Patò le corrispondenze, oppure “Cose dette” e “Cose scritte” in La concessione del telefono) e la struttura. Io faccio un piano mentale, come un architetto fa un villino: quanti capitoli dovrà essere, che durata ha il respiro di ogni capitolo. Tutto questo io per Gattuso non ce l’ho ancora chiaro.
Non è perché non se la sente di fare i conti con il fascismo?
No, perché questi conti li faccio con La presa di Macallè, la cui struttura è però più tradizionale come romanzo. Gattuso esige una “planimetria” difficile. L’esperienza è mia, personale, di quando vidi a un’adunata di marinaretti a Caltanissetta, organizzata per celebrare Gattuso, un uomo piangere in un porticato. Mio padre mi disse che era l’assassino, ma non era vero. L’assassino era un altro, anche se quell’uomo sparò.
Cosa la intriga di questa storia? Il fatto che dal monumento hanno poi tolto la specificazione “fascista” e lasciato solo la parola “martire”?
Ma no. Mi interessa la contemporaneità dei fatti. Tutti sono convinti che ad ammazzare è stato quell’uomo. E invece no. Ne ho scritto una settantina di pagine e mi sono fermato.
I suoi libri non rivelano grande spiritualità, eppure lei è un uomo che sa piangere. Lo ha fatto anche leggendo Montale in treno. E lo ha fatto ritrovando, come diceva prima, una parola desueta. Veramente l’ha fatto anche quando fece la prima regia teatrale e su un giornale apparve una recensione positiva.
No, non posso dire come Flaubert “Madame Bovary c’est moi”.
Il giro di boa ha un finale aperto: Montalbano finisce in ospedale e non conosciamo né la diagnosi né la prognosi. Già allora lei pensò forse a un sequel che ora sarebbe La pazienza del ragno?
No. È andata così: per me Il giro di boa finiva lì; poi bisognava vedere come se la risolveva Montalbano. La ferita comunque non era grave. Semmai è più grave la crisi che sta attraversando. Vennero quelli della Mondadori: “Ce lo dai un altro libro di racconti di Montalbano?” Io l’anno scorso, da febbraio in poi, stetti male e scrivevo poco. A luglio, quando venni qui a Porto Empedocle, mi portai il computer (ciò che quest’anno non ho fatto) e presi l’impegno con la Mondadori più che altro per vedere se ero capace di mettermi all’opera. I racconti che do alla Mondadori diventano sempre più lunghi perché in sette o dieci cartelle non ce la faccio a starci e mi ci trovo a disagio. Quindi mi dissi che in linea di massima dovevo preparare tre racconti lunghi. Uno l’avevo scritto tempo addietro ma era tutto da rivedere, quello della cabala e del pesce: lo feci e attaccai col secondo, “La prima indagine di Montalbano”, e lo portai a termine. Restava il terzo e cominciai a scrivere “La pazienza del ragno”, ma mi resi presto conto che non ci stava nemmeno nella lunghezza delle cento pagine. La cosa era seria. Lasciando perdere il terzo racconto per la Mondadori, cominciai a scrivere quest’altro che diventava sempre più romanzo. Ora, siccome per i tre racconti mondadoriani mi ero proposto di escludere ogni fatto di sangue, La pazienza del ragno sarà privo di morti e feriti. Però mi venne come dire quasi naturale riattaccarlo ai momenti immediatamente successivi al ricovero di Montalbano. E infatti tutto il primo capitolo è un seguito de Il giro di boa: una lunga notte che Montalbano passa in ospedale pensando a quello che gli sta succedendo. Ma stavolta la sua posizione è marginale: lui è in convalescenza e Livia viene a trovarlo, ma è pregato di prestare il suo appoggio a un collega impegnato in un’indagine su un rapimento. Si trova perciò dentro e fuori l’indagine, ma quando l’inchiesta ufficiale si conclude, lui svolge un’indagine personale.
Entra in azione o fa lavoro di deduzione da fermo?
Entra in azione. Trova la conferma di una sua supposizione, saluta e ripiglia la sua convalescenza lasciando le cose come sono state messe dall’indagine ufficiale.
Diciamo allora che è il più irregolare dei romanzi di Montalbano.
Totalmente irregolare. Ma anche qui troviamo il Montalbano contrario a intervenire in una situazione illegale.
Sta per caso cadendo in depressione?
Non è depresso. E’ invece una persona che comincia a chiedersi troppo spesso il perché del continuo contrasto tra la sua coscienza e la legge. E questo pensiero a un certo punto lo logora.
Ne Il giorno della civetta compare alla fine una Livia parmense che dice di amare la Sicilia ma di non esserci mai stata. La sua Livia ligure invece non ama la Sicilia ma viene spesso. Uno strano caso di omonimia che integra anche un rovesciamento della stessa figura femminile.
