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Maruzza Musumeci



Autore Andrea Camilleri
Prezzo € 10,00
Pagine 140
Data di pubblicazione 31 ottobre 2007
Editore Sellerio
Collana La memoria n.727
e-book € 6,99 (formato epub, protezione acs4)


«Mi sono voluto riraccontare una favola. Perché in parte la storia del viddrano che si maritò con una sirena me l’aveva già narrata, quand’ero bambino, Minicu, il più fantasioso dei contadini che travagliarono nella terra di mio nonno».

La storia comincia a Vigàta nel gennaio del 1890. Gnazio ritorna dall’America dopo 25 anni di assenza. Ci era andato a lavorare giovane perché in paese era rimasto solo. Sapeva solo arrimunnari gli alberi, ma alla perfezione tanto da essere assunto a New York come giardiniere. Poi, una brutta caduta da un pino, i soldi dell’assicurazione e il ritorno a Vigàta con un piccolo gruzzolo, sufficiente a comprare un pezzo di terra. Se ne era innamorato subito Gnazio, perché al centro di quella terra, stretta tra cielo e mare, troneggiava un ulivo secolare, la gente diceva che aveva più di mille anni. La terra era rinata con le sue amorevoli cure, rivoltata e bagnata, popolata di animali, abbellita da una costruzione tirata su pietra su pietra e ora a 45 anni Gnazio era desideroso di farsi una famiglia.
E’ l’esperta di erbe e guarigioni, la vecchia Pina, a trovargli una moglie - Maruzza Musumeci bella come il sole. Chi sa perché quella ragazza non aveva mai trovato marito. Forse per certe sue stramberie? Per quella voglia irrefrenabile di acqua di mare, per quella lingua straniera che le fioriva in bocca? E poi la voce di Maruzza, una voce che era una melodia. Le nozze, poi i figli. La famiglia di Gnazio e Maruzza cresce, prima nasce Cola, poi Resina, anche lei dalla voce ammaliante, poi Calorio e Ciccina, e cresce anche la casa… Non vogliamo anticipare altro di questa favola che attraversa un secolo e che si conclude nel 1943 alla morte di Gnazio.
Vi si intrecciano mito e storia, ma anche arte, architettura, astrologia. Una fantasia sconfinata imbrigliata nel racconto di una vita vissuta intensamente. Il più poetico romanzo di Camilleri.

Bisogna «chiudere gli occhi “pi vidiri le cose fatate”, quelle che normalmente, con gli occhi aperti, non è possibile vedere».

Del romanzo è stata eseguita una lettura in musica a cura di Rocco Mortelliti e Paola Ghigo.


Questo «cunto» è una maneggevole sto­ria naturale delle Sirene. E anche una «storia morale». La vicenda si svolge a Vilgàta, tra Ottocento e Novecento. In contrada Ninfa, che è una lingua di ter­ra sul mare: un'isola immaginaria, odis­siaca, che figura ancora sulle rotte dei mi­tici navigatori; ed è visitata dai sogni in­compiuti e dalle metamorfosi di pesca­tori, naiadi, e creature marine. Le Sire­ne non sono pesci con il rossetto. Sono donne feconde, terribilmente seducenti. Vivono tra gli uomini. Abitano gli stessi luoghi, ma non vivono nello stesso tem­po. Vengono da una profondità di mil­lenni: sono troppo vecchie o troppo gio­vani, al di sopra della vita e della morte. Hanno uno sguardo lungo sul passato. E un'immota fissità di ricordi. Non hanno dimenticato 1'offesa di Ulisse. Sono le ve­stali e le vittime del loro segreto. Il ran­core e il desiderio di vendetta risveglia­no in esse l'animalità selvaggia. Cercano però un'uscita dalla ferinità, per entrare nel tempo degli uomini. Il «cunto» di Ca­milleri è una poetica favola vichiana. Maruzza e !a sua bisnonna parlano in gre­co tra di loro. Ed è sui versi dell'Odissea che le due Sirene verificano eventi ed emozioni. Il loro canto è sensuoso. Ma sa essere pure un complotto d'acque, un irresistibile richiamo di onde e scogli. Maruzza e la bisnonna si disfanno dei fantasmi finalmente sconfitti di Ulisse e della sua genìa. E individuano nel brac­ciante e muratore Gnazio Manisco, che dall'America è tornato nella sua Itaca vi­gatese, odiando il mare e viaggiando sempre sotto coperta, un anti-Ulisse. Maruzza si sposa con Gnazio. Felice­mente. Comincia la vita nuova di una Sirena con marito e figli. La famiglia del­la Sirena convoglia cielo e mare. Il primogenito Cola diventa astronomo. Sco­pre una stella. La chiama Resina, con il nome di sua sorella, la Sirenetta. Nel 1940, Cola rientra dall'America nell'I­talia in guerra. La sua nave viene affon­data. La Sirenetta corre dal fratello. Con lui si inabissa per sempre, là dove si apre una grotta dentro una campana d'aria. In quella grotta la letteratura aveva già portato l'avvocato Motta di un romanzo di Soldati. In quella «dimora» aveva realizzato il suo «sogno di sonno» l'ellenista Rosario La Ciura del raccon­to La sirena di Lampedusa. La guerra ha i suoi naufraghi. Un giovane soldato americano finisce sull'isola immagina­ria di Vigàta. E steso sotto un ulivo sa­raceno. Prima di morire accosta all'o­recchio la grande conchiglia indiana del­le Sirene. Muore consolato dal canto della bisnonna e della Sirenetta. Le Si­rene non uccidono più. Amano e soc­corrono. Come nel racconto di Lampe­dusa. E come nella Sirenetta di Andersen. Il «cunto» di Camilleri è, infine, e sorprendentemente, un «cunto de li cunti».
Salvatore Silvano Nigro



