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E dopo?
Nota di un traduttore poco saggio


È stato Riccardino a farmici pensare. A me, giuro, non mi era mai venuto in mente. Camilleri ha detto “sarà la fine del personaggio” ed io ho letto “sarà la fine”.

Noi traduttori, che volete, abbiamo un rapporto speciale con lui. Anzi, con i suoi libri. Perchè quando tu, da lettore corrente (che è, senza dubbio, la condizione più bella, la più pura), leggi un romanzo, cerchi di gustarlo se ti piace oppure lo lasci perdere se non ti piace, e basta. Come una frittata. Se invece lo leggi perche ti tocca tradurlo, la lettura ne viene condizionata. Cerchi di far finta di no, ti sforzi per avere uno sguardo pulito e che l’approccio all’opera sia il più genuino possibile, ma è inevitabile che, ogni tanto, quelle pagine smettano di essere letteratura per diventare materiale. Materiale di lavoro. Però quando ti capita un Camilleri… Ah, quando capita un Camilleri le cose cambiano. Non puoi più cercare di ingannare i personaggi, facendo credere loro che il tuo occhio non è quello del traduttore che fra pochi giorni diventerai: non puoi perchè non vuoi. Il piacere di tradurre un Montalbano (o qualsiasi altro suo romanzo) comincia molto prima del leggerlo, anche prima di avere la copia tra le mani: parte dal momento in cui l’editore ti fa la richiesta. Ah, bello, pensi. Divertimento garantito, gioco. Sì, e anche sudore, difficoltà, strade senza uscita, ma vuoi mettere tu questa sofferenza, in confronto a quei libri piatti, tutti uguali, che ti fanno sentire quasi quasi un Google Translator? Inizi la lettura con l’acquolina in bocca, come quando arriva la torta a tavola e sai che già puoi procedere a tagliarla. La prima lettura è uno spasso, direi quasi quasi a prescindere dalla storia, dal contenuto, perchè ad ogni battuta, ad ogni catarellata, ad ogni gioco di parole, non puoi non prefigurare la risposta che darai tu, e anche se magari in quel momento non ti viene immediata, la sfida che rappresenta è uno stimolo positivo che ti rimane dentro, come l’oliva all’ascolana che sai che cela quella meraviglia dentro e che presto addenterai.

Rimango un po’ smarrito quando mi fanno la famosa domanda (e me l’hanno fatta miliardi di volte), “Ma come fai a tradurre Camilleri?” Smarrito perchè è una domanda a cui non si può rispondere a parole, e lo so bene perchè ci ho provato altrettante volte, ma niente. Per tradurre Camilleri devi essere un po’ come Camilleri. Cioè, devi avere la sua stessa malattia. Ti devi emozionare per una sfumatura verbale, devi perdere il senno per un gioco di parole, devi, sostanzialmente, amare la lingua. Le lingue. Va bene raccontare, per carità, provare gusto per la storia, incantarti con le fiabe, la fantasia. Ma se non vai matto per il linguaggio, se non rabbrividisci quando impari una frase fatta, se non vedi l’ora di sparare un modo di dire appena scoperto, se non sogni che vorresti imparare tutte le lingue del mondo, che lo traduci a fare? Non sei un degno traduttore di Camilleri, e lui non se lo merita.

I miei colleghi, nei seminari, negli incontri, nei siti, hanno descritto dettagliamente le difficoltà diciamo così tecniche dell’operazione. Le sottoscrivo tutte, le ho patite anch’io. Anzi, le capisco e le condivido ancora più di loro in quanto traduttore verso una lingua che, nonostante sia quella in cui fu scritto il primo codice civile d’Europa (ed il primo ricettario di cucina: El llibre de Sent Soví, tredicesimo secolo), spesso viene spostata in seconda fila per mancanza di Stato. Non è da scartare che il successo clamoroso dei libri di Camilleri in Catalogna abbia a che vedere col ruolo che vi gioca il linguaggio. Come a dire, nei miei libri il linguaggio è un personaggio in più, è un’identità, e chi vuole capire capisca. Ma comunque non volevo dire questo, i catalani amano Camilleri perchè sono dei buongustai; volevo dire che purtroppo esiste anche un altro lato della medaglia. Chiamiamola sindrome di astinenza, anche se è un po’ esagerato. Che si manifesta in modo particolarmente crudele quando traduci altri autori. Come li possiamo chiamare, quelli normali? La maggior parte degli scrittori sono normali, appunto, non sono afflitti dalla malattia di Andrea, e quindi usano il linguaggio come un materiale invisibile per raccontare. Non te lo fanno guardare, non ti fanno avvicinare la lente d’ingrandimento (alcuni diresti addirittura che non l’abbiano accostata nemmeno loro). Tu gliel’avvicini lo stesso, perchè in fin dei conti fai il traduttore, ma la tua parte di lettore no. E allora può subentrare la noia. Dipende, certo; dipende da quello che ti raccontano, mica la letteratura è solo forma, ovvio. Però la sfida cala, quello sì; le olive non sono più all’ascolana, e mentre tu stai lì, a rosicchiarne l’osso per assorbirne le ultime, evanescenti, tracce di sapore, sogni quando ti arriverà il prossimo cartoccio di questo frutto pieno, ricco e saporito che sono i romanzi, possibilmente quelli storici, del maestro.

Pau Vidal, marzo 2014



Pau Vidal e il Presidente a Vigàta, febbraio 2014


Pau Vidal Gavilán (Barcellona, 1967) traduce narrativa italiana contemporanea; oltre alle opere di Andrea Camilleri, ha tradotto fra l'altro Il Gattopardo. È autore dei cruciverba del quotidiano El País. Col suo primo romanzo, Home les, ha vinto il Premio Documenta 2002. Ha pubblicato quattro raccolte di cruciverba con Màrius Serra (tutte con Empúries) e il volumetto En perill d'extinció. 100 paraules per salvar (Empúries-labutxaca, 2009). Con Aigua bruta ha vinto il Premio di Letteratura Scientifica 2005; il protagonista di questo romanzo e di Fronts oberts, un filologo e detective seguace del linguista Joan Coromines, si chiama Miquel Camiller in onore di Andrea Camilleri.
«L'evidentissimo omaggio al Sommo ubbidisce in realtà a un caso del tutto casuale: il termine camiller sarebbe l'adattamento al catalano dello spagnolo camillero (portantino), ma non è stato mai ammesso dall'IEC e quindi ancora oggi viene considerato un barbarismo non accettabile. Senonchè, qualche anno fa, mentre preparavo delle prove per un quiz che facevamo in tivù, mi imbatto proprio in camiller nel vocabolario dell'IEC. Cacchio, questo cos'è?, mi dissi, hanno accettato il termine così, a taci maci? Invece no, in realtà camiller in catalano significa 'cantante di caramelles', che sono delle canzonette pasquali ormai semi-estinte e di conseguenza quasi sconosciuto. Così, un filologo che combatte per la lingua e si ritrova ad avere un cognome che tutti pensano sia un barbarismo mi sembrò una crudeltà degna di attraversare il Mediterraneo.»

 



Last modified Monday, May, 29, 2017