Probabilmente è stato un transfert inconscio. Sa che me ne sono accorto dopo? Rileggendomi Il giorno della civetta mi sono detto: “Mannaggia, potevo cambiarle il nome!”. Devo dire però che la Livia di Sciascia non mi aveva colpito particolarmente forse perché scorciata e finale. Mi colpì di più quanto dice in tre frasi la moglie dell’eccellenza, nuda e bellissima, quando zompa fuori dal letto scocciata dalla telefonata notturna che riceve il marito.
In realtà, ancorché non si dica altro, lei è il meno sciasciano di tutti.
Non ho niente della lucidità razionale di Leonardo. Semmai sono più cardarelliano che sciasciano, un cinico che ha fede in quel che fa, distante rispetto a Sciascia, del quale comunque condivido il 90 per cento delle posizioni morali e civili: rimango sempre ammirato da questa sua lingua affilata come un bisturi.
Però ha detto che quando comincia a scrivere un libro non può fare a meno di leggere prima qualche pagina di Sciascia.
Sì, ho bisogno di una carica. Difficile che io vada a caricarmi con autori che magari leggo più di Sciascia. Mi carico più su una tensione dialettica che non consolatoria. Come in un buon matrimonio, gli sposi devono essere diversi per amarsi davvero.
A La pazienza del ragno dovrebbe fare seguito, secondo il suo rituale, un romanzo storico. Che, per quanto se ne sa, cade all’inizio del Novecento con un impegno di tipo sperimentale?
Preferirei non parlarne perché può darsi che l’idea abortisca e rimanga sulla carta.
Ma la sperimentazione resta un suo banco di prova irrinunciabile.
Assolutamente sì. Che cosa ho fatto quando ho scritto La concessione del telefono? Non ho che evitato il romanzo tradizionale scrivendo qualcosa che attiene più che altro al teatro, senza passaggi temporali e senza descrizioni. Quando ho scritto La scomparsa di Patò come autore mi sono completamente chiamato fuori dalla narrazione, per quanto ciò sia possibile. Come dire, sto cercando di portare ancora più a fondo un tipo di ricerca strutturale all’interno del romanzo.
È da tempo in realtà che lo fa, diciamo da sempre. Ma a me pare che non sia per niente soddisfatto dei risultati ottenuti e che stia provando a rompere il romanzo al suo interno.
Non credo al romanzo tradizionale, pur piacendomi. Del resto anche un romanzo che può sembrare tradizionale qual è Il re di Girgenti trovo che abbia una struttura squilibratissima.
Già. Mentre i gialli di Montalbano seguono un andamento paratattico con uno svolgimento più cronologico e ordinato, tranne forse Il cane di terracotta.
La scommessa era questa: avendo scritto solo romanzi storici, sono capace di scrivere un giallo? Ma attenzione: è vero che c’è un momento nel quale fai impazzire la maionese, ma è anche vero che dopo la puoi rendere immangiabile. Quindi se scrivi Montalbano non puoi permetterti di fare sperimentazione.
Il re di Girgenti romanzo tradizionale, ha detto? Beh, lo volle indietro dopo averlo dato a Sellerio per riscriverne metà. Anche lì giocò con la maionese eccome.
Le racconto tutta la storia. A settembre esce il secondo Meridiano e Silvano Nigro ha voluto i documenti non pubblicati del Re di Girgenti, da mettere in appendice. Dico di che si tratta. Quando scrivevo il romanzo mi trovavo davanti a un problema: “Come faccio a raccontare i fatti di Zosimo da quando ha 16 anni fino a 38 anni? Sono fatti privati ma anche avvenimenti internazionali.” Bisognava fare un libro di 1800 pagine, perlopiù noiosissime. Mi venne allora in testa di occupare questa parte centrale scrivendo tutta una serie di documenti finti, cambiando stile: dalla lettera privata alla nota ufficiale al documento. Mi trovai perciò con circa cinquanta documenti, che erano una meraviglia perché mi risparmiavano spazio e mi evitavano la caduta nella noia. Una volta scritto il romanzo, che mi portavo dietro da anni, fui ben felice di darlo alla mia lettrice primaria che è mia moglie, la quale mi disse: “Il racconto mi piace, però quelle pagine di documenti sono una mazzata in testa al lettore perché interrompono bruscamente il filo narrativo e dopo non lo riprendi”. Mi arrabbiai perché non convenivo. Mandai il libro a Elvira Sellerio: “Bellissimo, però…” Anche lei trovava pesanti i documenti centrali. Allora mi cominciai a preoccupare. Lo feci leggere a mia figlia Elisabetta: “Papà, ci sono quelle cinquanta pagine centrali che…” Va be’, mi sono detto, non è cosa. E lì il romanzo si fermò perché non sapevo trovare una soluzione. Finché la trovai. “Ma perché - mi dissi - mettere tutti i documenti? Metto quello che mi interessa”. E così ho fatto. Quando Nigro ha saputo che c’erano questi documenti espulsi me li ha chiesti per il Meridiano. “Non ce l’ho” gli dissi. Io non lascio tracce, butto via tutto quando un libro è finito. Il Fondo manoscritti di Pavia non avrà mai niente di mio. “Ma Elvira deve averli” dissi a Nigro. Elvira Sellerio li aveva ma aveva strappato le pagine per cui mancavano frasi e parole che Nigro si è messo a ricostruire e che ora escono in appendice.