Anteprima pubblicata su La Stampa, 31.10.2007

Per un misi, ogni volta che la gnà Pina passava per la trazzera e vidiva a Gnazio, isava un vrazzo in aria e agitava il pollice e l’indice della mano a significari che ancora non aviva nenti a vista.
Po’, ’na sira, la vecchia arrivò, s’assittò sutta all’aulivo e inveci della solita tanticchia d’acqua spiò un bicchieri di vino.
«Stavota la cosa mi pare seria» disse.
Gnazio portò un sciasco intero con dù bicchieri. Vippiro ’n silenzio.
Appresso la gnà Pina ’nfilò ’na mano dintra alla pettorina e cavò un pezzo di cartoni rettangolare che però non fici vidiri a Gnazio.
«Quant’avi ’sta picciotta?».
«Trentatri».
«Beh, non si pò diri tanto picciotta. E com’è che ancora non...».
«Ve lo spiego appresso».
«Nascì a Vigàta?».
«Sì e no».
«Che significa sì e no? O è di Vigàta o nun è di Vigàta ».
«Nascì ’n mezzo al mari aperto».
Gnazio si sintì ’ntrunari.
«Spiegativi megliu».
«Sò matri s’attrovava nella varca di sò marito e dovitti sgravare accussì, alla picciliddra la lavaro con l’acqua di mari».
«Avi doti?».
«No. È povira. Ma avi ’n’autra cosa».
«Che è?».
«Ve lo dico appresso».
«Scusati, gnà Pina, ma se mi doviti diri tutto appresso, ora di che minchia parliamo?».
«Beh, vi pozzo intanto diri che sò patre, quanno lei aviva cinco anni, niscì con la varca, vinni ’na timpesta e non tornò cchiù. Sò mogliere morse l’anno appresso per il dolori di cori. Allura la picciliddra vinni pigliata ’n casa di sò ziu ’Ntonio, un frati di sò patre, che macari lui era piscaturi».
«Era?».
«Sì, pirchì macari lui annigò».
Alla larga da tutta ’sta genti di mari!
«Sintiti, gnà Pina...».
«Facitimi finiri. Allura la picciotta accomenzò a dari adenzia alla zia che era malata. E arrefutò di maritarisi fino a quanno la zia campò. Ecco pirchì è arrivata schetta a trentatrì anni».
«Ma ’sta zia è morta ora?».
«No, tri anni passati».
«Gnà Pina, attenta che a mia per fissa non mi ci pigliate».
«Non vi staio piglianno per fissa».
«E allura come me lo spiegate pirchì tempo tri anni la picciotta ancora non s’è fatta zita?».
«Pirchì, pirchì...».
«Me lo potiti diri almeno come si chiama?».
«Si chiama Maruzza Musumeci».
Il nomi gli piacì.
«Allura, gnà Pina, me lo dicite quello che state pirdenno tanto tempu a dirimi?».
La vecchia s’impacciò, scatarrò, sputò.
«Ecco, vi devo diri che lei si credi d’essiri ’na cosa che non è. Ma io ne canoscio a tante di pirsone che si cridino d’essiri ’n’autra cosa di quello che sunno. Pri sempio, l’accanoscite a don Sciaverio Catalanotti?».
«Quello che a Vigàta vinni scarpe?».
«Preciso. Che vi nni pari di testa?».
«A mia pare sano di testa».
«Lo sapite che si cridi d’essiri un aceddro?».
«Davero?».
«Davero. Me lo dissi a mia mentre che lo curavo di sciatica. E l’accanoscite a zù Filippo Capodicasa?».
«L’accanoscio. Gnà Pina, arrivamo alla ràdica. Pirchì ’sta picciotta non s’è ancora maritata?».
Prima d’arrispunniri, la vecchia si vippi un bicchieri di vino sano sano e doppo raprì novamenti la vucca.
«La voliti sintiri tutta?».
«’Nca certo!».
«Pirchì Maruzza pinsava che come fìmmina fagliava di una parti ’mportanti e perciò non era capace d’aviri a chiffare con un omo».
«Nenti ci capii. Voliti spiegarvi meglio?».
«Diciva che lei non teneva la natura, che era nasciuta diversa, che aviva sì le minne, ma che non teneva lo sticchio».
«Avà! Ma che mi vinite a contare!».
«Ve lo giuro».
«E pirchì diciva accussì?».
«Pirchì si cridiva d’essiri un pisci».
«Un pisci?!».
«Pisci pisci, no. ’Na sirena».
Gnazio si sintì pigliato dai turchi.
«’Na sirena di papore? Quelle che friscano ’n partenza e in arrivo?».
«Ma che minchiate dicite! Ca quali papore e papore! Non lo sapiti che è ’na sirena?».
«No».
«È una vestia marina. La parti di supra, fino al viddrico, è di fìmmina cu dù beddri minne, la parti di sutta è a cuda di pisci. Infatti la sirena non pò caminare, ma nata».



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