Bene. Si ha la prova che Il re di Girgenti è anch’esso di tipo sperimentale.
Le dico una cosa. Nel Re di Girgenti il buon Zosimo copia le regole dell’abate Meli sul buon governo, sicché la mia sperimentazione non sarà mai come quella del Gruppo 63, anche perché non ho l’età, ma è una ricerca sulla struttura. Io ho rubato a tutti. E dico che è un mestiere di ladri il nostro. Non può essere diversamente: perché a me viene da ridere a scrivere Il re di Girgenti perché uno si trova di fronte alle tragedie greche e vede che tutto è stato scritto. A questo punto su che lavori? Sugli scampoli, sulle mollichine. <
Senza evocare Saint-Beuve né gli strutturalisti, secondo lei un suo romanzo può essere letto senza conoscerla? Un suo testo richiede o no che sia nota la biografia dell’autore per essere compreso a fondo?Il testo non ha niente che fare con l’autore, mi deve credere.
Ma nei suoi libri lei è presentissimo.
Certo, ma Il processo non riguarda la vita di Kafka. Io adopero materiali, che rivolto e riciclo.
Diciamo che più esattamente sperimenta. In realtà, a stare ai risultati utili, lei è andato ben oltre il Gruppo 63.
Piano, piano. Io ai lettori ci tengo e non faccio niente che non capiscano. Il massimo mio azzardo - e sapevo che avrebbe avuto reazioni negative - è stato La presa di Macallè, ma riguardava i contenuti e non il linguaggio.
Questa vocazione all’azzardo non le viene forse da Pirandello che innovò il teatro con la trilogia? E quella trilogia fu una proposta di teatro-verità o un gioco di astrazione? Alla stessa maniera, la sua ricerca tende al romanzo-verità o ne prefigura la rottura?
Allora. Nel momento in cui irrompono i sei personaggi che nella didascalia entrano in scena da un luogo terzo che non è né quello degli attori né quello del pubblico, abbiamo una finzione di irruzione della verità. La ricerca della massima verità è inevitabilmente la ricerca della massima astrazione, a mio avviso. Ma non scriverei mai una cosa che non avesse un relativo consenso. È il caso dell’autore teatrale: vuole che il pubblico capisca quello che sta dicendo, che dissenta o approvi non importa perché conta per lui stabilire la comunicazione. Per lo scrittore è la stessa cosa.
Ma dopo 110 regie teatrali, un migliaio di regie radiofoniche e un centinaio di regie televisive, lei ha maturato una capacità di comunicazione che le permette di rivolgersi a un pubblico dal target diversissimo. Come fa a cambiare così facilmente abito?
Non so spiegarmelo. Forse la lunga militanza teatrale mi ha dato la misura della destinazione di ciò che faccio. Quindi ne consegue che se faccio una cosa televisiva so che sarebbe un errore di comunicazione mettermi a fare sperimentalismi troppo azzardati. Tanto è vero che quando mi trovo tra le mani una sceneggiatura di Montalbano, io intervengo nel dialogo: primo, per evitare che uno degli attori non siciliani parli scorrettamente il siciliano; secondo, per rendere appunto più comprensibile quanto viene detto. Il senso della destinazione di ciò che scrivi ne importa anche un adeguamento.
L’oralità, ha detto, è per lei fondamentale. Oralità è soprattutto estemporaneità ma anche studio, copione, ciò che nel romanzo è stesura. Lei, che è autore di cento stesure, in che senso ritiene fondamentale l’oralità?
È una questione di tecnica. Io scrivo una pagina e naturalmente poi la revisiono. C’è dunque un primo grado della scrittura: cambio una frase, la esprimo meglio, e vado avanti così per diverso tempo. Quando penso di avere raggiunto quello che volevo dire scatta in me un secondo piano che è la lettura ad alta voce del testo. Leggendo, prendo un certo ritmo, do un certo colore, tanto che potrei raccontarla quella pagina come se l’avessi inventata in quel momento. L’inceppamento nel racconto orale è pregiudizievole sicché riscrivo tutto.
Le è capitato di scrivere un testo currenti calamo?
Mai. C’è sotto sempre una forte applicazione. Il mio ideale di scrittura è da trapezista: al circo lei vede eseguire un triplo salto mortale da parte di un acrobata che sorride e che non dà alcun segno di fatica mentre è chiaro che è stata grande la fatica cui si è sobbarcato per realizzare quel numero. La sua è una leggerezza sudata. Com’è la mia: mai fare capire al lettore che un libro trasuda di fatica.



Last modified Friday, August, 27, 2021